Il manifesto, 2 aprile 2014
La crisi italiana sta producendo uno dei fenomeni politici più inquietanti, oggi, in Europa: un populismo di tipo nuovo, virulento e nello stesso tempo istituzionale. Tanto più preoccupante perché emergente non al margine ma nel centro stesso del sistema di potere. Non dal basso (come avviene per i movimenti così etichettati) ma “dall’alto” (dal cuore del potere esecutivo, dal Governo stesso), assumendo come vettore (altro paradosso) l’unico partito che continua a definirsi tale.
E che fino a ieri tendeva a presentarsi, a torto o a ragione, come la principale barriera contro le derive autoritarie e populistiche. Mi riferisco al rozzo Stil novo introdotto da Matteo Renzi, con la convinzione che non si tratti, solo, di una questione di stile. O di comunicazione, come frettolosamente lo si classifica. Ma che tutto ciò che si consuma sotto i nostri occhi alluda a una mutazione genetica del nostro assetto istituzionale e dell’immaginario politico che gli fa da contorno, in senso, appunto, populista.
Se infatti per populismo si intende l’evocazione (in ampia misura retorica) di un “popolo” al di fuori delle sue istituzioni rappresentative e per molti versi contrapposto alla propria stessa rappresentanza (al corpo dei propri rappresentanti riconfigurati in “casta”), allora non c’è dubbio che Renzi ne interpreta una variante particolarmente virulenta. E’ tipico di Renzi, da quando ha varcato la porta di palazzo Chigi, lavorare per aggirare e tendenzialmente liquidare ogni mediazione istituzionale (a cominciare dal Parlamento) per istituire un rapporto diretto capo-massa.
Le maniche di camicia ostentate nei palazzi del potere (come fosse il leader di un movimento di descamisados anziché provenire da una tradizione democristiana di lungo corso e da uno dei più formalistici pezzi dell’establishment quale è stato in questi anni il Pd). Il lessico da ricreazione scolastica, anche dove si parla di cose serie. Il discorso al Senato — lo ricordate? -, volutamente sgangherato, informalmente involgarito, con quello sguardo perduto lontano, nell’occhio delle telecamere per sembrare puntato sull’intimità delle famiglie, comunque oltre i volti preoccupati dei senatori seduti davanti… Tutto allude a una volontà, esplicita, di far tabula rasa della “società di mezzo”, delle molteplici strutture di mediazione del rapporto tra popolo e Stato, che siano le forme consolidate della democrazia rappresentativa (il Parlamento in primo luogo), o quelle sperimentate della rappresentanza sociale e dei gruppi di interesse (sindacati, Confindustria, liquidati tutti come concertativi). E di verticalizzare quel rapporto sull’asse personalizzato dell’uomo solo al comando. Del “mi gioco tutto io”. Anche “quello che è vostro”.
Ora non c’è dubbio che in questa spericolata operazione Renzi può contare su un dato sacrosanto di realtà, costituito appunto dalla macroscopica crisi della Rappresentanza. Dei suoi soggetti e dei suoi istituti, ben visibile nei fatti di cronaca: nell’impotenza mostrata dal Parlamento a più riprese, dalla crisi che portò al governo Monti alle vergognose scene che accompagnarono l’elezione del Presidente della Repubblica. Nel discredito dei parlamentari (quasi tutti), dei consiglieri regionali, degli amministratori provinciali e comunali, giù giù a cascata lungo tutta la scala degli organi elettivi, nessuno salvo. Persino nello status dei protagonisti attuali: nessuno dei tre leader che si spartiscono la scena, da Grillo, a Berlusconi a Renzi stesso è un “parlamentare”. Ma a differenza di chi di quella crisi non ha voluto neppur prendere atto (la precedente maggioranza Pd, che infatti si è andata a schiantare senza neppure capire perché), e di quanti (pochi) su quella crisi si arrovellano per cercarne una uscita in avanti (noi della lista per Tsipras, per fare un nome), Renzi ha deciso di quotarla alla propria borsa.
E’ il primo che ha scelto consapevolmente di capitalizzare sulla crisi degli ordinamenti rappresentativi. Per valorizzare il proprio personale ruolo nel quadro di un modello di gestione del potere esplicitamente post-democratico. O, diciamolo pure senza temere di apparire retrò, anti-democratico. Fondato su una forma estrema di decisionismo, non più neppure legittimata dai contenuti, ma dal metodo. Decidere per decidere. Decidere in fretta. Anzi, fare in fretta anche senza decidere, perché comunque, quello che conterà al fine del consenso, non sarà un fatto concreto ma piuttosto il racconto di un fare (Crozza docet).
Per questo hanno ragione, terribilmente ragione, gli autori del documento di Libertà e giustizia, laddove denunciano il reale rischio di un autoritarismo di tipo nuovo. Basato sullo sconquasso dell’architettura istituzionale e sulla rottamazione dell’idea stessa di democrazia rappresentativa, fatta con giovanilistica noncuranza (con “studentesca spensieratezza”, per usare un’espressione gobettiana), nel quadro di una partita in cui l’azzardo prevale sul calcolo, la velocità sul pensiero. E’ possibile, come temono (o sperano) in molti, che Matteo Renzi “vada a sbattere”. Che, come il cattivo giocatore di poker costretto a rilanciare continuamente la posta ad ogni mano perduta, alla resa dei conti (all’emergere dell’iceberg sommerso del fiscal compact e delle decine di miliardi da pagare) faccia default. Prima o poi. Ma, appunto, dalla vicinanza di quel prima o dalla distanza di quel poi dipende l’ampiezza dei danni (irreversibili) che è destinato a fare. Dentro questa forbice temporale, si gioca la possibilità di costruire un’alternativa politica, di sinistra, partecipativa, non arresa ai vincoli europei, come vuole l’Altra Europa con Tsipras, e al malaffare italiano. Anche solo una testa di ponte, per tenere quando si dovranno calare le ultime carte.