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Maria Cristina Roberto; Gibelli Camagni
Il “sogno europeo” nella visione territoriale americana
23 Luglio 2005
Megalopoli
Una American Spatial Development Perspective che vuole imitare il policentrismo urbano europeo e l’alta velocità ferroviaria: sullo sfondo una prospettiva terrificante di incremento dello sprawl. Da Sviluppo & Organizzazione, 209, mag.-giu. 2005 (m.c.g.)

Jeremy Rifkin ha intitolato la sua ultima fatica editoriale “Il sogno europeo” [1]. Si tratta di una riflessione rivolta ad un pubblico ampio (che fa seguito ad altre due opere di grande successo “L’era dell’accesso” ed “Economia dell’idrogeno) con la quale l’economista americano si propone di evidenziare i tratti significativi dell’inesorabile declino del “sogno americano”, strettamente associato all’individualismo e al benessere materiale; e i vantaggi competitivi di quello che egli considera il sogno emergente contemporaneo, quello europeo.. Del modello culturale e sociale europeo Rifkin sottolinea gli elementi vincenti: fra gli altri, l’aspirazione all’integrazione sociale e alla pacifica convivenza con il resto del mondo, la più elevata qualità della vita (ad esempio in termini di tempo libero e di aspettativa di vita, minore violenza e criminalità) e dei servizi (soprattutto in campo sanitario e sociale), l’impegno in tema di sostenibilità urbana ed ambientale. Il confronto viene corroborato da una talvolta ridondante elencazione di dati quantitativi comparativi, chiaramente dedicati a convincere il lettore americano.

Ma nel contesto statunitense l’Europa sta facendo scuola anche su temi più puntuali ed operativi: ad esempio nel campo delle politiche urbane e, in particolare, delle strategie di pianificazione e progettazione urbana; più recentemente anche le politiche spaziali del governo europeo sono diventate oggetto di attenta considerazione.

Sul primo tema è già maturata una significativa convergenza (come già in questa rubrica abbiamo sottolineato). Accomunati dalla parola d’ordine dello Smart Growth, in alcune città e aree metropolitane si stanno perseguendo obiettivi, praticando strategie e sperimentando azioni e progetti del tutto simili a quelli introdotti nelle città europee in epoca di sostenibilità: definizione di limiti di crescita urbana (urban growth boundary); priorità alla ricostruzione della città su sè stessa (infilling e brownfield regeneration); densificazione insediativa in corrispondenza dei nodi e corridoi del trasporto pubblico (transit oriented development); limitata espansione, delle infrastrutture stradali e autostradali; “città di brevi percorsi” (pedestrian pocket); realizzazione di un’offerta commerciale meno orientata all’automobile.

Naturalmente, nel contesto americano la sfida si presenta ancora più ardua e i problemi da governare ancora più complessi: il modello insediativo “spontaneo” e per sua natura “insostenibile” che si vorrebbe governare è quello della estesissima suburbanizzazione a bassissima densità, divoratrice di risorse territoriali e associata all’incessante incremento della mobilità su gomma. A differenza del contesto europeo, dove ha cominciato a manifestarsi da pochi decenni, si tratta di un modello all’opera da più di un secolo in un paese in cui una componente fondamentale del “sogno americano” è stata l’accesso alla casa individuale in proprietà dispersa nel verde.

Il sogno suburbano americano è in realtà stato in buona misura “imposto” dall’alto: dal governo federale che, a partire dalla metà degli anni ’30 dello scorso secolo, per superare la grande crisi economica cominciò a finanziare l’accesso al credito per la realizzazione di case monofamiliari applicando il criterio del red lining: vietando cioè il sussidio nelle aree dense (e quindi urbane) e in sobborghi etnicamente misti (forzando di conseguenza i ceti medi a stanziarsi nel suburbio monoclasse).Negli anni ’50, sotto la presidenza di Eisenhower fu presa un’altra decisione strategica destinata ad influenzare profondamente la dispersione insediativa: quella di finanziare (e rendere gratuito) il sistema autostradale anziché il trasporto pubblico urbano di massa. Alla base di tali scelte vi fu (e continua ad esservi) un formidabile intreccio di interessi con le lobby del petrolio, del settore delle costruzioni, dell’automobile [2].

Ma la riflessione autocritica sul modello insediativo americano e l’apprezzamento dei vantaggi competitivi offerti dal modello della città europea stanno estendendosi anche a temi più ambiziosi e di scala territoriale complessiva.

Ne costituisce un interessante esempio la proposta avanzata nel 2004 da tre istituzioni culturali prestigiose [3]nel documento dal titolo “Toward an American Spatial Development Perspective”: un titolo dichiaratamente ripreso dallo “Schema di sviluppo dello spazio europeo”, il documento in materia di strategie territoriali ed infrastrutturali di lungo periodo scaturito dalla cooperazione e dall’accordo informali di tutti i paesi membri dell’Unione Europea.

La parte più interessante di questo documento, e che più dovrebbe far riflettere noi europei, è quella dedicata alle prospezioni di lungo periodo: la proiezione al 2025 di alcune variabili significative per l’impatto che eserciteranno sugli assetti territoriali futuri prefigura uno scenario inquietante e chiaramente insostenibile di consumo esasperato di risorse scarse o finite.Al 2025 la popolazione americana dovrebbe aumentare del 40%, determinando una ulteriore dilatazione formidabile dei territori del suburbio: la tendenza alla riduzione dei nuclei familiari comporterà infatti un aumento ancora più elevato della domanda di abitazioni e più lunghe distanze pendolari quotidiane. I consumi di suolo per urbanizzazione sono destinati a crescere in maniera esponenziale: se in tre secoli l’America urbana ha consumato 46 milioni di acri di territorio naturale, si calcola che alla soglia temporale individuata questo valore dovrebbe più che raddoppiarsi (112 milioni di acri), intaccando imponenti risorse ambientali. L’altra problematica cruciale strettamente connessa al modello di dispersione insediativa sarà quella della congestione trasportistica, se si considera che già nel 1999 le 68 maggiori aree metropolitane americane presentavano elevatissimi sintomi di congestione (in termini di tempo medio di viaggio, ore di lavoro perdute, consumi di carburante, caduta di efficienza del sistema autostradale e del trasporto aereo).

La strategia proposta dal documento è dichiaratamente di “imitare l’Europa”, prendendo esempio dalle relazioni policentriche in rete all’opera fra le grandi città europee: una rete che funziona in maniera efficiente grazie anche ai cospicui investimenti destinati dal governo europeo e dai singoli governi nazionali al potenziamento dell’accessibilità sulle lunghe distanze e, in particolare, dell’alta velocità ferroviaria.

La American Spatial Development Perspective individua le principali “città globali” americane: si tratta di metropoli che ospitano importanti hub aeroportuali, spesso localizzati a poche miglia dalle stazioni di un sistema ferroviario ormai ampiamente sottoutilizzato. La proposta, indirizzata in primis al governo federale, è di trasformare tali stazioni nei nodi di una rete ferroviaria ad alta velocità che potrebbe sostituirsi in maniera efficiente ai collegamenti aerei su tratte inferiori alle 500 miglia (così come sta avvenendo in Europa), realizzando altresì un modello di mobilità più sostenibile e facendo recuperare efficienza al trasporto aereo su lunga distanza.

La strategia individuata milita a favore non soltanto di una più ampia ed articolata integrazione territoriale nazionale affidata ad un sistema di trasporto integrato e multimodale (aereo/ferro/gomma), ma anche alla realizzazione di accordi di cooperazione innovativi fra le grandi città che costituiscono i poli di inquadramento economico e direzionale delle 6 macroregioni statunitensi (Northeast, Mid-Atlantic, South, Midwest, Southwest, West). Si immagina la costituzione di 6 Supercity (una rivisitazione del gotmanniano concetto di megalopoli ibridato con le riflessioni della Sassen sulle global cities) attraverso la cooperazione a rete dal basso dei principali poli urbani, e la realizzazione di strategie e progetti condivisi supportati dai finanziamenti del governo federale. Il valore aggiunto consisterebbe non soltanto nell’avvio di un progetto ambizioso di intermodalità trasportistica “all’Europea”, ma anche in un miglioramento del posizionamento competitivo delle città americane nell’economia globale, in una più attenta salvaguardia delle risorse territoriali ed energetiche e in una maggiore equità. Infatti, riprendendo il discorso di Michael Porter sui vantaggi competitivi delle città, si sottolinea che le Supercittà potrebbero diventare l’occasione per estendere i vantaggi della città a una scala territoriale più ampia attraverso strategie, estese alle macroaree, di controllo dei costi delle abitazioni, di salvaguardia ambientale, di riduzione dei costi di trasporto e del consumo di energia.

Nella parte conclusiva del documento si avanzano suggerimenti sulle modalità possibili di attuazione della strategia, in termini di attori da coinvolgere, governance del processo decisionale, risorse finanziarie mobilitabili anche attraverso politiche di “mercato corretto” e di internalizzazione delle esternalità.

Il documento è manifestamente provocatorio, visionario e irealistico, ma al lettore europeo segnala la crescente attenzione attribuita, nella riflessione migliore in ambito di politiche di pianificazione urbana e territoriale sviluppata oltre oceano, alle idee e ai modelli insediativi proposti nel “Vecchio Continente”.

Sulle sue ricadute future nel dibattito nordamericano, nulla è possibile allo stato attuale ipotizzare. Alcuni segnali contradditori marcano oggi la scena per quanto riguarda le politiche trasportistiche: da un lato infatti l’attuale presidenza ha ridotto la quota di risorse finanziarie (peraltro già modeste) messe a disposizione del programma ISTEA dedicato a finanziare nelle grandi città la realizzazione di infrastrutture di trasporto pubblico su ferro [4]; dall’altro, per la prima volta alcuni governi statali sono attualmente in accesa competizione per ottenere finanziamenti federali per la realizzazione di progetti di linee ferroviarie ad alta velocità (ad esempio il Maryland, la Pennsylvania e il Nevada).

La sfida è dunque aperta, ma il sogno delle città europee influenza sempre più le riflessioni critiche e propositive di molti ricercatori, planner ed amministratori pubblici nordamericani.

[1] Rifkin J. (2004), Il sogno europeo. Come l’Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano, Mondadori, Milano.

[2] Molti ricercatori americani leggono nella suburbanizzazione un disegno politico ancora più perentorio e ideologicamente connotato: l’attuazione di un vero e proprio progetto di ingegneria sociale volto alla suburbanizzazione dei ceti medi bianchi e alla segregazione spaziale per gruppi etnici a garanzia della pace sociale e del conformismo La caduta dell’interazione e del senso di comunità, caratteristici invece del modello di città densa europea, la banalizzazione e l’omologazione sociale del suburbio sarebbero state le conseguenze inevitabili di questo disegno (si vedano ad esempio: Gutfreund O. D. (2004), 20th Century Sprawl. Highways and the Reshaping of the American Landscape, New York, Oxford University Press, Hayden D. (2003), Building Suburbia. Green Fields and Urban Growth: 1820-2000, New York, Pantheon Books).

[3] Si tratta del Lincoln Institute of Land Policy, una istituzione privata che conduce ricerche nel campo della pianificazione e della land economics and taxation, della Regional Planning Association, una associazione non profit che dal 1922 si occupa delle linee strategiche della pianificazione della regione metropolitana di New York e della Scuola di Architettura dell’Università di Pennsylvania.

[4] ISTEA (IntermodalSurface Transportation Efficiency Act) è un programma federale promosso dal 1991 che prevede nuove modalità per la allocazione di parte dei fondi erogati dal governo per le infrastrutture di trasporto. Mentre normalmente i fondi erano attribuiti esclusivamente agli State Highway Department, ISTEA prevede che, nel caso le municipalità di una agglomerazione metropolitana di più di 200.000 abitanti si associno nella elaborazione di una piano di scala vasta che integri direttive relative alla pianificazione degli usi del suolo e delle infrastrutture di trasporto, alcuni fondi federali possano essere attribuiti direttamente alla coalizione metropolitana che potrà destinarli alla realizzazione di infrastrutture alternative alle autostrade (metropolitane leggere e altre modalità di trasporto ecocompatibile).

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