Cio’ che sarebbe avvenuto se non potessimo giovarci d’ una magistratura autonoma rispetto ai partiti, e ciò che invece, per fortuna, è accaduto. Ma “del diman non v’è certezza”.
La Repubblica, 25 gennaio 2014
Nelle riflessioni sul da farsi vengono utili storie virtuali, ossia come staremmo se anziché X, fosse avvenuto Y.
Invertiamo la freccia del tempo rivivendo giovedì 1 agosto 2013: da sette ore, cinque ermellini deliberano in camera di consiglio sul ricorso contro la condanna a 4 anni, inflitta dalla Corte d’appello milanese all’ex premier; rispondeva d’una lunga frode fiscale consumata negli Usa, essendo già “statista”; il grosso della condotta delittuosa svaniva, estinto dalla prescrizione, tanto utile agli acrobati illegalisti. Corrono previsioni d’annullamento con rinvio, nel qual caso tutto finirebbe nel solito poco onorevole proscioglimento: il delitto c’era ma non è più punibile; se li mangia il tempo. Stiamo supponendo che la Corte esaudisca l’augurio: Deo gratias, esclamano molti eletti (li nominava il partito, come nella mussoliniana Camera dei Fasci e Corporazioni): temevano una fine abortiva della legislatura; questo rassicurante evento blinda le “larghe intese”. La posta era terribile: vedi l’allarme lanciato dal Corriere, 24 luglio 2013; povera Italia, in preda ai mercati se cadesse il governo.
La questione è chi abbia vinto. Ovvio, Berlusco Magnus, più forte della legge: da vent’anni combattevano due poteri e soccombe la compagnia in toga; siamo liberi, plaudono gli addetti al culto d’Arcore. Vanno in soffitta antiche massime giacobine, che vigano regole uniformi. Nossignori, è tempo d’una versatile empiria, attenta alle persone. Qualche politologo dai pochi scrupoli la chiama «moderna democrazia». Il redivivo aveva sfiorato la vittoria con una strepitosa rimonta: grazie al Porcellum sarebbe padrone nella Camera bassa solo che la campagna elettorale fosse durata ancora qualche giorno; i Pd calavano a vista d’occhio. Ormai egemone, terrà in piedi questa larva d’un governo finché gli conviene, logorando i consorti, nelle cui file impianta colonie.
Tale sarebbe il quadro se le sentenze corrispondessero ai calcoli nei luoghi del potere politico. Che il Pd sia timido davanti all’uomo forte, consta da precedenti indecorosi: non era eleggibile alle Camere, finché fosse in atto una concessione amministrativa economicamente rilevante (art. 10, c. 1, d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361), ma oligarchi ex comunisti gli garantivano le aziende; Montecitorio chiude gli occhi, intendendo l’incompatibilità nel senso ridicolo che tocchi solo Fedele Confalonieri, titolare della concessione, senza effetti rispetto al padrone, irresistibile autocrate. Fosse meno visibile, lo diremmo imprenditore occulto.
Era storia virtuale. La sera del 1° agosto le cose vanno diversamente. Gli ermellini rientrano e avviene tutto in pochi minuti, nemmeno fosse un caso qualunque, risolubile in equazioni legali: cade la pena accessoria (sarà rideterminata dalla Corte milanese); respinti i 47 motivi del ricorso; passa in giudicato la condanna a 4 anni (3 coperti da indulto). Inorridiscono i sedicenti moderati.
Qui la commedia prende ritmi indiavolati. L’alto stratega delle “larghe intese” appare stupito: una sua fulminea nota contiene lodi al condannato, degno homme d’État, e calcando la mano sull’altro piatto, raccomanda riforme della giustizia (cospicua gaffe, sia permesso dirlo). Furibondo, lui sbraita da Porta a porta: è atto «irresponsabile» condannarlo in primo, secondo, terzo grado; da vent’anni serve l’ingrata Italia (arricchendosi a dismisura e l’ha lasciata in bolletta); abitiamo un paese guasto ma lo ripulirà cominciando dai tribunali. Ai bei tempi esibiva una volgarità sorridente. Adesso ringhia, torvo e nero. Secondo recenti norme, votate anche dai suoi (d.P.R. 31 dicembre 2012 n. 235), e se ne vantavano qualificandosi «partito degli onesti», l’ormai irrevocabile condanna gli toglie il seggio al Senato, dove sedeva immune da eventuali misure cautelari o investigative: non è più candidabile; e a parte l’effetto morale, l’anno da scontare causa intuibili disturbi. Era sua l’idea d’un secondo settennio dell’uscente dal Quirinale: adombrando misteriosi accordi, vuol estorcere interventi che lo riqualifichino, come niente fosse; e nella retorica d’Arcore questo bagno catartico diventa «pacificazione », invocata dal «popolo della libertà». Gli riaprano i palchi dello spettacolo politico o cade il governo: esige la grazia, subito, motu Praesidentis, doveroso rimedio alla lesa maestà (cinque «impiegati » s’erano permessi d’applicargli uno stupido comma), e non basta perché pendono altre accuse; noncurante dell’elementare grammatica giuridica, chiede d’essere garantito da ogni rischio penale, né più, né meno. Nelle dicerie d’amnistia mettono becco ministro della difesa, uomo dai vari colori, e madama guardasigilli, mano quirinalesca.
Imperversa tre mesi la battaglia in Senato: l’esclusione dall’assemblea, cantano i suoi a piena gola, è una pena, quindi irrogabile solo ai fatti post 5 gennaio 2013 (entrata in vigore della relativa legge); decida in proposito la Consulta; e se ne riparla tra un anno; chi vivrà, vedrà. Pronta, la guardasigilli interloquisce ad adiuvandum: il diritto è «materia d’approfondimento», no?; e volano ciarle da portineria. Il voto segreto in assemblea lascerebbe più d’uno spiraglio all’inamovibile, dato l’umore malsicuro nel gruppo Pd, ma gli elettori incutono paura. Voto palese, quindi, e come Dio vuole, mercoledì 27 novembre, Re Lanterna perde il laticlavio: mese infausto; sabato 12 novembre 2011 usciva da Palazzo Chigi. La fase seguente, prossima al punto climaterico, pone gravi questioni.