Questa spending review somiglia sempre di più a una ennesima manovra economica correttiva. Il nome solo di manovra ci viene risparmiato, forse per incutere meno spavento dinanzi allo spettro di ennesimi sacrifici improduttivi richiesti da sua maestà il rigore. La sostanza purtroppo non cambia. Ed è la prosecuzione di tagli (lineari?) che paiono destinati a incidere sulla qualità dei servizi e quindi sulla vita delle persone. Le forbici sono ancora una volta lo strumento principale brandito dal governo per affrontare il riordino dei conti pubblici rimasti fuori controllo. Dopo vent’anni di retorica federalista, che innalzava il mito della periferia come l’antidoto più efficace agli sprechi annidati nella grande macchina statale centralista, si scopre che proprio la devoluzione di poteri ai territori rigonfiava la spesa spingendola al di là di ogni possibile contenimento.
Allo Stato nazionale che con politiche pubbliche dà forma inclusiva al territorio, l’asse del nord ha opposto l’immagine del territorio che de-forma lo Stato e sconquassa la cittadinanza. Il risultato perverso non si è fatto attendere: meno diritti, con più spese e più tasse. Eppure, ben altre erano le promesse del ventennio, la cui ideologia era condita con delle dosi massicce di retorica aziendalista. La ricetta era molto semplice: immettere i codici dorati del mercato nella città, i canoni di comando propri dell’azienda nell’amministrazione, gli stampini della sacra proprietà privata nella sfera pubblica e tutto funzionerà alla perfezione, con costi ridotti e rendimento assicurato. La chiacchiera aziendalista sull’efficienza e l’efficacia degli obiettivi gestionali verificabili, il lessico economicistico che irrompeva nel cuore dell’amministrazione trasferendovi pratiche negoziali o la forma privatistica del contratto, ha prodotto però solo incertezze, irrazionalità, sprechi ulteriori. Il liberismo, promosso come paradigma unico di una governance multilivello situata oltre lo Stato, ha registrato un clamoroso fiasco, di cui poco si parla. Al di sotto del credo aziendalista, riverito come una nuova divinità, rimaneva in questi anni la realtà frammentata e diversificata che ha accompagnato lo Stato unitario sin dalle origini. E cioè regioni (soprattutto quelle centrali, eredi del grande riformismo sorto all’ombra della subcultura rossa) con una spiccata capacità di governo e di innovazione, malgrado le restrizioni e i tagli, e altre esperienze territoriali invece contrassegnate da sprechi, inefficienze, parassitismi. Il fallimento del miscuglio perverso di federalismo e aziendalismo, che si è rivelato un fattore di irrazionalità e di decrescita, non viene affatto sfiorato dalla spending review, che anzi s’abbatte alla cieca su tutto il comparto pubblico, senza nessuna apprezzabile lettura delle segmentate situazioni concrete.
C’è un odio del pubblico che inquieta. Anche la consueta demonizzazione delle società partecipate dai Comuni, denunciate in quanto tali come la spia di chissà quale devianza criminogena, da curare con le nuove ondate di privatizzazioni, appare del tutto incomprensibile. Spesso proprio dalla partecipazione a enti e servizi, i Comuni traggono le risorse minimali oggi necessarie per conservare nei territori le tracce di una antica civiltà di buon governo, preservata miracolosamente da bravi amministratori malgrado la drastica strozzatura delle entrate. Che grazie a una raffica di tagli più o meno lineari nell’intera macchina pubblica si possano risanare i conti e favorire la crescita è soltanto un atto di fede preteso dall’ortodossia liberista ancora imperante.
Oggi domina uno strano statalismo liberista che, in spregio a politiche pubbliche capaci di coesione sociale, conquista il centro del potere e impone con decisioni dall’alto ulteriori dismissioni, tagli, semplificazioni, chiusure, privatizzazioni, dirottamenti di risorse per le grandi banche. Costruire un deserto di diritti di cittadinanza, favorire una eutanasia delle politiche pubbliche e poi confidare nel miracolo della crescita spontanea degli spiriti animali è però una credenza veteroliberista del tutto assurda in tempi di cruda recessione che mostrano come la crisi del mercato non sia meno profonda della crisi dello Stato. La ripresa economica non può in alcun modo prescindere da una rinnovata stagione del pubblico (inteso alla maniera di oggi: non solo Stato, ma enti territoriali molteplici, settori di società civile). Essa non può quindi che partire dai livelli più vicini alle inquietudini e ai bisogni dei cittadini, cioè dalle autonomie locali che devono partecipare alla gestione di grandi obiettivi pubblici condivisi.
E se, per la crescita, invece delle cieche forbici alla Tremonti, che in realtà ci vedono bene perché spostano la domanda sociale dai beni pubblici ai beni privati, si usasse per una volta un po’ di sana cultura delle istituzioni democratiche?