«La Capitale è una città infelice, individualista, caotica, con i trasporti inefficienti e i suoi spazi pubblici soffocati dalle auto private. Per uscire da questo buco nero occorre che la mano pubblica si imponga agli interessi particolari e disordinati dei singoli». Il manifesto, 6 marzo 2015, con postilla
La lingua latina possiede due termini sinonimi per indicare la città: urbs, riferito alla struttura, agli edifici, le strade, le piazze, e civitas. Quest’ultimo sta a indicare la comunità dei cittadini. Ma non semplicemente il loro insieme demografico, anche la loro soggettività, il loro essere consapevoli di appartenere a uno spazio speciale, con le sue regole, i suoi agi rispetto alla campagna, la sua bellezza. Non per niente da quella stessa radice viene il termine civiltà.
Parola scomparsa dal lessico corrente, troppo altisonante per le nostre società, dove governanti e governati si accontentano con modestia di qualche punto di Pil. Eppure alcuni vecchi termini della nostra civiltà linguistica – manipolati oggi dal servilismo anglofilo dei media — dovremmo disseppellirli, farli risplendere di nuovi significati. Lo scorso anno lo ha fatto suggestivamente Giancarlo Consonni (La bellezza civile. Splendore e crisi delle città, Maggioli) di cui ha discorso su questo stesso giornale Adriano Prosperi (4.7.2014). La bellezza civile, espressione coniata da Giambattista Vico, dovrebbe tornare in uso a significare una aspirazione delle nostre comunità cittadine, che l’hanno a lungo perseguito e realizzato. Lo stare insieme entro ordini e spazi in cui la bellezza delle forme urbane dovrebbe tendere ad armonizzarsi con le virtù civiche, l’osservanza delle leggi intesa come rispetto degli altri, il sentirsi comunità cooperante al fine di conseguire scopi superiori di prosperità comune, di umanità e cultura.
Se osserviamo oggi Roma sotto il profilo della civitas comprendiamo alcuni fenomeni importanti. Lo stile di vita dei cittadini, la loro condizione, influisce direttamente sull’urbs, ne oscura le forme, deturpa la sua bellezza. Consideriamo solo un aspetto, ma rilevante, della vita dei romani: il modo in cui si spostano nello spazio della città. Il traffico privato su gomma, l’uso dell’automobile è cresciuto di anno in anno, emarginando costantemente il trasporto pubblico. Il numero dei veicoli in città tende a superare quello dei cittadini: 978 ogni mille abitanti, compresi vecchi e bambini, ricordava l’anno scorso Francesco Erbani in Roma Il tramonto della città pubblica (Laterza). I km delle linee di metropolitana sono inferiori perfino a quelli di Atene, di Bucarest, di Teheran. Nella città che negli ultimi decenni è stata costruita secondo gli interessi di pochi, senza linee ferrate, accade che ognuno si sposta da sé, con la propria auto, con danno e svantaggio di tutti. Con svantaggio, perché il traffico cittadino è ormai ridotto a un ingorgo permanente, ci si muove a fatica, sempre più lentamente. Con danno, per la crescita dello smog e del particolato nell’aria che tutti respiriamo, per l’usura dei monumenti, la diffusione dello sporco sugli edifici, la cancellazione visiva del paesaggio urbano.
Chi gira per Roma scorge sempre meno le sue forme sontuose e sempre più le sue piazze e le sue strade e occupate da una fitta fila di auto in sosta. Ci sono quartieri dove la densità di quelle scatole metalliche, che satura lo spazio di ogni piazza, strada, marciapiede fa pensare a un assedio permanente. Dà al cittadino che passa un senso di soffocamento. Roma è ormai un unico, immenso parcheggio, un dormitorio, un cimitero di macchine all’aperto. Tale condizione dell’urbs a sua volta svuota la civitas dei romani, abbrutiti dentro un paesaggio di latta che li deprime, li spinge a cercare soluzione personali, a farsi orientare ancora più perversamente dall’ideologia individualistica dominante, la grande nemica della città. Si arrangiano e cercano di sopravvivere nel caos coi propri mezzi. E il circolo vizioso trascina tutti verso il buco nero del disagio collettivo crescente, dello spreco di tempo, dell’inagibilità dello spazio, dell’infelicità urbana. Dove può andare una città infelice? Quali fini di civiltà può assegnarsi?
E allora, tremenda domanda: come spezzare il circolo che strangola la capitale? Non è facile trovare la «formula che ci salvi» dopo decenni di occupazione caotica del territorio, dopo aver riempito i dintorni di Roma di centri commerciali che richiamano traffico veicolare da ogni punto della città. Si può indicare qualche stretto sentiero d’avvio. Oltre a quelli noti e costosi: la rete della metropolitana. Una ventina di anni fa tante strade di Roma, anche in quartieri periferici, erano state contrassegnate come corsie preferenziali. Riservate agli autobus e ai taxi. Ben presto sono diventate parcheggi permanenti di auto in sosta. Il tempo poi ha finito col cancellarle.
Infine sono state in gran parte trasformate, anch’esse, in strisce blu per le auto dei residenti. Ecco, una iniziativa importante potrebbe essere quella di ritornare indietro: cominciare, un quartiere alla volta, a ridisegnare le corsie preferenziali, almeno nelle strade di grande scorrimento. Occorre aprire un varco di convenienza ai cittadini che usano i mezzi pubblici, rendere i loro spostamenti più veloci , più economici, più agevoli rispetto alle auto.
Per una tale iniziativa bisogna essere consapevoli che la mano pubblica, il governo cittadino deve imporsi sugli interessi particolari e disordinati dei singoli. Occorre dare man forte al sentimento della civitas, al sentirsi membri di una stessa comunità con comuni bisogni, obbligati a regole collettive. Si rende insomma necessario ricreare un nuovo disciplinamento civico. Perciò il potere pubblico deve scoraggiare l’uso privato della macchina . Questo avviene ormai da decenni in gran parte delle le città d’Europa, sicché, con ogni evidenza, la civiltà urbana coincide apertamente, da Berlino ad Amsterdam, da Oslo a Stoccolma, con l’assenza di automobili dai suoi spazi.
Scoraggiare i cittadini dall’uso dell’auto privata non solo incoraggia il ricorso a nuove forme di trasporto, come il car sharing, ma incide in maniera rilevante sul bilancio delle famiglie. Il possesso dell’automobile, talora anche due e tre per famiglia, è sempre più costoso e altera lo stile di vita, la scelta dei consumi. Quanto danaro si spende per l’acquisto di un auto, per l’assicurazione, la tassa di circolazione, la manutenzione, le riparazioni periodiche, le multe, l’acquisto di carburante?
E quanto tale spesa spinge a risparmiare sull’acquisto di libri e giornali, accesso ai musei e ai concerti, sulla qualità del cibo, che dovrebbe essere invece al primo posto nella gerarchia dei consumi di un cittadino italiano del nostro tempo?
Così il governo cittadino potrebbe incoraggiare una svolta culturale importante, ridare vigore a una nuova civitas, anche marcando politicamente la propria condotta con un gesto di giustizia sociale. I mezzi pubblici servono soprattutto ai tanti cittadini che la macchina non la possiedono o non possono guidarla perché anziani. La città un tempo apriva le braccia a tutti e ha inventato istituzioni per i più deboli ed emarginati.
Occorre smettere di offrire i suoi spazi agli appetiti disordinati dei più forti. Anche partendo delle città si può cominciare a colpire le disuguaglianze sociali, la peste che spazza e annichilisce le società del nostro tempo.
postilla
Per risolvere i problemi (o meglio, il problema) posti da Bevilacqua, cioè rendere l'urbs adegiata a un futuro civile per la civitas il latino non basta: occorre ricorrere al greco e completare la triade di significati, e contenuti, che l'habitat dell'uomo deve possedere: questo deve tornare a essere , insieme, urbs, civitas, polis. I primi due termini esistono, benché entrambi molto malconci, il terzo, ossia la politica, manca del tutto. A meno che non si voglia definire "politica" il malgoverno dei partiti d'oggi