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Curzio Maltese
Il risultato delle elezioni secondo "la Repubblica"
21 Aprile 2013
Articoli del 2013
Mentre il fondatore del giornale è contento della vittoria di Napolitano e rimprovera Rodotà di non avergli telefonato, Concita De Gregorio e Curzio Maltese scrivono gli articoli fortementi critici che abbiamo scelto.
Mentre il fondatore del giornale è contento della vittoria di Napolitano e rimprovera Rodotà di non avergli telefonato, Concita De Gregorio e Curzio Maltese scrivono gli articoli fortementi critici che abbiamo scelto.

La Repubblica, 21aprile 2013

Se Berlusconi ride e Pierluigi piange

di Concita De Gregorio
SONO le sei e dieci di sabato pomeriggio quando Berlusconi e Bersani rientrano in aula per essere lì nel momento in cui Laura Boldrini leggerà per la cinquecentoquattresima volta il nome di Napolitano, confine numerico della rielezione. Berlusconi ride, giù in basso a destra. Bersani piange, in alto a sinistra. Applaudono, entrambi felici di essere stati riportati in vita dalla concessione del vecchio Presidente: va bene, se non trovate altro, se proprio non c’è altro modo allora accetto. Alle mie condizioni: per un tempo limitato e con un consenso ampio. Berlusconi esulta circondato dalle sue ragazze elette in Parlamento, perché se fossero passati Prodi o Rodotà sarebbe stato fuori dai giochi, dal governo prossimo venturo, da tutto. Così invece si farà un governo all’antica maniera, che sia del presidente o politico non importa: quello che importa è che Berlusconi sarà lì, protagonista di nuovo, resuscitato ancora. Sarà molto pesante, per giunta, nel nuovo governo perché senza l’appoggio di Sel la delegazione Pdl-Lega avrà anche alla Camera la maggioranza, rispetto al Pd. Amato premier Alfano vice, si dice. O forse Letta-Letta, zio e nipote, coi “saggi” dentro. Il Pdl conterà e deciderà parecchio. Bersani piange di commozione attorniato dai suoi Speranza e Gotor, da Stumpo e da tutto il gruppo dirigente di un partito dissolto in un rivolo di correnti assetate l’una del sangue dell’altra, morto nel minuto esatto di venerdì 19 in cui il fondatore Romano Prodi è stato affondato, dopo essere stato acclamato, da 101 voti occulti in dissenso. Per spregio, per vendetta, per antichi rancori personali e politici. Un segretario e un gruppo dirigente dimissionari, responsabili di una clamorosa serie di fallimenti che hanno lasciato sul selciato di questa corsa al Colle i nomi di anziani e rispettabili leader come Marini, Prodi, indirettamente Rodotà che sarebbe stato presidente se il Pd non avesse deciso di escluderlo per una ripicca ancora oggi inspiegata: doveva telefonare lui per primo, doveva dichiarare di essere uomo del Pd e non solo di Grillo, si sente dire come fosse la storia di un’amicizia contesa tra adolescenti e non invece una vecchia resa dei conti politica che ha origine nel ’92, come vedremo, e che ha sbarrato la strada ad un’alternativa di campo tutta a sinistra: Rodotà, spiega bene Vendola che da oggi con Fabrizio Barca diventa il perno dello spazio a sinistra lasciato sgombro dal Pd, avrebbe «cambiato schema di gioco, avrebbe consentito di fare un governo con le forze di questo parlamento, avrebbe tagliato fuori Berlusconi. Hanno avuto paura, sono tornati indietro invece di andare avanti. Siamo fermi a metà del 900, una restaurazione. Preferiscono governare con Alfano pur di restare vivi. Ma è un’illusione. E’ solo una proroga dell’agonia ».
Una restaurazione. Una proroga. Una scena anni Novanta che si ripete qui, in aula, oggi, mentre nel mondo fuori i circoli del Pd sono in rivolta e le piazze in ebollizione. Una foto in bianco e nero, un fermo immagine con Berlusconi e Bersani nascosti dietro la sagoma grande di Napolitano, chiamato a colmare il vuoto della politica. Nascosti dietro una figura inattaccabile, richiamata in servizio alla soglia dei 90 anni facendo leva sul suo amore per l’Italia: che ha bisogno di stabilità, di un governo, di un credito internazionale. E, ipocritamente, nascosti dietro al fatto che nessuno potrà osare dire una sola parola contro di lui, il Presidente, non una di quelle che avrebbero detto contro di loro. Come i bambini dietro al fratello grande. Salvo che si tratta appunto «di una sconfitta della politica, questo è chiaro», dice Anna Finocchiaro. Di un’ammissione di impotenza. Di un certificato di morte di partiti che non sono stati in grado di dar vita a una maggioranza parlamentare capace di esprimere un presidente prima e un governo poi. Si celebra dunque la fine della democrazia parlamentare, oggi. Dopo il funerale del Pd, le esequie di un sistema «che non rappresenta più né il Paese né se stesso – dice Roberto Morassut, pd – e si va diritti verso il presidenzialismo, sperando almeno che sia fatto con buone regole. L’elezione diretta del capo dello Stato, in effetti, ha ormai solo bisogno di norme che la sottraggano al web». Il Parlamento è impotente, paralizzato, barricato dentro le sue mura.

Sono le sei e dieci del pomeriggio, e i Cinquestelle sono i soli che restano seduti e non applaudono. Vergognatevi, alzatevi, gli gridano da destra – a destra sono in effetti i più entusiasti. Non si vergognano né si alzano. Pippo Civati, che ha votato scheda bianca e che per settimane ha fatto la spola fra i dirigenti Pd e i cinquestelle, dice: «Mi hanno mandato da loro a trattare e poi mi hanno lasciato lì come il soldato Ryan. Nessuno voleva avere notizie. A nessuno interessava niente, dei cinquestelle, in realtà. Volevano solo l’eterno ritorno dell’uguale». Alessia Rotta, neoeletta pd di Verona, dice che «i vecchi del pd hanno fatto come le murene dietro gli scogli, hanno affos-
sato Prodi per i loro calcoli, non hanno voluto Rodotà per la loro sopravvivenza e poi hanno provato a dare la colpa a noi, dicendo che sono i giovani incontrollabili che danno retta al web, quelli eletti dalle primarie, ad aver tradito. Ma non è così, non è vero. Io ho votato Prodi, e poi Napolitano: la resa dei conti è tutta roba loro». Altre schede bianche, nel voto a Napolitano, sono arrivate da Tocci, da Antonio Decaro deputato barese che ha proprio scritto “Bianca”, il nome di sua figlia. Corradino Mineo aveva votato contro già nella riunione mattutina del gruppo, unico no.

Civati era un ragazzino, dice che se lo ricorda di quando nel ’92 Rodotà scrisse un testo durissimo contro la corruzione a Milano, contro i miglioristi del Pci lombardo. Si ricorda che poi, subito dopo, gliela fecero pagare eleggendo alla presidenza della Camera un migliorista del Pci, appunto, e non lui: l’eletto era Giorgio Napolitano. Hanno la memoria lunga, gli eredi del Pci. Racconta Laura Puppato che venerdì mattina è andata nella stanza di Bersani, al piano terra di Montecitorio, a dirgli: per quel che sento dai cinquestelle si può provare a chiedere a Rodotà di ritirarsi di fronte alla candidatura Prodi, lo vuoi chiamare tu, segretario? Bersani ha risposto no, io non lochiamo, parlaci tu. E così nessuno degli anziani compagni di partito ha chiamato Rodotà, hanno mandato avanti la neoeletta Puppato. «Doveva essere lui a chiederci i voti», dice il “giovane turco” Matteo Orfini. Chiami tu, chiamo io, no chiama lui. Una candidatura naufragata così, le vere ragioni occultate dalle presunte buone maniere.

Una rielezione, questa di Napolitano, che nasce – dice Walter Verini, veltroniano – «dalla Capaci della politica come quella di Scalfaro nel ’92 fu determinata dalla morte di Falcone. Solo che oggi la voragine è qui dentro». Tutta la manfrina sui nomi “divisivi” non era altro che un modo per occultare – male, tra l’altro – l’incapacità dei tre blocchi usciti dalle elezioni di allearsi alla luce del sole: Pd-Pdl era un inciucio, e così è morto Marini, Pd-Cinquestelle era una resa, e così è morto Rodotà. Prodi è stato ucciso invece per mano del Pd, che ha fatto al tempo stesso harakiri. Si torna ora alle case madri, come da anni invoca D’Alema: un partito nettamente di sinistra che vedrà protagonisti Vendola e Barca, quest’ultimo ieri tardivamente intervenuto a sostegno di Rodotà. E poi il sindaco Emiliano, e i tanti altri che dal Pd in tutta Italia hanno chiesto invano un cambio di passo. «Chiederemo di entrare nell’internazionale socialista», ha detto Vendola. Chiarissimo: saremo la sinistra in Europa. Dall’altra un partito di centro con una lieve propensione a sinistra, con Renzi alla guida. La scissione è ormai alle porte. Chi ieri ha votato “Francesco Guccini”, nell’urna, dice che «non si può andare avanti guardando all’indietro». Dice anche che quando cadono gli equilibristi, al circo, entrano in scena i clown. Ma non c'è niente da ridere, perchè «siamo come funamboli che camminano sulla fune, in bilico sul baratro, e l’idea di restare immobili fermando il film di Napolitano non può funzionare a lungo». Perché, come tutti sanno, quando si è sulla fune a restare immobili si cade. La paura paralizza, poi uccide.

Una new company del cambiamento

di Curzio Maltese

Eppure la sinistra, nella sua massima espressione politica, il Partito Democratico, non c’è più. Esiste un vasto popolo di sinistra, più ampio di quanto non dica il risultato elettorale, che condivide valori e progetti comuni e ha maturato negli anni del berlusconismo un idem sentire solido e coerente, manifestato in mille occasioni. Esistono élite di sinistra in ogni settore del Paese, nell’economia e nella cultura, nel mondo delle professioni e nell’informazione e perfino nella politica, che godono di stima e considerazione in patria e all’estero. L’elenco dei candidati presidenti votato dagli iscritti militanti 5 Stelle ne comprendeva un bel campionario. La questione è: perché questo pezzo di società vitale e intelligente esprime un ceto politico dirigente così lontano da se stesso? Cosa c’entra la sinistra che s’incontra tutti i giorni nel paese reale con questi personaggi che si odiano da vent’anni, capaci di qualsiasi tradimento o compromesso pur di far valere le proprie immotivate ambizioni e soprattutto far fallire quelle del compagno di partito?
Il problema di rappresentanza è serio e antico. Da sempre si dice che Berlusconi identifica quasi antropologicamente gli elettori del centrodestra ed è vero. Ora vale anche per Grillo e i suoi elettori, contenti di chiamarsi grillini. In tanti anni invece non s’è mai trovato un leader del centrosinistra che ne identifichi gli elettori. Non per caso ne abbiamo avuti una decina. Le primarie sembravano la soluzione, ma non lo sono state. Al principio perché non erano vere e l’ultima volta perché si sono rivelate una recita. Almeno da parte del vincitore, Pierluigi Bersani. Il tracollo della linea dell’ex segretario di questi giorni è soltanto il precipitato finale di una lunga serie di ambiguità e finzioni cominciata subito dopo la vittoria su Renzi. Se Bersani avesse tenuto la barra dritta sulle idee delle primarie, probabilmente avrebbe vinto anche le elezioni. Si è invece lanciato in una
serie di giravolte e omissioni, non ha detto nulla su programmi e alleanze, nel tentativo di lasciarsi tutte le porte aperte dopo il voto. Dopo che il voto degli italiani gliele ha chiuse in faccia, Bersani ha finto per cinquanta giorni di volere un accordo con i grillini.

Ma quando si è trattato di compiere l’atto più importante di questo inizio di legislatura, la scelta del Quirinale, di colpo si è girato dalla parte di Berlusconi, tentando la carta del compromesso su Marini, foriera di un futuro governo di larghe intese. Nonostante Grillo gli offrisse su un piatto d’argento un nome che è la biografia stessa della sinistra italiana, Stefano Rodotà. Il meno grillino dei candidati 5 Stelle, come testimoniano le sue parole di ieri, da nobile sconfitto. Ora, per quanto trattati da sciocchi dai dirigenti, agli occhi degli elettori del Pd la scelta di escludere a priori la candidatura di Rodotà ha una sola possibile spiegazione. Il gruppo dirigente del Pd non ha mai voluto un accordo con Grillo, ha soltanto messo in scena una lunga manfrina per far contento il popolo.
Il vero, ma inconfessabile, obiettivo del gruppo dirigente era l’accordo con Berlusconi, che alla fine infatti è arrivato. Sul nome di Napolitano, soluzione proposta dal Cavaliere e media al seguito fin dal primo giorno. Anche qui, uno straordinario paradosso. L’ultimo grande dirigente del Pci sulla scena riconfermato al Quirinale per volontà e come segno di vittoria dell’anticomunista per eccellenza.
Il vecchio nuovo presidente ricomincerà da dove aveva interrotto, la proposta di un governo di larghe intese con Pd e Pdl, sull’esempio nobile dell’unità nazionale fra Moro e Berlinguer. Qui però si tratta di mettere insieme non i due vincitori, ma due sconfitti, Pd e Pdl, che insieme hanno perso dieci milioni di voti. Per quanto durerà? Si spera comunque il tempo di cambiare una legge elettorale infame e di tornare al voto. Con un nuovo Pd. Dopo un fallimento come quello di Bersani, non resta che separare “l’azienda”. Da una parte una “bad company”, con la solita nomenclatura impegnata a regolare i vecchi conti in rosso. Dall’altra una “new company” dove si mantenga vivo il dibattito fra linee diverse, come sono quelle di Matteo Renzi e Fabrizio Barca, ma su un piano diverso di civiltà politica e onestà intellettuale, in sintonia con la base elettorale. Un nuovo Pd capace di sfidare Grillo sul terreno del cambiamento e di presentare al Paese una visione del futuro, rispetto ai rancori del passato che hanno attanagliato i vecchi gruppi dirigenti fino alla distruzione.

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