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Tomaso Montanari
Il Primo Maggio degli schiavi della cultura
2 Maggio 2017
Lavoro
«Un giorno per chi vive nel lavoro/un giorno per chi spera nel futuro/un giorno per chi lotta con coraggio/è il nostro giorno è il primo maggio». huffingtonpost 1°Maggio 2017 (c.m.c.)

«». huffingtonpost 1°Maggio 2017 (c.m.c.)

Quanti, tra i “lavoratori” della cultura, possono fare loro le parole che Giorgio Gaber cantava nel 1965? Oggi il più difficile da far proprio è il primo verso: perché tra chi manda avanti il patrimonio culturale non manca chi spera, né chi lotta, ma tende a mancare chi vive del lavoro. Perché dietro i lustrini dei grandi musei ipercommerciali di Franceschini, dietro i siti archeologici di grido, dietro l’agonia della biblioteche e degli archivi c’è uno schiavismo senza diritti e senza redditi mascherato da volontariato.

Ebbene, una delle cose più insopportabili di questa insopportabile situazione è che gli schiavi trenta-quarantenni del patrimonio non hanno neanche il modo di parlare con la loro voce. E allora almeno oggi – in questo primo maggio 2017 – vorrei provare ad ascoltarla, questa voce. È per questo che pubblico una delle lettere che ogni tanto mi giungono dagli inferi del patrimonio culturale italiano:

«Egregio prof. Montanari,
siamo un gruppo di lavoratori della Biblioteca nazionale di Roma, formalmente inquadrati come volontari.
In quanto lavoratori sfruttati, ci sentiamo vicini a tutti i precari che, come dice Guido Cioni, oggi non trovano la giusta collocazione nella pubblica amministrazione, vittime di un mondo del lavoro ormai frammentato e non più in grado di offrire il giusto riconoscimento e collocamento a chi ha investito anni e soldi nello studio per vedere realizzate le proprie speranze e aspirazioni.
Il Mibact, attraverso lo strumento del project financing, ha dato avvio a interventi di ristrutturazione e restyling della Biblioteca senza porre al centro dei suoi obiettivi il lavoro e ignorando le funzioni essenziali di un simile istituto. Le biblioteche, soprattutto in un paese ricco di storia come l’Italia, sono luoghi in cui dovrebbe essere celebrata la cultura, nel rispetto della dignità del lavoro.
Crediamo infatti che solo riconoscendo le professionalità di chi vi opera sia possibile valorizzare il nostro patrimonio e garantire una buona qualità dei servizi erogati all’utenza, un’utenza peraltro sempre più insoddisfatta.
Non si comprende dunque come si possa porre rimedio alle carenze di personale con il volontariato retribuito e non retribuito, con l’utilizzo del servizio civile (altra forma di volontariato) o con l’assunzione di un numero irrisorio di addetti.
A nulla sono serviti i nostri tentativi di dialogo con il direttore della Biblioteca e con il Ministero.
Siamo convinti che ogni battaglia per il riconoscimento dei diritti connessi al lavoro si possa vincere solo se si marcia uniti, facendo rete, costruendo una comunicazione continua tra le realtà presenti sul territorio, tra studenti (i lavoratori del futuro), volontari (che con fatica provano ad arricchire di competenze il proprio curriculum in vista di un contratto) e lavoratori sfruttati e non inquadrati sulla base delle abilità acquisite.
Facciamo parte di una generazione molto bistrattata e dunque scoraggiata. Stiamo invecchiando con prospettive lavorative che rischiano di trasformarsi in illusioni, la realizzazione professionale è ormai un miraggio, considerando che la realtà in cui viviamo ci costringe irrimediabilmente ad abbassare le nostre giuste aspettative, e le politiche neoliberiste degli ultimi vent’anni hanno progressivamente sgretolato quei diritti che ci avrebbero garantito certezze per l’avvenire.
Le chiediamo di incontrarci, di raccontarci, di confrontarci per comprendere meglio quali siano gli obiettivi che possano unirci, nel breve e lungo termine, e spingerci a una mobilitazione comune. Le battaglie si vincono e si perdono. Ciò che può fare sempre la differenza è la coscienza di aver agito per costruire un futuro migliore per noi e i nostri figli, restituendo parola a chi si sente “invisibile” come noi, come molti in Italia».

Ecco l’unico modo possibile per “festeggiare” il primo maggio: prendersi il tempo per ascoltare e meditare la voce di chi non ha voce. La voce di chi lotta: di chi spera di poter vivere, un giorno, del lavoro che già sta facendo.

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