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Franco Rosalba; La Cecla Castelletti
Il rinascimento delle città svuotate dalla crisi
13 Aprile 2012
Tentativi di uscire dalla crisi della città partendo dalla superficie. La Repubblica, 13 aprile 2012

Al numero 120 di Deptford High Street, tra un´impalcatura e una lavanderia, dove prima c´era un´agenzia per il lavoro oggi sono in mostra sculture di legno e stampe colorate dietro a due vetrine sormontate da un´insegna a caratteri rosa: Utrophia. "Una parola – spiega Stephen Molyneux, per tutti Steve – che inventai per la mia tesi in Letteratura. Un gioco di parole tra utopia ed eutrofizzazione". Sono stati creativi come Steve e comunità locali ad avere ridato vita negli ultimi mesi alle vie britanniche dello shopping svuotate dalla crisi colonizzando i negozi e gli uffici rimasti vuoti. A febbraio la percentuale di negozi vuoti nelle high street britanniche era del 14,6 per cento, il tasso più alto da quando nel 2008 la Local Data Company (Ldc) ha iniziato i suoi rilevamenti mensili. "Nel 2011 la percentuale è stata del 14,3 per cento, mentre nel 2008 era del 5,5 per cento. Parliamo – precisa Matthew Hopkinson, il direttore di Ldc – di 48.000 unità inoccupate. Un negozio su sette". "Slack space", li chiamano, prendendo in prestito il termine informatico che indica i byte non occupati in un file.

L’arte salva la città dimenticata

di Rosalba Castelletti

"Slack space", li chiamano, prendendo in prestito il termine informatico che indica i byte non occupati in un file. In febbraio la percentuale di negozi vuoti nelle high street britanniche era del 14,6 per cento, il tasso più alto da quando nel 2008 la Local Data Company (Ldc) ha iniziato i suoi rilevamenti mensili. «Nel 2011 la percentuale è stata del 14,3 per cento, mentre nel 2008 era del 5,5 per cento. Parliamo - precisa Matthew Hopkinson, il direttore di Ldc - di 48.000 unità inoccupate. Un negozio su sette».

Per molti le vetrine sbarrate da grate e lastre di compensato e i chiavistelli alle porte non sono che il segno di disoccupazione e di declino, per alcuni rappresentano invece un´opportunità. Non riuscendo a trovare nuovi acquirenti né affittuari, i proprietari preferiscono cedere gli spazi a prezzi modici ad artisti e comunità locali piuttosto che vederli inoccupati. «Se sei un´organizzazione senza scopi di lucro - commenta Steve, 36 anni, scompigliandosi i capelli - godi di condizioni di favore. È un incastro perfetto dove noi aiutiamo i proprietari degli immobili prendendoci cura delle loro proprietà e loro aiutano noi mettendoci a disposizione spazi per le nostre attività. E anche la gente è contenta perché riportiamo vitalità in angoli della città che stavano diventando desolati e quindi pericolosi».

Steve ha fondato Utrophia dieci anni fa. Tutto è cominciato con alcuni dj che mettevano musica nei locali, mentre dei visual artist proiettavano filmati sulle pareti. Poi si è formato un collettivo di artisti sempre alla ricerca di spazi dove esporre le proprie opere: prima un bar, poi una chiesa sconsacrata e infine un vecchio magazzino industriale. È con la crisi del 2009 che hanno iniziato a pensare in grande. Prima trasformando una vecchia fabbrica di gelato in un centro culturale, poi aprendo uno spazio per mostre e laboratori nel cuore di Deptford, nel sudest di Londra.

«Era un´agenzia per il lavoro, ma il municipio locale di Lewisham ha dovuto vendere. E se chiude un´agenzia per il lavoro, per la gente non c´è speranza», osserva Helena Doyle, regista e visual artist ventiseienne originaria di Dublino che tre anni fa è entrata a far parte di Utrophia. «Per noi - ribatte Steve, mentre la gente curiosa dalle vetrine - è stata una fortuna. Ci avevano detto che saremmo potuti restare solo tre mesi e invece siamo qui da un anno e mezzo. Sarà pure cinico dirlo, ma è tutto merito della crisi».

«In passato capitava che negozi scomparissero in tempi di crisi e riaprissero in periodi di ripresa. Stavolta, anche quando l´economia si riprenderà, molti negozi in Gran Bretagna rimarranno vuoti perché il problema è strutturale», sostiene Neil Blake, direttore del dipartimento di Analisi economica presso la Oxford economics. Hopkinson è ancora più pessimista: «Il numero dei negozi vacanti aumenterà nel corso del 2012 a causa di una combinazione di fattori: disoccupazione, misure di austerity, aumento dei tassi d´interesse, crescita degli acquisti online. La verità è che gli spazi vendita sul nostro territorio sono troppi». Ed è scettico anche sull´istituzione di un fondo da 10 milioni di sterline da destinare a 100 aree colpite dalla crisi annunciato nei giorni scorsi da Mary Portas, incaricata dal governo di rilanciare le high street.

Molti municipi londinesi, a dire il vero, hanno iniziato ad affrontare il problema da tempo. Le autorità di Lewisham hanno iniziato a lavorare alla Deptford Regeneration già quattro anni fa. Prima convertendo un vagone ferroviario in disuso in un caffè, poi costruendo il modernissimo complesso "Deptford Lounge" che racchiude una biblioteca, una scuola elementare, centri sportivi e gallerie. È qui che a metà giugno apriranno i nove spazi espositivi di "Enclave". Le mura sono ancora fresche di pittura e gli studi sono ancora sgombri, «ma presto - commenta Lucy Ames - prenderanno vita». Prima che arrivasse la recessione, il proprietario sperava di trasformarla in un complesso di appartamenti di lusso. Oggi le celle sono diventate degli spazi espositivi, le stanze per gli interrogatori sono state trasformate in una galleria e i vari uffici ospitano studi d´artisti.

Lo "slack space movement" londinese, come l´ha battezzato qualcuno, sostiene le iniziative locali, promuove il senso di appartenenza e rilancia i quartieri più miseri. Un movimento che ha precedenti nella Instand (be) setzung, "riabilitazione-occupazione", della Berlino Ovest nel 1979 e che conta esempi anche oltre Manica e oltre Oceano. Come il centro commerciale "Galleria at Ereview" di Cleveland, in Ohio, che oggi ospita una serra. A Dalston, nel municipio di Hackney, East London, tra i centri di ricostruzione unghie e le agenzie di scommesse di Dalston Lane - i pochi commerci sopravvissuti alla crisi - spicca la facciata verde di Farm: Shop, un ex centro di accoglienza per donne come testimoniano telecamere a circuito chiuso e recinzioni sul tetto. È una vera e propria fattoria-negozio: in una sala ottanta tilapie nuotano in due vasche d´acqua e ciuffi di insalata germogliano sulle mensole. Nel cortile pomodori e peperoni maturano in giardino, mentre nello scantinato crescono funghi e sul tetto galline covano uova. «La distanza tra la gente e quello che è mangia è sempre più ampia. Il nostro obiettivo è ridurla, riavvicinare la gente al cibo», spiega il cofondatore Paul Smith. «Entrano, mangiano, ci chiedono come funziona e spesso finiscono col venire a piantare le proprie verdure in giardino».

Il Farm Shop è solo uno dei tanti progetti sostenuti dal municipio di Hackney che, nell´ambito del programma "Art in empty spaces", offre spazi vacanti perché diventino piattaforme d´iniziative locali.

Nascosto dietro a un´alta palizzata di legno, un tratto dismesso di ferrovia è diventato un giardino, il Dalston South Curve Garden, dove i cittadini si ritrovano per godere della frescura degli arbusti o piantare ortaggi e verdura. «La gente può rilassarsi e condividere esperienze», spiega Feimatta Conteh.

«Siamo noi la risposta all´abbandono delle vie dello shopping. Progetti come il nostro infondono più energia alla comunità di un semplice negozio», conclude la regista Doyle. Il suo auspicio è che Utrophia non debba più traslocare. «È stimolante creare progetti in posti diversi, ma ogni volta ti chiedi se abbia senso investire tanto denaro ed energie se prima o poi sarai costretto ad andare. Vogliamo che questa diventi la nostra sede permanente».

È la disoccupazione creativa che ci difenderà dal mercato.

di Franco La Cecla

Vernacolare era secondo lui quello che nasceva dalla logica del fare qualcosa per sé o per gli altri, dall´orto all´asilo gestito in comune, dal mutuo appoggio al fare artigiano, artistico o letterario.

Il diritto alla disoccupazione creativa leggeva nella schiavitù del lavoro salariato la peggiore delle maledizioni che l´uomo moderno si era inventato e nel recupero del fare per sé e per gli altri una magnifica strada per una società conviviale. Oggi le tesi di Ivan Illich sono riprese da Richard Sennett nel suo bel libro "Insieme" che racconta come i luoghi che più hanno costituito comunità e democrazia dal basso sono stati nella storia i "workshop", i laboratori artigiani proprio perché è nel fare con le mani, con il corpo e con gli altri che si crea quel legame che consente alle comunità di resistere alla stupidità suicida del capitalismo.

L´arte del fare cose belle, utili, insieme cioè dell´avere un saper fare individuale o collettivo è ben lontana dall´idea di lavoro propugnata da un neoliberalismo che vorrebbe tutti dequalificati e decentrati e che sembra diventato più un piagnisteo bancario che un progetto di società. Strano che in un paese come l´Italia che ha inventato la qualità del fare ci si faccia prendere in giro da formule di rilancio dell´economia che non tengono conto dello straordinario potenziale che hanno le pratiche in cui la gente si realizza, sente di essere utile, sente di possedere un mestiere.

Mi sono commosso poco tempo fa visitando un laboratorio di sarti di altissimo livello in un paesino sperduto e bello dell´Abruzzo: le mani del migliaio di sarti che vi lavoravano conoscevano stoffe e corpi che dovevano indossarle, sagomavano, davano il garbo a giacche, tendevano pantaloni e dettagliavano asole con una felicità che poi spiegava come mai tra i loro clienti c´era e c´è Obama, Clinton e tutti i James Bond. Ma la logica del lavoro artigiano di alta qualità è la stessa degli artisti che non pensano di "lavorare" quando dipingono o quando scolpiscono, o degli scrittori che non ragionano con un tanto a parola, ma con la soddisfazione che gli viene dalle trippe profonde mentre buttano giù le righe. Effettivamente la crisi attuale potrebbe essere un modo di uscire finalmente dalla logica risicata dei banchieri e degli economisti nostrani. È solo l´energia, la gioia, la creatività, quella che soprattutto hanno i giovani a potere inventare "valore". Il valore, e questo gli economisti una volta lo sapevano, esiste prima del denaro. In altri paesi è così che si è fatto il salto in avanti, dando spazio proprio a queste arti e a queste culture del fare e spremendo l´entusiasmo giovanile nelle passioni pratiche.

Ma come si fa ad aspettarsi una cosa del genere in un paese come l´Italia che ha pianificato il genocidio dei propri giovani, che è stata la prima generazione a ricordo d´uomo ad avere deciso che per i giovani non c´era altra strada che quella di mettersi in ginocchio di fronte agli sdentati e pavidi adulti. In Cina, in Brasile, in Argentina, in India gli artisti, gli artigiani, coloro che si riappropriano delle risorse della terra, le cooperative di consumo, le cooperative di autocostruzione, l´educazione autogestita, i social network, l´informatica come accesso alle informazioni e come dibattito e discussione, tutto questo ha consentito e consente il "grande balzo in avanti". E non si tratta della banalizzazione delle idee di Ivan Illich operata oggi da coloro che si battono per la decrescita. La decrescita è ancora nella logica economica. Qui si tratta di riappropriarsi del valore del tempo, dei gesti, delle pratiche, dei saper fare e saper dire, del saper stare insieme e sapere gestire le risorse naturali e culturali. Il tesoro che i banchieri tanto cercano sta qui, e non si tratta di tirare la cinghia ma proprio del contrario dell´avere della vita e della società una concezione ricca e creativa. Quella che l´Italia ha insegnato al mondo nella sua passione per il bello, l´interessante, il fatto bene e che è stata cancellata dal ventennio più volgare che questo paese abbia avuto. Ma chissà che invece la crisi non aiuti anche noi a riscoprire il "valore" del valore.

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