Umanitarismo, riconciliazione, educazione alla convivenza. Ci vuole coraggio e testardaggine per parlarne in questi tempi oscuri di odi religiosi, etnici e culturali. Intercultura ne ha fatto addirittura l’oggetto del convegno “Saper vivere insieme” (Trento, 1-3 maggio, in occasione del centenario dell’Afs, che di Intercultura è madre) fondato su una quindicina di workshop in cui i relatori spiegheranno come stare insieme tra diversi è, è stato e sarà possibile. O come la differenza possa essere valore positivo anche in questo strano mondo in cui la tecnologia ci ha avvicinato come mai prima e, forse, questa ipervicinanza ci spaventa e crea mostri della mente e mostruose ideologie di morte e paura.
Roberto Toscano, una vita da ambasciatore (India e Iran), ora presidente della Fondazione Intercultura, spiega così la genesi di questa scelta: «Lo so che parlare di questi temi è molto difficile. Ma non è mai stato così urgente. Oggi, la capacità interculturale è un dato di sopravvivenza per la società». Mettere insieme convivenza e diversità è apparentemente facile. Gli italiani, 50 anni fa, quando vedere una persona di colore in giro per le strade di una nostra città era molto raro, pensavano che il razzismo non li riguardasse: «Oggi», dice Toscano, «la tensione è inevitabile. Ma indietro non si può tornare. E neanche i modelli utilizzati in altri Paesi, dall’assimilazione francese alla multiculturalità inglese sembrano funzionare». I francesi hanno promesso cittadinanza e pari opportunità a tutti: «E adesso, davanti alle promesse mancate, si trovano a fare i conti con le giovani generazioni di origine magrebina che cercano risposte nel ritorno alle tradizioni religiose estremizzate».
Gli inglesi hanno inventato la multiculturalità, “ognuno sta qui come vuole”: «Ma anche la multiculturalità è fallita», prosegue Toscano. «La strada è quella di riconoscere, attraverso il dialogo e lo scambio continui, il valore positivo della diversità. È già successo. Non è la prima volta che arrivano i barbari, gli arabi, i greci. Noi tutti siamo frutto di diversi meticciati».
Così il convegno esaminerà il complesso tema della convivenza dopo il conflitto a partire da esperienze come quelle irlandese, sudafricana, basca, dove le lacerazioni sono state profonde, ma la ricucitura, a poco a poco, c’è stata ed è ancora in corso. «Così, nell’anno del centenario, Intercultura torna alle sue origini. Non siamo in campo per insegnare le lingue ai ragazzi, ma per mettere i semi di una convivenza in cui s’impara dall’altro, in cui si restituisce una faccia al prossimo e si mettono da parte le categorie stereotipate».
Allora da che parte cominciare nel conflitto Occidente - Islam radicale? «Cominciamo col non farci coinvolgere nell’idea di un conflitto di civiltà. Io mi sento più vicino a un moderato islamico che a un razzista nostrano. Non c’entrano neanche le religioni. Tutte, prima o poi hanno prodotto versioni violente di se stesse. E i giovani che scelgono la Jihad sanno poco di religione e cercano solo identità forti. Quelle su cui si basano tutte le utopie reazionarie: madri patrie, nazionalismi, purezze etniche… ». Qualcuno studia da decenni le strade per la gestione non violenta del conflitto. Come Pat Patfoort, antropologa fiamminga che a Trento gestirà un panel dedicato al modello “Maggiore-minore-equivalente” da lei elaborato per sanare i conflitti (da quelli personali a quelli internazionali). In sintesi, il modello “maggiore/ minore” è quello tipico che porta a scontri e guerre. Quando abbiamo un problema (o quando un popolo ha un problema) spesso è portato a identificare il colpevole in una persona o gruppo i cui comportamenti e modi di pensare vengono etichettati come negativi o sbagliati: antisociali, primitivi, sottosviluppati. Portare un popolo al conflitto contro questi gruppi identificati come capri espiatori, non è difficile. Storia e cronaca sono piene di esempi. Per uscire da questo schema, Patfoort costruisce il modello dell’equivalenza. Spesso sono i terzi “pacificatori” a doverlo mettere in campo. È il modello dell’equivalenza in cui si evita di identificare buoni e cattivi ma si guarda a entrambe le parti, alle loro ragioni e al loro dolore. E ciò che accade non viene attribuito alla cattiveria di una delle parti, ma emerge come frutto dell’escalation dei fatti.
Certo, nei conflitti attuali non è facile che le parti si dispongano facilmente a cambiare modello. «Non importa chi comincia », spiega Pat Patfoort. «È sufficiente che una delle due si muova in quella direzione. In Belgio ci sono gruppi moderati islamici che si sono dati il compito di spiegare che l’Islam non è quello disegnato dall’estremismo ». Un lavoro da fare in profondità ma che può, anzi deve, partire dalle persone, dalle famiglie, dal “mio villaggio”: «Dobbiamo cominciare da noi stessi per imparare a riconoscere che gli altri hanno padri e fratelli come noi». Insomma, un cambio di mentalità non facile da ottenere, ma la sfida può essere affrontata.