In meno di venti anni arriverà nei prossimi giorni il terzo condono edilizio. Dopo i governi Craxi e Berlusconi I anche il governoBerlusconi II lega il suo nome alla cultura dell’illegalità e allo scempio dell’ambiente.
Si parla di oltre 360 mila edifici illegali realizzati a partire dal 1994, senza contare gli abusi più piccoli o quelli che il solo annuncio del condono ha già messo in moto. Ricordiamo che oltre agli "ecomostri" tristemente famosi (ad esempio: Fuenti e Punta Perotti) sono soprattutto i piccoli cambiamenti a modificare senza ritorno il paesaggio e ad incidere sul rischio idrogeologico del nostro Paese. Si parla di piccoli abusi ma resta da domandarsi, dopo l’approvazione della superDia, se esiste ancora nel nostro Paese il piccolo abuso, che a rigore di logica dovrebbe riguardare solo le opere interne ed è quindi già “legale” con la superDia. Rimane il fatto che "piccolo" o "grande", l’abuso rimane sempre un abuso ed il condono edilizio è ormai una prassi consolidata nel nostro Paese, mentre è sconosciuto nel resto d’Europa: mediamente possiamo contare in Italia su un condono ogni nove anni.
Purtroppo anche negli abusi edilizi il nostro Paese non è tutto uguale: è, infatti, il Mezzogiorno che sarà devastato da questo insensato provvedimento (mentre ad esempio la Valle d’Aosta non sarà neanche sfiorata), che ancora una volta non sarà accompagnato da misure che garantiscano dal ripetersi del fenomeno abusivo. Il condono non è solo la negazione della pianificazione, della moralità e della legalità, ma è anche l'ennesimo segnale del deterioramento della cultura del territorio che avanza con i provvedimenti contro l’ambiente che hanno caratterizzato gli ultimi anni (dalla superDia, alla modifica della Via, alle gradni opere). Questo deterioramento ha fatto dire Sindaco di Eboli: oggi non potrebbe più abbattere i 400 edifici abusivi come feci solo tre anni fa.
Il ripetersi del condono comporta tre quesiti:
1. Chi ha fatto i conti? Oggi i comuni e il catasto sono ancora impegnati nello svolgimento delle pratiche dei condono precedenti (si parla di oltre 400.000 pratiche arretrate). Quale è il senso di fare cassa nell’immediato a livello nazionale per scaricare gli oneri e i costi a breve termine sugli enti locali (urbanizzazioni e servizi oltre che lo smaltimento delle pratiche) e a lungo termine sullo stesso Stato centrale per porre rimedio alle devastazioni del territorio?
2. Ma l’urbanistica e il territorio non sono già di competenza regionale? Quali poteri si vogliono dare con le riforme della Costituzione ai poteri locali e regionali se oggi gli si toglie perfino la possibilità di governare e pianificare quello che è già di loro competenza: il proprio territorio.
3. Dove è l’urgenza? Il decreto d’urgenza è incostituzionale perché dovrebbe essere utilizzato solo in casi particolari e imprevisti, mentre di condono il governo Berlusconi parla da tre anni, in occasione di ogni finanziaria.
Il gioco delle parti tra ministri caldi, tiepidi e freddi davanti al condono non riesce a nascondere le responsabilità di tutto il governo e in particolare del ministro Tremonti che si iscrive di diritto tra quelli che Antonio Cederna chiamava "energumeni del cemento armato" in compagnia di Craxi, Nicolazzi, Radice, Lunardi e Berlusconi.
Come per altre prassi introdotte dal nostro Paese nell’ambito della finanza creativa, ricordiamo la vendita degli immobili pubblici e dei beni di pregio artistico, anche sul territorio si mira a fare cassa dimenticando tutto il resto: in questo caso le tante frane, alluvioni e terremoti che interessano il nostro territorio con preoccupante frequenza. Tra qualche giorno cade l’anniversario del crollo di San Giuliano che commosse tutto il Paese e fece gridare a tutti i giornali, gli intellettuali, i sindaci e i ministri: mai più condoni nel Paese del dissesto idrogeologico e dei terremoti. Acqua passata?
1. Lo stato del territorio in cui si inserisce il condono
1.1. La fine della città
Requiem e fine della città italiana: è questa la conclusione cui perviene chiunque analizzi le vicende dei tredici comuni maggiori in relazione ai dati del Censimento 2001.
Le ragioni di questa affermazione risiedono anzitutto nel dato complessivo: Torino, Milano, Venezia, Verona, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo, Messina e Catania hanno perso complessivamente dal 1991 al 2001 un quasi 700 mila persone. Per intenderci è come se, a titolo di esempio, da Torino (dove la popolazione è scesa del 10.1%) si fosse staccata una città della dimensione di Terni o di Alessandria; da Milano (-8.3%) una città come Bergamo; da Genova (-10.1%), Napoli (-5.9%) e Firenze (-11.7%) una città come Foligno; e da Roma (-6.8%) una città come Verona o una volta e mezzo la Valle D’Aosta.
La grande città italiana del dopoguerra, di cui parliamo, è la città, come l’abbiamo conosciuta sino ad oggi: dopo la città antica, quella medievale, rinascimentale e ottocentesca anche la città industriale, che taluni nelle sue ultime espressioni hanno chiamato post-industriale, è giunta al suo termine. Applicando lo stesso tasso di riduzione del decennio 1991-2001, è possibile supporre che Venezia, Milano, alla metà di questo nuovo secolo avranno diminuito della metà la loro popolazione del 1991. Già oggi Verona, Bari e Roma hanno meno popolazione del 1971; Torino, Bologna, Messina e Catania del 1961; Milano, Venezia, Genova, Napoli e Firenze del 1951. I grandi numeri sono dovuti al saldo naturale negativo, che si manifesta in misura maggiore nelle grandi città, ma cresce in modo sostanziale anche il saldo migratorio di segno negativo.
In queste constatazioni non vi è alcuna nostalgia per l’espansione senza regole che ha caratterizzato questo modello urbano. E’ bene ricordare quanto affermato da Vezio De Lucia:
(…), sono gli anni-dice riferendosi a questo secondo Dopoguerra - nei quali si è scatenata una devastazione senza confronti con il passato ... Fino al fascismo città e paesi erano ancora separati dalla campagna, il paesaggio rappresentato dalle foto aeree della Raf del 1943 non era tanto diverso da quello attraversato da Guidoriccio da Fogliano. Fino al 1951, era stato costruito circa un decimo del volume edilizio esistente ai nostri giorni … Negli ultimi cinquant’anni, lo spazio urbanizzato è aumentato almeno di dieci volte, cioè del 1.000 per cento, mentre a Roma, che fra le grandi città è quella cresciuta di più, l’incremento di popolazione non ha superato il 60 per cento.
Le grandi città italiane hanno assunto un modello metropolitano “maturo” che si andrà sempre più consolidando, un fenomeno iniziato dagli anni Settanta e divenuto consistente negli anni Ottanta e Novanta, in linea con quanto già avvenuto in USA e nelle grandi metropoli europee. La novità, per quanto riguarda l’Italia di questo ultimo decennio (1991-2001), è nell’arresto dell’incremento di popolazione nella provincia dei tredici grandi comuni, che non riescono più, in numerosi casi, ad attrarre dei nuovi abitanti in numero maggiore di quelli che perdono. Il fenomeno noto in altri Paesi europei e americani, anticipato dal caso Milano in Italia, è ormai giunto anche da noi: la contro-urbanizzazione. Un’analisi più attenta dimostra, come è evidente dall'esperienza quotidiana di ognuno di noi sull’aumento del caos urbano, che le popolazioni che usufruiscono della città sono aumentate. Le popolazioni residenti "espulse" dalla città continuano a riversarsi nella città per svolgere le attività o “consumare” il tempo libero. Le città in cui si va attestando la popolazione italiana sono quelle tra 65.000 e 80.000 abitanti che, con una tendenza in rallentamento, hanno acquistato circa il 70 % di abitanti negli ultimi 20 anni e le città sotto i 50.000 e sopra i 10.000 abitanti che nello stesso periodo hanno acquistato circa 2,5 milioni di persone.
La trasformazione della città ha prodotto, come è noto, due reazioni: il tentativo di avviare politiche di governo alla scala metropolitana e una nuova stagione di politiche per la città avviate dagli anni Novanta. In quegli anni si iniziò a parlare, anche in Italia, di trasformazione metropolitana e di politiche per il rilancio della città. La legge 142 del 1990 sulle aree metropolitane aveva previsto l'istituzione della città metropolitana individuando nove aree del territorio nazionale interessate: le province di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari. La legge doveva entrare in fase attuativa nel 1992, ma successive proroghe ne hanno ritardato sino ad oggi l’attuazione. Le politiche urbane sono state avviate attraverso strumenti definiti da una babele imponente di sigle i cui risultati, oltre quello indiretto di aver scardinato la pianificazione urbanistica, stentano a vedersi.
1.2. Un bilancio fallimentare
Queste prime sommarie considerazioni hanno un corollario: il giudizio fallimentare delle politiche urbane attuate in Italia in questo decennio. Di quelle operate dallo Stato; di quelle operate dai grandi comuni; di quelle teorizzate e sostenute dall’Istituto nazionale di urbanistica: il fallimento di queste politiche ha prodotto un peggioramento della qualità della vita nelle città italiane e una scarsa incidenza sulla qualità urbana.
La qualità della vita è una definizione assai labile, ma alcuni indicatori ne sono un esempio. L’inquinamento, il rumore e le aree verdi:
· per quanto riguarda il primo indicatore, l’inquinamento, nell’inverno 2002 in Lombardia ha bloccato le auto nell’attesa di vento e pioggia il 13 gennaio in 96 comuni e poi il 20 gennaio in 88 comuni; L’Istat ci ricorda che le giornate nel 1999 di stop alle auto sono state 90 tra le tredici maggiori città italiane, ma è bene ricordare che le armi per controllare l’inquinamento sono spuntate: Roma e Napoli avevano nel 1999 una centralina per 200.000 abitanti, Torino una per 100.000 abitanti, Firenze una per 50.000 abitanti.
· per quanto riguarda il secondo indicatore, il rumore, a Napoli è ritenuto rilevante dal 93% delle famiglie. Mediamente il 90% è attribuito dagli intervistati al traffico, l’Istat afferma che nel 1998 nei tredici grandi comuni sono presenti complessivamente solo 20 centraline fisse di rilevamento. Questi risultati sono conseguenti a politiche della mobilità il cui risultato è che muoversi attraversando una città comporta dei tempi di spostamento in macchina o con i mezzi pubblici simile a quelli di accesso alla città da nuclei e abitati esterni ad essa anche assai distanti. Sul gran numero di macchine e bene intendersi: a Roma abbiamo un’autovettura ogni 1,2 persone e le macchine immatricolate hanno superato i bimbi nati.
· infine, il verde urbano, che stando al Dm 1444 del 1968 dovrebbe dotare le nostre città nella misura di 9 mq per “spazi pubblici attrezzati a parco e per il gioco e per lo sport” e di 15 mq per “parchi pubblici urbani e territoriali”, vede solo Bologna in regola con 28,9 mq ad abitante, mentre tre città (Napoli, Bari e Catania) non raggiungono i 9 mq. Alla carenza in termini di quantità si deve aggiungere nel bilancio dei grandi comuni anche il deficit di qualità che rileva sempre l’Istat. A Palermo un unico parco rappresenta l’86% del verde urbano, mentre a Genova due parchi coprono l’84 % del verde comunale. Le aree verdi coprono mediamente il 3% dei territori comunali.
Non ci stupisca quindi che, sempre secondo l’Istat (2000), la percezione di problemi ambientali su 100 famiglie vede al primo posto il traffico (47), la difficoltà di parcheggio (39), il rumore (38), la sporcizia delle strade (32) e solo per 30 italiani il rischio di criminalità. D’altra parte è forse inevitabile in un Paese in cui il 64% del trasporto merci avviene su gomma e 92.1% del traffico interno di passeggeri avviene su strada (di cui l’82 % in automobile) e contestualmente il già basso uso di trasporto pubblico ha visto un calo percentuale del 4,6 tra il 1990 e il 1998 (Ministero dell’Ambiente, Rapporto sull’Ambiente 2001), mentre il solo autobus è calato del 16%. Accanto a questi dati di natura ambientale è bene ricordare il costo della casa e il fallimento delle politiche residenziali pubbliche, mentre il 20% del patrimonio edilizio in Italia è inutilizzato. Infatti i dati del Censimento del 2001 indicano un calo di abitazioni, rispetto ai dati del 1991 in tutte le grandi realtà italiane, particolarmente significativo nel caso di Milano (-47.371 abitazioni) e di Roma (-56.703) che può trovare una spiegazione con la trasformazione di questi alloggi in strutture per il terziario e per il commercio (Fonte: Istat, 14 Censimento della popolazione del 2001. Dati provvisori dell’aprile 2002).
D’altro canto l’assenza di efficaci politiche per la casa negli ultimi anni, come si accennava sopra, ha determinato, complici anche gli eventi dell’11 settembre, uno sviluppo incontrollato del settore immobiliare, il quale vive una stagione irrazionale simile a quella degli anni Ottanta e degli inizi degli anni Novanta. I prezzi degli immobili residenziali sono ormai tornati ai valori del 1995, quasi al picco storico del 1990. Nel 2001, secondo Il sole 24 ore, sono state scambiate 800.000 abitazioni con un progresso rispetto l’anno precedente del 10 %. In un anno l’1,5% delle famiglie italiane ha acquistato un immobile ed i prezzi sono saliti del 10% a Milano e del 9% a Roma. Nel 2000 circa 2,5 milioni di famiglie avevano difficoltà, secondo Il sole 24 ore, ad affrontare le scadenze dell’affitto.
Altrettanto poco definita è la qualità urbana. Centocelle vecchia o l’Alessandrino a Roma, il panorama dalla tangenziale verso Napoli orientale, le periferie di Sarno o quelle di Crotone sono pezzi del terzo mondo in Italia. In questi “inferni” urbani gli interventi sono stati scarsi o inefficaci. Guardando all’esperienza dei programmi di riqualificazione urbana è possibile affermare che essi costituiscono un episodio di una politica urbana che stenta a raggiungere gli obiettivi e ad incidere nelle città italiane in calo di popolazione e in trasformazione terziaria. Il rischio più grande, infatti, è rappresentato dal fatto che questi programmi, in quanto strumentazione straordinaria legata ad un finanziamento pubblico, permettendo l’attuazione in variante “automatica” del piano generale, non siano inseriti in un quadro di insieme controllabile e che i criteri di selezione dei progetti fossero di tipo contingente e non strategico. Non è un caso che i migliori programmi siano stati quei pochi inseriti nella tradizione e stratificazione di piani che, di fatto, li prevedevano da tempo ed ai quali mancava solo “l’opportunità di renderli operativi”. Questa è l’eccezione. Nella maggior parte dei casi si è intervenuti in mancanza di regole e procedure certe di trasformazione della città attuate solo attraverso i Priu, Pru, Pii, Pic Urban, i Contratti di quartiere, Prusst, l’Intesa istituzionale di programma, l’Accordo di programma quadro, il Contratto di programma, il Contratto d’area e, infine, il Patto territoriale, che a sua volata si divide in Pto e Pit, in deroga agli strumenti urbanistici generali. In alcuni casi questi strumenti si sono trasformati in lavatrici nella cui centrifuga si sono riciclati progetti di ogni genere, di vaste aree geografiche, senza logica, con il risultato di essere una “sommatoria” di progetti più che progetti “integrati” con una moltiplicazione di effetti. Come nel caso del Prusst degli etruschi (Civitavecchia) che interessa la Maremma, l’Umbria, l’alto Lazio e Olbia.
I cosiddetti istituti derogatori utilizzano l’Accordo di programma come procedura di variante agli strumenti di pianificazione: sono questi i “programmi complessi”, dettagliatamente illustrati in una recente pubblicazione del ministero dei Lavori pubblici (Rapporto sullo stato della pianificazione del territorio, Roma, 2001), che consentono agevolmente di derogare (talvolta con finanziamento pubblico) alle prescrizioni degli strumenti urbanistici. Con l’aggravante che, molto spesso, gli istituti della deregulation sono approvati al riparo dalle osservazioni dei cittadini (garanzia prevista fin dalla legge del 1942) e spesso non sono nemmeno discussi nei consigli comunali, cui spetta solo la ratifica della firma del sindaco. Ha scritto Edoardo Salzano
“Ciò che accomuna la quasi totalità di questi piani anomali è che enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come motore l’interesse particolare e subordinano ad esso l’interesse generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le metafore, caratteristica comune di (quasi) tutti gli strumenti di pianificazione anomali è quella di consentire a qualunque intervento promosso da attori privati di derogare alle regole comuni della pianificazione ordinaria. Di derogare cioè dalle regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al quadro complessivo determinato dal piano) e della trasparenza (ossia della pubblicità delle decisioni prima che divengano efficaci e della possibilità del contraddittorio con i cittadini)”.
Il rapporto tra urbanistica e questi strumenti è quasi sempre conflittuale, mentre l’assenza di regole sulle procedure comporta l’assenza di rappresentanza delle istanze delle associazioni e dei cittadini. E’ il caso di chiarire che la critica si appunta sull’Accordo di programma inteso come strumento ordinario di governo del territorio. Guardando al passato, alla ricerca delle motivazioni che portarono alla nascita di questi strumenti legate principalmente alla riduzione dei tempi di decisione e realizzazione, e al presente, con riferimento sullo stato di attuazione di questi programmi e sui risultati, non può che sorgere un dubbio sull’efficacia dell’utilizzo della deroga come regola e una profonda amarezza per la disarticolazione, e non per la riforma, delle norme per il governo del territorio.
Questi strumenti sono figli degli anni Novanta ed una delle tappe della “controriforma” urbanistica con il silenzio-assenso e le leggi sul condono. Le politiche per la città degli anni Novanta hanno mirato più a costruire delle città competitive verso l’esterno, riuscendovi solo in parte, che città solidali al loro interno. Si è cercato di semplificare riuscendo solo a banalizzare.
Forse la risposta alla trasformazione della città non era nella ricerca di meno regole, ma in una maggiore pianificazione.
E’ bene ricordare la mancata redazione delle Linee fondamentali di assetto del territorio previste dalla L. 394/91 e smi, quale strumento per la previsione dei parchi ed estesa dal d.lgs. n. 112/97 alle previsioni inerenti anche la difesa del suolo, l'articolazione delle reti infrastrutturali, il sistema delle città e delle aree metropolitane. E’ da sottolineare anche la mancata piena attuazione della legislazione di tutela dell’ambiente fisico e culturale. I Piani paesistici (L. 431/85) a 17 anni dall’entra in vigore tutelano in 4 regioni solo specifiche aree (Molise, Campania, Basilicata, Sardegna) (AA.VV. , Un Paese spaesato: Rapporto sullo stato del paesaggio italiano, Roma 2001). Per quanto riguarda la difesa del suolo (L. 183/1989) le Autorità di bacino nazionale sono sei ognuna ha adempiuto ed è stato approvato il Piano straordinario per le aree a rischio idrogeologico molto elevato, per quanto riguarda i Piani stralcio per l’assetto idrogeologico (PAI) sono in corso di elaborazione e approvazione. Per quanto riguarda le Autorità di bacino interregionali il Piano straordinario per le aree a rischio idrogeologico molto elevato risultano tutti approvati, mentre alla fine del 2000 risultavano adottati solo 2 PAI su 13. La pianificazione provinciale introdotta con la L. n. 142 del 1990, e dettagliata dalle legislazioni regionali caso per caso, è il grande assente nel quadro normativo italiano. L’area vasta dovrebbe essere il luogo in cui si salvaguarda il territorio sotto gli aspetti ambientali e dove si governano le aree urbane e le dinamiche della popolazione. E’ epoca di bilanci per questi strumenti che per una stagione hanno infiammato il dibattito scientifico e lo scontro istituzionali. Al 2001, ad 11 anni dall’entrata in vigore della legge, solo 19 piani provinciali sono stati approvati e 21 adottati nelle 103 province che compongono l’Italia. Anche in questo caso si devono fare i necessari distinguo: nell’Italia meridionale solo il 14% delle province ha un piano approvato o adottato (escludendo l’Abruzzo solo il 4%). Al Centro-Nord l’Umbria, il Trentino e le Marche hanno il 100% di piani approvati. La Lombardia e il Friuli, in questo panorama, si distinguono per percentuali “meridionali” (0%), come la Campania, il Molise, la Basilicata, la Calabria, la Puglia e la Sardegna.
I Prg a 60 anni dall’emanazione della Legge quadro ancora non coprono tutto il territorio nazionale. Solo otto regioni hanno una copertura del 100% della pianificazione urbanistica comunale sul territorio, mentre il Lazio con solo il 78% dei comuni in regola è il fanalino di coda. Nel complesso circa 290 comuni sono senza Prg (Ministero dei Lavori Pubblici, INU - Rapporto sullo stato della pianificazione del territorio 2000). Il dato negativo dello stato d’attuazione sull’attuazione dei Prg in Italia non è solo quantitativo ma anche qualitativo. E’ il caso di soffermarsi su alcuni esempi: Roma e Milano, anche se la note de doleance è lunga e non può essere esaurita in queste poche righe. A Roma con lo slogan planning by doing, si è deciso di avviare contemporaneamente l’attuazione degli interventi sulla città e il Prg, circa sessanta milioni di mc sono stati localizzati e in alcuni casi avviati con l’alibi del piano. I nove anni di elaborazione del Prg della giunta Rutelli e della giunta Veltroni, sono serviti a coprire una continua trattativa per lo spostamento dei pesi e dei mattoni. Il fronte del confronto è oggi sul riconoscimento del diritto edificatorio per le previsioni edilizie del 1965. Per fortuna la battaglia di Italia Nostra con il parere pro veritate del prof Vincenzo Cerulli Irelli e il convegno L’urbanistica della leggerezza, a cui oltre a Cerulli Irelli a preso parte anche il prof. Edoardo Salzano, hanno convinto parte della maggioranza capitolina a rifiutare questa “bruttura” giuridica. Altro discorso è Milano, dove si è deciso di rinunciare al Prg. Infatti se pur con delle critiche e dubbi su alcune scelte fatte deve essere riconosciuto che a Roma è stato fatto un Prg. Di questo deve essere dato atto al Sindaco Veltroni e all’assessore Morassut, di aver optato una scelta non scontata. A Milano con l’adozione del documento Ricostruire la grande Milano. Documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali che di fatto sostituisce i progetti al piano, il quale diventa il notaio di quanto si è deciso altrove. Parlando di piani si devono ricordare altri casi come il piano strutturale dell’Argentario, dove per l’azione di Italia Nostra: sono stati fermati sia 735.000 mc (ridotti di un terzo), sia lo sviluppo delle aree urbane in una situazione in cui non è certo l’approvvigionamento idrico per i nuovi insediamenti e i criteri per il recupero degli insediamenti abusivi; Salerno dove il piano è composto da progetti piegati alle logiche economiche e finanziarie che dimenticano il rispetto dei contesti locali; Verona dove il piano in vigore, vecchio di trenta anni, è stato piegato da oltre 400 varianti e la nuova variante generale in continuo e costante procinto di essere attuata prevede di estendere il consumo di suolo alle colline, mentre le aree dismesse abbandonate a loro stesse e 9.000 alloggi sono inutilizzati.
1.3. I rischi d’oggi
Questi ragionamenti già fatti nel passato sono oggi confortati dalla statistica, ma non sono stati forieri della necessaria riflessione. Dopo gli anni Novanta anche in questo scorcio del nuovo secolo, l’azione del governo è indirizzata a incidere profondamente in senso negativo sulle politiche urbane e del territorio. Negli anni Novanta sono stati messi a rischio i principi generali della disciplina urbanistica e quelli della tutela dei beni paesistici e storico culturali, oggi quei rischi sono diventati realtà e ad essi si aggiungono anche i pericoli per la sicurezza del nostro territorio e la vita delle persone che vi abitano.
Dopo i dolorosi fatti del Maggio 1998 a Sarno, fu emanato DL n. 180/1998 per il finanziamento dei Piani di bacino stralcio delle zone a rischio idrogeologico. Le risorse previste con questa legge per il 2002 non sono stati confermati nelle ultime due legge finanziarie, ma diminuite. Altrettanto pericoloso sempre da un punto di vista idrogeologico è la vendita dei corsi d’acqua ai privati previsto con l’art. 34 del collegato alla finanziaria 2002. Davanti alla tutela della vita delle persone la sanatoria degli abusi edilizi in Sicilia, sembra un fatto meno importante, così come la modifica della Conferenza dei servizi (L. 444/01, D.L. 166/02), quella della Valutazione di impatto ambientale (L. 443/01, D.Lgs 190/02), e sulla sanatoria per chi in “buona fede” ha costruito sulla proprietà pubblica e potrà con il decreto 102/03 riscattare il suolo pubblico a 10 euro al metro quadro.
Il territorio e le valenze storico culturali delle nostre città sono beni non riproducibili una volta depauperati. Certo, come è detto, la città e il paesaggio sono “esseri viventi” che si modificano, ma queste trasformazioni devono essere il prodotto delle trasformazioni della società e del confronto tra tutti i portatori di interessi. In questo senso la Conferenza di Servizio, nata come strumento per far dialogare le amministrazioni diventa una valanga che travolge ogni cosa. E’ previsto infatti che in essa: la presenza dei privati sia a pari dignità con il pubblico, non sia possibile modificare la localizzazione, la natura e le caratteristiche essenziali delle opere, ma solo "apportare varianti migliorative". Ora un nuovo disegno di legge (n. 1281) lascia alla amministrazione procedente l’ultima parola: non disturbate il “manovratore”. Al tempo stesso le grandi opere della legge obiettivo non saranno più sottoposte al vaglio del Ministero dell’Ambiente per le considerazioni in merito alle Valutazioni di impatto ambientale, che darà solo un parere, ma a quelle del Comitato interministeriale programmazione economica (CIPE). La legislazione “creativa” in questo ambito ha determinato che non si ha nessuna certezza sulle procedure da seguire (basta vedere i casi della Torino Lione, del Ponte sullo Stretto e del Mose) e che una commissione di 20 “professionisti” può esprimere parere su 150 centrali elettriche e oltre 100 opere della legge obiettivo.
Inoltre con la parola d’ordine “padroni a casa nostra” questo governo nella L. n. 443/01 ha anticipato e reso maggiormente “liberale” quanto previsto dal precedente governo, con il testo unico sull’edilizia, e da alcune legislazione regionali come ad esempio la Lombardia, la Toscana e la Campania. Di fatto si prevede che si possa realizzare, in base a semplice denuncia di inizio di attività (DIA), oltre agli interventi edilizi cosiddetti “minori” anche le ristrutturazioni edilizie, le demolizioni e ricostruzioni che non modifichino l’ingombro volumetrico dell’esistente edificio e la nuova edificazione. Non sono previste particolari accortezze per i manufatti di rilevante interesse pubblico, e quindi vincolati, per i centri storici dove le amministrazioni si sono “dimenticate” di apporre vincoli o per la stabilità dei manufatti edilizi. Il silenzio assenso travolgerà ogni cosa. Ricordo anche che all’emergenza non c’è limite. L. n. 401 del 2001 consente deroghe alle leggi vigenti in caso di eventi catastrofici di straordinaria intensità e consente di estendere lo “stato di emergenza” anche ai “grandi eventi” (ad es. un summit di politica internazionale o la presidenza italiana del semestre UE) equiparati a calamità naturali per giustificare i poteri speciali.
Tra i temi all’ordine del giorno della discussione c’è una conferma della grande insensibilità che di questi tempi si ha del territorio e all’ambiente nel nostro Paese. La legge delega in campo ambientale fa parte di questa ampia famiglia di leggi che stravolgono il nostro territorio. Sulla base di una delega troppo vaga e ampia, c’è l'affidamento a una Commissione esterna al Parlamento di 24 membri, della riscrittura di tutto il diritto ambientale: tutela dell’acqua, dell’aria, difesa suolo, gestione dei rifiuti, parchi, danno ambientale e valutazione di impatto ambientale. Oltre a questo sono previste anche norme immediatamente attuative (rottami ferrosi, concessioni in sanatoria in area vincolate, compensazione edilizia per sopraggiunti vincoli ambientali).
A preoccupare le associazioni ambientaliste, ma dovrebbe preoccupare tutti, è il grande disegno complessivo. Il territorio come nei primi anni Cinquanta è visto come un bene da depredare e usare, una proprietà pubblica e quindi di nessuno, da sacrificare allo sviluppo economico di oggi senza avere l’orizzonte di domani: negli anni Cinquanta si scelse come motore per lo sviluppo economico, l’edilizia, oggi lo sono le infrastrutture e il condono edilizio.