Le parole di Papa Francesco «non sono un fervorino devoto, ma un appello forte, concreto e chiaro; queste sono parole politiche, parole da statista oltre che da capo religioso» Ma gli interessi in gioco sono altrettanto forti, e diversamente concreti. Il manifesto, 3 settembre 2013
«Oggi, cari fratelli e sorelle, vorrei farmi interprete del grido che sale da ogni parte della terra, dal cuore di ognuno, dall'unica grande famiglia che è l'umanità, con angoscia crescente: è il grido della pace! È il grido che dice con forza: vogliamo un mondo di pace, vogliamo essere uomini e donne di pace, vogliamo che in questa nostra società, dilaniata da divisioni e da conflitti, scoppi la pace; mai più la guerra! Mai più la guerra! La pace è un dono troppo prezioso, che deve essere promosso e tutelato». Così domenica scorsa papa Francesco.
E non si è trattato di uno di quei discorsi pii, devozionali, magari retorici, che vengono ascoltati con distratto rispetto e archiviati dubito dopo. No. Perché il papa si è espresso proprio in un momento drammatico, mentre fortissimi stanno soffiando i venti di guerra animati soprattutto da Parigi e da Istanbul, ma mentre si alza alto anche il grido della pace. In Gran Bretagna, la Camera dei Comuni ha gettato acqua gelida sui bollori guerrieri del premier Cameron, che è stato costretto a prenderne atto; ciò ha indotto il presidente Obama, già alquanto incerto anche nei giorni scorsi, a far marcia indietro su una decisione bellicista che ormai si era rassegnato ad adottare e praticamente a sconfessare il suo segretario di stato Kerry che aveva già dato precipitosamente per certi sia le l'impiego di gas tossici da parte delle forze armate governative siriane (un dato che continua a permanere incerto), sia l'intervento statunitense: ora, secondo il modello britannico, la parola passerà al Congresso. Ciò sta obbligando anche il nuovo Signore Europeo della Guerra, il bellicoso Hollande, a decidersi a consultare in qualche modo anche il parlamento del suo paese. Il presidente francese continua a sostenere di disporre di prove certe relative all'impiego dei gas da parte del governo siriano e dell'esistenza a disposizione di esso di vasti arsenali: sono le "terribili armi di distruzione di massa" già sventolate nel 2002 come alibi per l'aggressione all'Iraq: e sappiamo tutti (e cerchiamo di ricordarcene) come è andata allora a finire.
I papi sono sempre intervenuti, negli ultimi decenni, alla vigilia dei conflitti:sempre cercando di sventarli e sempre fallendo. Così Benedetto XV nel 1914, così Pio XII nel 1939, così Giovanni Paolo II nel 2002. Stiamo vivendo un déjà vu? Resterà inascoltato anche l'accorato, intenso appello di papa Bergoglio?
Non ci facciamo illusioni. Gli interessi che spingono alla guerra sono molti: la volontà di procedere sempre più nella scellerata destabilizzazione del Vicino Oriente da parte di alcuni governi e di alcune lobbies è evidente; la questione dei metanodotti ai sensi del recente trattato irano-irako-siriano che dovrebbero passare dall'Iran attraverso Iraq e Siria anziché attraverso la Turchia è di per sé un casus belli ovviamente inconfessabile ma fortissimo, e Istanbul preme per questo (avete notato che i media internazionali hanno messo immediatamente a tacere le polemiche sulla deriva autoritario-fondamentalista di Ocalan?); la volontà congiunta di molte potenze, di colpire la Siria come ulteriore passo verso l'aggressione all'Iran, è evidente; gli arsenali francesi e americani sono pieni e bisogna pure svuotarli per incentivare la produzione e avviare un nuovo business di «ricostruzione»; e infine c'è la volontà degli emirati, soprattutto del Qatar, di proseguire la loro fitna sunnita contro gli sciiti - forti in Siria, insieme con gli alawiti ad essi affini - e d'indebolire il solito Iran, loro concorrente sul piano delle esportazioni energetiche come dell'egemonia geopolitica sul Golfo Persico.
L'armamentario propagandistico è il medesimo del 2003, sconfortante per idiozia ma purtroppo efficace a livello mediatico: Assad oggi, come Saddam ieri, detentore di «terribili armi di distruzione di massa»; Assad oggi, come Saddam ieri, «nuovo Hitler». Il segretario statunitense di stato, il ridicolo mister Kerry, non ha perso questa pur ghiotta attenzione di tacere: e si è candidato così a una figura peggiore di quella che nel 2002 fece Powell, ch'era pur tanto migliore di lui. Se si farà la guerra, succederà come nel 2003: sul momento tutti sicuri e tutti d'accordo, poi tutti colpiti da amnesia sulle loro stesse bugie.
Eppure, stavolta c'è qualcosa di nuovo. Il ricorso agli strumenti democratici, in Inghilterra, ha sconfitto le infami ragioni della guerra e ha messo in difficoltà tutti i loro sostenitori. E questo papa non si limita a implorare durante l'Angelus: chiama i cattolici alla mobilitazione, li impegna a una grande veglia di preghiera in Piazza San Pietro e a un digiuno sabato 7, alla vigilia della seduta del congresso americano del 9. Ma il papa, quando in soccorso della sua preghiera invoca la Vergine Maria, sa quel che fa. Sabato 7 la Chiesa celebra la vigilia della festa della Natività della Madonna. Il richiamo liturgico e religioso, alto e profondo, viene chiamato a soccorrere l'appello civico.
«Con tutta la mia forza, chiedo alle parti in conflitto di ascoltare la voce della propria coscienza, di non chiudersi nei propri interessi, ma di guardare all'altro come ad un fratello e di intraprendere con coraggio e con decisione la via dell'incontro e del negoziato, superando la cieca contrapposizione. Con altrettanta forza esorto anche la Comunità Internazionale a fare ogni sforzo per promuovere, senza ulteriore indugio, iniziative chiare per la pace in quella Nazione, basate sul dialogo e sul negoziato, per il bene dell'intera popolazione siriana».
Questo non è un fervorino devoto. Questo è un appello forte, concreto e chiaro; queste sono parole politiche, parole da statista oltre che da capo religioso: «Ripeto a voce alta: non è la cultura dello scontro, la cultura del conflitto quella che costruisce la convivenza nei popoli e tra i popoli, ma questa: la cultura dell'incontro, la cultura del dialogo; questa è l'unica strada per la pace».
È un appello ai potenti della terra, ai governi e a coloro dei quali i governi sono ormai sempre più chiaramente dei comitati d'affari. Ma è soprattutto un appello ai popoli, a tutti noi. Bisogna impegnarci affinché non cada nel vuoto, affinché venga inteso da tutti. Bisogna sul serio scendere in guerra contro la guerra.