«Sono dovuti uscire allo scoperto tutti i nostri thatcheriani di complemento perché le organizzazioni del mondo del lavoro reagissero all’altezza della posta in gioco. Il sindacato vive una crisi storica, è diviso e sempre meno rappresentativo. Ma qualunque nuova coalizione sociale volesse opporsi a questa nuova destra, politica e sociale, deve augurarsi che il sindacato torni a battere un colpo».
Il manifesto, 20 settembre 2014
Finalmente il sindacato si sveglia e trova le parole per dire la verità. Renzi «come la Thatcher» è sbottata la leader della Cgil, Susanna Camusso. «Il contratto a tutele progressive è una presa in giro» ribatte il leader della Fiom, Maurizio Landini. Giudizi chiari, netti, semplici da capire, che compensano le troppe timidezze, le estenuanti attese, le incomprensibili aperture di credito offerte in questi mesi.
Sono dovuti uscire allo scoperto tutti i nostri thatcheriani di complemento perché le organizzazioni del mondo del lavoro reagissero all’altezza della posta in gioco. Dalla campagna estiva di Alfano contro l’articolo 18, alla minaccia del decreto legge sul Jobs act del premier davanti al parlamento, con tutta la nomenclatura renziana a comporre il coro della necessaria e urgente liberalizzazione del mercato del lavoro. Liberisti d’ogni specie e provenienza, trasmigrati dal Pd bersaniano verso più adeguate sponde centriste, come il professor Ichino, o come i pasdaran del catto-liberismo alla maniera dell’ex ministro del lavoro Sacconi.
Eppure era tutto abbastanza evidente fin dall’inizio. Da quell’inno a Marchionne quando il futuro presidente-segretario era ancora sindaco di Firenze, all’ideologia “Leopolda” del merito e dell’elogio dell’imprenditore nascosto in ciascuno di noi ai tempi delle primarie, fino al buongiorno Italia con quel decreto Poletti che infilava il coltello nella ferita del precariato. Non era difficile prevedere la direzione di marcia del governo. Tuttavia, nonostante il martellante ritornello contro i sindacati, individuati come la causa principale dell’umiliante condizione delle classi lavoratrici nel nostro paese, i bersagli prediletti reagivano borbottando, come fossero ipnotizzati dagli 80 euro che, oltretutto, già si presentavano come una carta elettorale che presto avrebbe reclamato la contropartita del blocco dei contratti del pubblico impiego.
La forte reazione sindacale, con l’annuncio di manifestazioni e scioperi nelle prossime settimane, ha provocato l’immediata, berlusconiana replica del presidente del consiglio. E’ entrato nei telegiornali della sera con un irridente, ammiccante videomessaggio (il Tg7 lo ha trasmesso integralmente, come si faceva ai vecchi tempi con le videocassette). In maniche di camicia si è scagliato contro la Cgil e compagni, a suo dire artefici dei salari di povertà, della precarietà («dove eravate voi quando si è prodotta l’ingiustizia tra chi un lavoro ce l’ha e chi no?»). Niente di nuovo, solo la conferma del rovesciamento della realtà. Come se per capire come siamo arrivati a rispolverare condizioni di lavoro ottocentesche bisognasse interpellare i sindacati anziché le politiche economiche dei governi che hanno bastonato stipendi, pensioni, welfare.
Naturalmente non sfuggono responsabilità e limiti di chi avrebbe dovuto capire i colossali cambiamenti prodotti dalla ristrutturazione capitalista e mettere in campo adeguate controffensive. Il sindacato vive una crisi storica, è diviso e sempre meno rappresentativo. Ma qualunque nuova coalizione sociale volesse opporsi a questa nuova destra, politica e sociale, deve augurarsi che il sindacato torni a battere un colpo.