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Vittorio Gregotti
Il Sublime ai tempi del Mercato
18 Maggio 2008
Critica delle ideologie e della società e critica dell'architettura; a partire dai libri di Frederic Jameson. La Repubblica, 20 dicembre 2007 (f.b.)

La fine del 2007 vede la traduzione in Italia di ben due libri di Frederic Jameson, considerato il più importante critico e teorico della letteratura e tra i più originali interpreti americani del pensiero marxiano. Il primo, pubblicato dall’editore Feltrinelli con il titolo Il desiderio chiamato utopia (prima parte dell’ "archeologia del futuro", pagg. 300, euro 30), è stato scritto nel 2005 ed è incentrato sulla relazione utopia e politica e sulla difficoltà di immaginare alternative storiche al di là del capitalismo (anche i fondamentalismi religiosi che si contrappongono agli imperialismi occidentali non hanno mai assunto posizioni anticapitalistiche), ed è caratterizzato da un ampio uso del rovesciamento dialettico.

Il secondo volume riguarda la traduzione completa del celebre Postmodernismo ovvero la logica culturale del tardo capitalismo (di cui era stato tradotto nel 1989 il solo primo capitolo corrispondente al saggio pubblicato sulla New Left Review del 1984) e che l’editore Fazi pubblica completo nelle sue 450 pagine (euro 39,50), con una bellissima postfazione di Daniele Giglioli che ne valuta criticamente gli elementi di attualità, domandandosi alla fine se di fronte ad uno scenario che egli ritiene radicalmente mutato siano ancora attuali le categorie del postmoderno. Per seguire Jameson bisognerebbe dire quelle del postmodernismo: a mio avviso certamente sì.

Naturalmente chi scrive ha da sempre considerato come molti della mia generazione la categoria del postmoderno una funesta, anche se storicamente propria, descrizione della condizione di progressiva disgregazione degli impegni critici della cultura di fronte allo stato delle cose. Non importa «il cambiamento di tono» del gusto; Damien Hirst è un «artista» (se così lo si può definire) tipico dell’ideologia postmodernista per le sue prospettive ma anche per come è stato costruito e propagandato dal mercato dell’arte.

Giustamente filosofi come Lyotard hanno rapidamente intravisto, sin dagli anni ottanta, i danni che un opaco e frettoloso giudizio positivo del postmodernismo avrebbe prodotto su quella che era per lui un’analisi critica dello stato delle cose. Peraltro è necessario ricordare a questo punto che non vi è nulla di più oppositivo al postmodernismo della condizione moderna (l’incompiuto «progetto moderno»), con il suo atteggiamento critico, o meglio oppositivo, nei confronti della società e contro lo stato accademico dell’arte che la rappresentava (perché cos’altro, si domanda Jameson, è stato il progetto moderno se non un’allegoria della rivoluzione?). Esso ha conservato sino alla metà del XX secolo una condizione minoritaria per divenire poi brevemente egemone solo nella sua interpretazione positivistico-praticista. Anche se la modernità, nata come ricominciamento radicale in polemica con il passato, aveva della storia un senso assai più vivo di quanto avviene nel postmodernismo, nel quale essa è stata materiale stilistico occasionale. In questo senso - scrive Jameson - non è poi così impossibile «rivolgere alla postmodernità uno sguardo analogo a quello che Marx aveva riservato al capitalismo della sua epoca».

Non vi è dubbio che il saggio di Jameson debba essere considerato per un giudizio sulla cultura postmodernista (almeno per quanto riguarda l’architettura ed è di questo aspetto fra i molti che intendo occuparmi) altrettanto fondativo di come lo sono stati per la pittura contemporanea i libri di Harold Rosemberg pubblicati venti anni prima, con la messa in evidenza della crisi tecnica e finalistica delle arti visive e l’emersione dell’evento rispetto all’opera, ciò che presiede ormai da quasi mezzo secolo le arti visive ed il loro dissolvimento nella cultura mediatica del mercato.

«Questi nostri anni - scrive Jameson - sono stati caratterizzati da un millenarismo alla rovescia, in cui le premonizioni del futuro, catastrofiche o redentive, hanno lasciato il posto al senso della fine di questo o di quello (fine dell’ideologia, dell’arte o delle classi sociali, della socialdemocrazia, del welfare state, ecc.): considerati nel loro insieme, tutti questi fenomeni costituiscono forse ciò che sempre più spesso viene chiamato postmodernismo». Ma la sua caratteristica sopra tutte le altre è l’aspirazione alla fine della coscienza storica a rappresentare il sogno del capitalismo globale.

In una nota all’inizio del libro, il traduttore sottolinea la differenza tra postmoderno e postmodernismo (simmetrica a quella tra moderno e modernismo) affermando, con l’autore del libro, «che il postmodernismo va letto come rappresentazione ideologica del postmoderno. Da ciò sarebbe necessario dedurre che nella condizione postmodernista siamo tuttora profondamente immersi ed il giudizio sulla sua natura storica è precisamente il contenuto strutturale del libro di Jameson. Quando si parla di giudizio storico Jameson pensa temerariamente alla possibilità di ricostituire, sia pure in modo nuovo («il capitalismo, egli scrive, è nello stesso tempo la cosa migliore e peggiore che sia capitata alla razza umana e quindi ogni giudizio moralistico su di esso è un errore categoriale»), quella distanza critica, che fu il perno dei giudizi della sinistra della cultura negli anni venti (ma anche poi di molti filosofi francesi degli anni sessanta) a cui egli fa sovente esplicito riferimento.

La realtà umana è divenuta in questi anni un complesso organizzato dall’alto e disperso in stereotipi, cliché, luoghi comuni la cui descrizione (coincidente oggi con i modi di produzione del capitalismo globalizzato) è analisi di una società dei simulacri, dell’indistinzione tra realtà ed apparenza. Il cambiamento è un problema che il postmodernismo, con il suo eterno presente, non si pone nemmeno perché il presente è una forma di sottrazione di significato all’idea di differenza e perché la novità non è una prerogativa del soggetto ma una spinta strutturale del sistema ed i fenomeni oggi non desiderano affatto essere interpretati ma solo consumati. Sembra affacciarsi un futuro ridotto solo a forecast o proiettato in una tecnoscienza senza storia, cioè di nuovo puro presente.

L’ideologia postmodernista non è quindi solo falsa coscienza che traveste la realtà dei rapporti sociali estetizzandoli ma diventa una pratica che fa parte della realtà stessa dell’esperienza trasferita sul piano dell’immagine: rappresentazione del rapporto immaginario degli individui con le proprie condizioni (Althusser).

«Le aspirazioni individuali - scrive Jameson citando Niklas Luhmann - hanno senso in quanto compatibili con le decisioni del sistema». Così la soggettività è costretta a rappresentare sé stessa in modo esibizionista, cogliendosi solo in situazione, contrabbandata per flessibile creatività. Il populismo estetico resta, anche da questo punto di vista, uno degli aspetti storicamente strutturali del postmodernismo, dell’idea della coincidenza di arte e comunicazione e della sostituzione dalla nozione di classi sociali con quelle di ceto e gruppi.

Resta comunque impressionante come le nuove condizioni strutturali, descritte da Jameson venti anni or sono, siano rimaste le medesime ampliate e consolidate. Sono esse che presiedono non sono la produzione delle architetture (ed in generale delle arti) ma soprattutto i modi con cui tali produzioni sono selezionate e comunicate.

Muoversi da una concezione storica del postmodernismo mette a lato anche ogni giudizio sul suo carattere meramente stilistico e questo ci consente di stabilire una continuità che attraversa e connette la sua fase di eclettica nostalgia, cioè, dell’idea di simulacro come copia identica di un originale mai esistito e quella attuale della novità incessante dei neo o iper modernisti (anche se sono stati accantonati cornici e capitelli). I procedimenti di bricolage nella costituzione della forma sono tutti simboli della sua «necessaria assenza di necessità». La ricomparsa rovesciata di senso dei linguaggi delle avanguardie, la loro dispersione fluttuante ed intercambiabile è la conseguenza della negazione anche della nozione di contesto (e del confronto con la città) e quindi dell’assenza della relazione sfondo-figura non sostituibile da alcuna forma di intertestualità se non quella puramente estetizzante della sua riduzione a «design», o a metafora tecnologica, cioè della riconduzione al consumo della intera produzione della ex arte.

Questa constatazione permette a Jameson alla fine degli anni ottanta di considerare postmoderni sia il Bonaventura Hotel di Portman che il Beaubourg di Parigi ed oggi, aggiungo io, le produzioni delle più note stelle mediatiche del firmamento architettonico internazionale. Esse sono accomunate da ciò che Jameson definisce il «campo sublime e isterico, del surrealismo senza inconscio» e dell’iperspazio disorientante, del nuovo diventato novità incessante, ma anche del processo di colonizzazione che dilaga come globalizzazione in quanto ideologia del mercato finanziario e del consumo, e di una cultura sempre più incollata saldamente a quei valori («alla trasformazione - scrive Jameson - in condomini dell’heideggeriana casa dell’essere») ed alla dipendenza da essi del mondo delle stesse tecnoscienze.

Che il postmodernismo invece possa essere considerato una fase di transizione, un periodo barbarico in cui gli uomini siano ancora incapaci di utilizzare con proprietà le tecnologie che essi stessi hanno inventato, sarebbe un giudizio storico di un ottimismo sfrenato.

Devo aggiungere che Jameson dichiara «di essere, da consumatore relativamente entusiasta delle opere del postmodernismo». Bisognerebbe comunque chiedergli se, dopo più di vent’anni, come consumatore non si sia pentito.

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