«In un editoriale il direttore del quotidiano pro-governativo paragona il ricercatore italiano a Said, la cui morte per mano della polizia ha dato il via alle proteste contro Mubarak. Ancora in silenzio il parlamento». Il manifesto, 5 aprile 2016 (m.p.r.)
Giulio come Khaled: il doloroso parallelo tra i due 28enni, massacrati dalla brutalità del regime egiziano, lo aveva ricordato la madre del giovane egiziano, Layla. In un video messaggio alla madre di Regeni, Paola Deffendi, ha fatto suo il dolore per il ricercatore italiano e ringraziato per l’attenzione che la famiglia ha attirato sui casi di migliaia di egiziani scomparsi nel silenzio. Oggi quel parallelo lo vede anche la voce del governo egiziano, il quotidiano al-Ahram. In un editoriale di domenica, il direttore Mohammed Abdel-Hadi Allam avverte del pericolo che Il Cairo corre, molto simile a quello che sei anni fa portò alla caduta di Mubarak: il caso Regeni ha le stesse potenzialità distruttive per il governo egiziano del caso di Khaled Said.
Nel giugno 2010 il giovane era stato pestato a morte ad Alessandria dalla polizia. La foto del suo corpo martoriato è stata resa pubblica, visualizzazione fisica dell’atrocità del regime (esattamente come la famiglia Regeni ha promesso di fare se la verità non verrà a galla) ed è diventata il simbolo della rabbia del popolo egiziano, di attivisti e giovani che hanno lanciato campagne online e per le strade. Un’escalation che sei mesi dopo ha trovato il suo sbocco in Piazza Tahrir. Per questo Khaled è considerato il primo martire della rivoluzione, il sasso che ha generato la valanga sotto cui è sparito Mubarak.
Abdel-Hadi Allam ne è convinto: il "sasso" Regeni, scomparso proprio nell’anniversario della rivoluzione, può avere lo stesso effetto sul presidente-golpista al-Sisi. Domenica ha avvertito i vertici dello Stato, colpevoli di non aver afferrato la gravità della situazione: «Il caso di Said non andò come molti all’epoca si aspettavano - scrive il direttore di al-Ahram, nominanato dall’esecutivo come i predecessori - La storia naive sulla morte di Regeni ha danneggiato l’Egitto all’esterno e all’interno e ha offerto la giustificazione per paragonare quello che avviene oggi nel paese con quello che avveniva prima del 25 gennaio 2011».
Un regime dittatoriale, uno Stato di polizia che al-Ahram - il più diffuso quotidiano della regione - dalle sue colonne descrive con prudenza: riporta notizie di sparizioni e torture (soprattutto nel corso dell’ultimo anno, pubblicando reportage sulle condizioni delle carceri e le campagne degli attivisti anti-governativi) ma le controbilancia con le voci governative che negano una repressione che è strutturale, istituzionalizzata. Stavolta però si gioca fuori casa: annunciate i risultati dell’inchiesta con trasparenza, scrive Abdel-Hadi Allam, o metterete in serio pericolo le relazioni con l’Italia, il cui governo ha dimostrato dalla prima ora l’apprezzamento per la piega presa dal Cairo di al-Sisi.
Il fatto che simili parole - «ricerca della verità», «storia naive» – siano pronunciate da un giornale di proprietà dello Stato lascia il re nudo: «Alcuni funzionari che non capiscono il valore della verità pongono lo Stato egiziano in una situazione imbarazzante ed estremamente grave. Chiediamo allo Stato di affrontare il caso con la massima serietà e portare di fronte alla giustizia i colpevoli. Quelli che non colgono il pericolo per le relazioni tra Egitto e Italia stanno spingendo verso una rottura dei rapporti diplomatici».
Il governo non pare avere il polso della situazione, con un’opinione pubblica ormai ampiamente schierata contro le posizioni dei vertici. Che continuano a rilasciare dichiarazioni per poi rimangiarsele. La strategia del "avete capito male", però, non dà i risultati sperati. Dopo giorni di rimpalli tra Ministeri degli Esteri e degli Interni, domenica a negare di aver mai attribuito la responsabilità della morte di Giulio alla fantomatica banda criminale è stato lo stesso dicastero responsabile della polizia. Quel Ministero degli Interni che aveva pubblicato le foto di un vassoio d’argento con su i documenti di Regeni, dicendo di averli trovati in casa della sorella del capo banda, Tareq Abdel Fattah, domenica ha negato durante la trasmissione tv al-Haya al Youm di aver mai detto che la gang avesse ucciso il giovane.
La televisione resta il luogo preferito per esporre teorie e opinioni. Come successo in passato, c’è chi torna sulla versione del complotto internazionale ordito dai Fratelli Musulmani: Rifaat el-Said, esponente del Partito dell’Unione di Sinistra, sul canale Al-Assema ha "identificato" Regeni come «agente di un apparato italiano» e posto il dubbio che la Fratellanza «possa essersi infiltrata negli apparati egiziani per mettere l’Egitto in crisi». Resta ancora in silenzio il parlamento, ora su indicazione del presidente della Camera dei Rappresentanti: ieri Ali Abdel Aal ha ordinato ai parlamentari di non trattare il caso Regeni durante le sedute pubbliche.