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Paolo Favilli
Il sigillo sulla continuità del malaffare
15 Maggio 2014
Articoli del 2014
«Corruzione. La sentenza definitiva per Dell’Utri, dopo quelle di Berlusconi e Previti, chiude il cerchio ma non interrompe la continuità tra ventennio berlusconiano e nuova fase politica, siglata dalla sintonia tra il governo Renzi e il capo di Forza Italia».
«Corruzione. La sentenza definitiva per Dell’Utri, dopo quelle di Berlusconi e Previti, chiude il cerchio ma non interrompe la continuità tra ventennio berlusconiano e nuova fase politica, siglata dalla sintonia tra il governo Renzi e il capo di Forza Italia».

Il manifesto, 15 maggio 2014

Lo stu­pore, il mera­vi­gliarsi sono, secondo la grande tra­di­zione del pen­siero filo­so­fico occi­den­tale, gli ele­menti fon­da­tivi di una seria rifles­sione sul senso degli acca­di­menti. Nei giorni scorsi si è veri­fi­cato un acca­di­mento di note­vole rile­vanza per la com­pren­sione di un non tra­scu­ra­bile spac­cato della sto­ria d’Italia: la con­ferma della con­danna defi­ni­tiva di Mar­cello Dell’Utri per con­corso esterno in asso­cia­zione mafiosa. Non mi sem­bra che stu­pore e meraviglia abbiano eser­ci­tato alcuna fun­zione nei com­menti tanto della pub­bli­ci­stica che del ceto poli­tico main­stream.
Anzi, per­sino la noti­zia in sé ha rapi­da­mente assunto l’aspetto di una scon­tata nor­ma­lità. Ed è pro­prio la a-normale nor­ma­lità in cui viviamo, un tempo sospeso da circa un ven­ten­nio, il pro­blema di fondo che carat­te­rizza la ormai lunga deca­denza italiana.

La sen­tenza defi­ni­tiva su Dell’Utri mette il sigillo finale ad una vicenda la cui sostanza e con­torni erano già chiari da molti anni. Ora però è un dato incon­tro­ver­ti­bile che l’operazione Berlusconi-Dell’Utri-Previti del 1994 aveva come fine quello di assi­cu­rarsi un rap­porto biu­ni­voco e fun­zio­nale tra sfera cri­mi­nale e sfera poli­tica. Da que­sto punto di vista l’operazione può con­si­de­rarsi per­fet­ta­mente riu­scita. L’operazione è col­let­tiva, ma il suo cen­tro è Ber­lu­sconi. Pre­viti cor­rompe per Ber­lu­sconi e con i soldi di Ber­lu­sconi. Dell’Utri è tra­mite e garante dell’accordo Ber­lu­sconi mafia. Ber­lu­sconi pro­pone Pre­viti come guar­da­si­gilli. Solo la decisa oppo­si­zione di Scal­faro fece sì che il cor­rut­tore fosse dirot­tato alla difesa. Non è una domanda ille­git­tima chie­dersi se Gior­gio Napo­li­tano, visto il teo­riz­zato cini­smo dei mezzi in vista di un buon fine (sta­bi­lità, riforme…), visto che allora Ber­lu­sconi si tro­vava in con­di­zioni di assai mag­giore legit­ti­mità rispetto ad oggi, si sarebbe com­por­tato come Luigi Scalfaro.

Nel momento attuale il bene­fi­cia­rio prin­cipe di quel tipo di «discesa in poli­tica» si pro­pone ancora come «padre della patria». A di là dell’evidente for­za­tura pro­pa­gan­di­stica c’è un aspetto di verità in quell’affermazione. Il pro­getto di un’Italia dav­vero nuova, inner­vata dalla ten­sione costante verso forme sem­pre più avan­zate di demo­cra­zia e con­tem­po­ra­nea­mente con­sa­pe­vole fino in fondo di quel prin­ci­pio libe­rale di civi­liz­za­zione della poli­tica che con­si­ste nella teo­ria e nella pra­tica della limi­ta­zione del potere, ha, con tutta evi­denza, ben altri padri. Sono i Cala­man­drei, i De Gasperi, i Togliatti la cui rifles­sione nasce dalla neces­sità di una rot­tura netta sia con anti­che e nega­tive costanti della sto­ria ita­liana, sia con le radici cul­tu­rale e sociali del fasci­smo. Poi vi è l’Italia giunta allo «ultimo gra­dino di degra­da­zione e decom­po­si­zione dello spi­rito pub­blico nazio­nale» (P. Bevi­lac­qua, il mani­fe­sto, 9 mag­gio). Di que­sta patria i Ber­lu­sconi, i Dell’Utri, i Pre­viti pos­sono, a buon diritto, con­si­de­rarsi, padri.

Il fatto inquie­tante è che i padri di que­sta seconda patria, sep­pure, in modi diversi, alla fine del loro ciclo, hanno molte pos­si­bi­lità di entrare nel pan­theon mate­riale della patria che si sta attual­mente dise­gnando. Per ragioni di lungo periodo e per pre­cise scelte con­tin­genti. Scelte che sono state fatte in tutta libertà, scelte tra alter­na­tive diverse non giu­sti­fi­cate da nes­sun stato di necessità.
Le ragioni dei vent’anni ber­lu­sco­niani affon­dano pro­fon­da­mente nelle sfera sociale e in quella poli­tica ita­liane. Non c’è stata nes­suna inva­sione degli Hyk­sos. Se ne esce solo con lo spi­rito che aveva ani­mato i primi padri della patria: una rot­tura netta sostan­ziata da una vera ana­lisi del feno­meno. Le scelte con­tin­genti di cui s’è detto con­fer­mano, invece, la per­si­stenza delle lun­ghe continuità.

In que­sto momento, ad esem­pio, leggo un lan­cio di agen­zia. Renzi pro­clama: «Fer­miamo i delin­quenti». Leggo anche un titolo sull’home page di Repub­blica. Intima il diret­tore: «Poli­tica, affari, ille­ga­lità. Renzi deve fare puli­zia». Lode­vole pro­po­sito, lode­vole invito. Intanto Renzi dovrà eser­ci­tare, però, tutta sua arte reto­rica nell’impossibile ten­ta­tivo di spie­gare una con­trad­di­zione non com­po­ni­bile. In «pro­fonda sin­to­nia» con il delin­quente prin­cipe, con il grande cor­rut­tore, si accinge, infatti, a cam­biare aspetti strut­tu­rali del pano­rama isti­tu­zio­nale ita­liano. Una con­ti­nuità evi­dente per metodo ed obiet­tivi con alcune delle logi­che prin­ci­pali che hanno carat­te­riz­zato il ciclo aperto agli inizi degli anni Ottanta e rive­la­tosi con chia­rezza in età berlusconiana.

Sul piano del metodo poli­tico il periodo in que­stione rap­pre­senta il livello estremo, quello più basso e degra­dato, del trionfo della «ragion cinica». Nel 1983 un filo­sofo tede­sco, Peter Slo­ter­dijk, ha scritto un impor­tante libro di Cri­tica della ragion cinica. La data non è casuale; seb­bene la ragion cinica sia una costante anche della ragion poli­tica, nel secondo dopo­guerra comin­ciò a diven­tare ele­mento domi­nante di misti­fi­ca­zione in coin­ci­denza con l’apertura dell’attuale ciclo di accu­mu­la­zione. Slo­ter­dijk ha argo­men­tato con rigore il mec­ca­ni­smo tra­mite cui il cini­smo dei mezzi giu­sti­fi­cato con la nobiltà dei fini altro non sia che un masche­ra­mento ideo­lo­gico. Il cini­smo dei mezzi ha come esito ine­vi­ta­bile il cini­smo dei fini.

Nel caso dello «spet­ta­colo disa­stroso» ita­liano (cito l’espressione da un gior­nale libe­rale sviz­zero) non c’è nep­pure più biso­gno dell’ideologia come masche­ra­mento. «Non lo sanno, ma lo stanno facendo», diceva Marx a pro­po­sito della «falsa coscienza». Que­sti padri della patria lo fanno e sanno cosa stanno facendo. Non c’è più biso­gno nep­pure di un fine alto per giu­sti­fi­care il cini­smo dei mezzi. Il fine è aper­ta­mente altret­tanto cinico: un sistema elet­to­rale che garan­ti­sca gli attuali equi­li­bri economico-sociali. Che garan­ti­sca una com­pe­ti­zione senza vera lotta poli­tica, una com­pe­ti­zione gio­cata mediante un rap­porto di riva­lità mime­tica con l’avversario.

Se que­sta è poli­tica…. potremmo chie­derci para­fra­sando Primo Levi. Cer­ta­mente que­sta è la poli­tica, risponde in coro il con­sesso dei nuovi padri della patria. Dob­biamo augu­rarci che siano molti coloro che in que­sta patria non si rico­no­scono. Ed ope­rare con un’altra poli­tica per un’altra patria.

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