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Giovanni Losavio
Il primato della tutela
21 Ottobre 2008
Beni culturali
L’importante relazione del Presidente nazionale al Congresso annuale di Italia nostra delinea un sistema della tutela ormai inadeguato e fortemente compromesso. Mantova, 19 ottobre 2008 (m.p.g.)

Nell’anno in cui si celebrano i sessant’anni della Costituzione (con l’innovativo articolo 9) e ha preso forma definitiva (conclusa la seconda revisione) il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Italia Nostra dedica il proprio congresso nazionale a “Il primato della tutela”, per avviare (non certo per esaurire) una necessaria verifica: se e come, da un lato, quel principio fondamentale abbia trovato adeguata attuazione nella produzione legislativa ordinaria (il “Codice” innanzitutto e le altre norme che hanno definito le competenze e regolato l’esercizio della funzione di tutela); e, dall’altro, se nella prassi quel primato (sancito dalla Costituzione e sempre ribadito dalla Corte Costituzionale) sia stato fatto valere e sia osservato nei rapporti con l’esercizio di diverse attribuzioni pubbliche e nel confronto con altri interessi ai quali pur si riconosca pubblica rilevanza.

Perché il nostro congresso a Mantova. Prendemmo l’impegno oltre un anno fa quando la giunta di Italia Nostra si convocò in questa città per esprimere il suo sostegno alla Amministrazione comunale e alla Sindaco che avevano con determinazione preso atto di un errore urbanistico del recente passato e avvertivano il dovere di porvi rimedio. Un nuovo insediamento residenziale avrebbe infatti irrimediabilmente alterato il mirabile paesaggio storico che con la corona dei laghi costituisce l’intorno del nucleo monumentale urbano, fissato per sempre dalla rappresentazione mantegnesca. Fu Italia Nostra a suggerire la tutela della prospettiva anche oltre la riva del lago, da e verso l’emergenza monumentale del Castello di San Giorgio e del Palazzo ducale, ma il vincolo così disposto è stato contestato e la controversia ancora non è risolta. Per confermare le ragioni che impongono la salvaguardia dello storico paesaggio di Mantova (il sistema dei laghi che contornano la città secondo un complesso assetto idraulico merita in ogni caso il riconoscimento di bene culturale in sé e perciò una diretta tutela) Italia Nostra ha voluto qui il suo congresso nazionale.

Non vuole essere il consueto rituale omaggio, talvolta di maniera, all’articolo 9, ma il tentativo di approfondirne il significato nel complessivo disegno costituzionale dei compiti della Repubblica e di ricavare le implicazioni della posizione di assoluto rilievo che fa della tutela di patrimonio e paesaggio principio fondamentale. Dunque la Repubblica si fonda sulla tutela, perché patrimonio e paesaggio sono espressione della identità nazionale e motivano nel profondo le ragioni della unità della nazione, in essi ci riconosciamo partecipi di una comune cultura, della medesima cittadinanza. A una funzione così concepita come essenziale e primaria fu adeguata la costituzione di un apposito ministero, politicamente responsabile, quale lo volle Spadolini nel 1975 (creato addirittura per decreto-legge e l’urgenza potè dirsi giustificata dal grave ritardo). Come è noto Italia Nostra non aveva condiviso le conclusioni della Commissione Franceschini per una amministrazione autonoma che avrebbe pagato la riconosciuta autonomia degli speciali modi della tutela (cui non si addicono i modelli burocratici), con un destino di separazione se non di emarginazione, di esclusione in ogni caso dalle scelte di riforma economico-sociale. Un ministro, allora, che ha titolo per partecipare alla responsabilità di governo, che siede al tavolo della programmazione con il Cipe, se la tutela così ampiamente intesa, diretta alla promozione della cultura, non solo si esprime nelle istituzioni tradizionalmente deputate secondo le due leggi fondamentali del 1939 (oggi infine unificate nel Codice comprese le disposizioni della legge Galasso del 1985, prima legge di attuazione della Costituzione), ma è tensione di ogni scelta di indirizzo nel governo del paese e perfino di ogni determinazione di gestione degli interessi pubblici. La tutela insomma non come limite operante dall’esterno ma come istanza presente in ogni scelta destinata ad incidere sulla vita dei cittadini. (In una famosa circolare oggi in desuetudine Spadolini affermò la necessaria concorrente competenza degli uffici della tutela in ordine alla progettazione di ogni opera pubblica, fosse attuata dallo Stato o dal più piccolo dei comuni). Che poi di questo ruolo così penetrante della tutela siano stati consapevoli (e l’abbiano in concreto saputo rivendicare) i titolari che succedettero a Spadolini è legittimo dubitare e per molti anni (forse meno per i più recenti) quel ministero fu considerato, nelle logiche di composizione dei governi, di rilievo politico minore se non addirittura trascurabile.

In ragione della sua specialissima materia il ministero era stato voluto dunque e concepito secondo un modello originale e innovativo, fondato sulle competenze tecnico-scientifiche, libero dall’appesantimento di rigide strutture burocratiche, garantito nella autonomia di ogni sua determinazione. L’esercizio di una funzione cui la Costituzione assegna quel ruolo essenziale e primario esige la dotazione di adeguate risorse in mezzi e competenze, dovendo intendersi gli eventuali apporti privati come integrativi, mai sostitutivi dell’autosufficiente sostegno finanziario pubblico. A questo modello organizzativo della funzione - aderente al progetto costituzionale – è agevole constatare quanto sia lontana la effettiva condizione delle istituzioni di tutela, mortificate non solo dalla assegnazione di risorse inadeguate e in progressiva drammatica contrazione, ma strette dentro un regolamento (quello di recente approvato) che esaspera i profili burocratici e l’ordinamento gerarchico, attivando in pratica una mobilità parossistica nella assegnazione dei ruoli direttivi, non pochi dei quali rimangono tuttavia scoperti, mentre continua ad essere eluso il problema del ricambio, attraverso regolari concorsi, del corpo dei tecnici che costituisce un patrimonio di elevate competenze a rischio di inaridirsi. Sicché c’è chi non senza ragione intravede una linea di progressiva consapevole se non intenzionale liquidazione delle istituzioni di tutela.

La imputazione alla Repubblica è la conferma che una tutela così intesa e pervasiva impegna non solo lo Stato, ma tutti i soggetti dell’ordinamento secondo le rispettive differenziate attribuzioni. E al riguardo, come è ben noto, fin dalla prima attuazione dell’ordinamento regionale si è aperta una contesa talvolta perfino aspra tra stato e regioni per la definizione dei rispettivi compiti in tema di tutela per le riconosciute connessioni, innanzitutto, della disciplina del paesaggio con il governo del territorio, l’urbanistica, che è competenza primaria delle regioni. La riforma del titolo V della Costituzione, approvata frettolosamente in articulo mortis di quella legislatura, ha inteso risolvere quella contesa con l’artificiosa rottura della inscindibile endiadi tutela e valorizzazione (essendo la valorizzazione funzione interna alla tutela, la sua stessa finalità) per fondare su quella discriminazione il criterio di definizione delle rispettive attribuzioni e ha così riservato allo Stato la legislazione sulla “tutela” e la sola determinazione dei principi fondamentali della “valorizzazione”, che ha rimesso per altro alla concorrente legislazione e alla esclusiva potestà regolamentare delle regioni. Con insuperabili complicazioni, come subito si avvertì quando le regioni intesero esercitare la potestà regolamentare in tema di gestione, dunque di valorizzazione, dei beni culturali appartenenti allo Stato e la Corte costituzionale dovette risolvere con qualche difficoltà il conflitto a favore della potestà regolamentare mantenuta, in quei limiti, allo stato.

Non si dubita per altro che le funzioni di amministrazione attiva della tutela obbediscano all’esigenza dell’esercizio unitario e della adeguatezza tecnica degli organi che la esercitano (come vuole l’articolo 118 della Costituzione), perché paesaggio e patrimonio sono valori rigorosamente unitari e imputati alla collettività nazionale e implicano necessariamente la responsabilità di quel livello dell’ordinamento che è rappresentativo della istanza unitaria nazionale, dunque il ministero peri beni e le attività culturali con la trama territoriale delle sue soprintendenze. Conclusione questa che non contraddice il principio della diffusa responsabilità della tutela (la Repubblica, in ogni sua istanza istituzionale secondo l’art. 9), ma riflette la esigenza che essa sia esercitata nel nome della collettività nazionale. Regione, Province e Comuni non hanno la disponibilità di patrimonio e paesaggio che pur amministrano in funzione di tutela e valorizzazione e nella ipotesi di contrasto negli apprezzamenti di merito debbono prevalere le istanze rappresentative della dimensione nazionale, quindi le istituzioni dello Stato. E’ per questa ragione che il cedimento del ministro, allora Rutelli, alla rivendicazione delle Regioni, che ha comportato l’affermazione dell’efficacia non vincolante del parere del soprintendente in tema di autorizzazione paesaggistica, contrasta con il principio costituzionale dell’esercizio unitario delle funzioni di tutela.

L’attuazione del così detto federalismo fiscale (le misure che assicurano autonomia finanziaria a Regioni, città metropolitane, province e comuni per l’esercizio delle rispettive attribuzioni), oggetto del disegno di legge di recente definitivamente approvato dal consiglio dei ministri, non sembra che possa interessare l’ambito della tutela, se non per l’ulteriore prosciugamento delle disponibilità del bilancio dello Stato che indirettamente si riflette su quello specifico del ministero dei beni culturali (è caduto, infatti, come tra un momento vedremo, quel misterioso emendamento all’articolo dello stesso disegno di legge che detta l’ordinamento di Roma capitale).

Ma la materia della tutela è compresa tra quelle per le quali anche le singole Regioni a statuto ordinario possono chiedere (e ottenere con legge dello Stato approvata da maggioranze qualificate) “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” (è una innovazione introdotta con leggerezza nella riforma del titolo V), e già nella trascorsa legislatura si era attivato per l’attuazione di questa previsione un ampio fronte guidato dalla Regione Lombardia, fronteggiato, si deve riconoscere, con fermezza dal ministro Rutelli. Nei nuovi indirizzi di Parlamento e Governo è fondata previsione che quel movimento troverà più ampio riconoscimento. Ma un limite deve rimanere insuperabile. Il terzo comma dell’art. 116 (quello appunto che intende avviare un processo di così detto federalismo differenziato) non ha certo la forza di contraddire il principio fondamentale dell’articolo 9 e non potrà risultarne in alcun modo compromessa la dimensione unitaria della gestione dei valori di patrimonio e paesaggio, né potrà perciò derivarne l’indebolimento delle strutture che lo Stato, costituendo un apposito ministero, ha doverosamente approntato per adempiere a una funzione essenziale della Repubblica e che, inadeguate per dotazione di risorse a quel compito, debbono essere al contrario rafforzate, condizione essenziale per il primato della tutela.

Nella nuova formulazione del “Codice”sono state recuperate alle istituzioni della tutela – le soprintendenze – più incisive e dirette attribuzioni in tema di pianificazione urbanistica. La redazione dei piani paesaggistici e l’adeguamento di quelli che le Regioni si siano dati debbono essere infatti espressione della necessaria intesa tra Stato e Regioni. Copianificazione si dice. Ma le condizioni in cui versano le soprintendenze per i beni architettonici e per il paesaggio ne assicurano il paritario adeguato contributo? Le intese fino ad oggi siglate tra ministero e regioni sembrano infatti rimettere anche la disciplina del paesaggio agli strumenti propri della pianificazione urbanistica e, innanzitutto, al piano territoriale regionale al quale tutte le leggi urbanistiche regionali non attribuiscono la proprietà di dettare disposizioni immediatamente prescrittive, ma danno il compito di fissare gli indirizzi alla pianificazione sottoordinata di province e comuni. Sicché il piano paesaggistico risulterà infine dall’insieme, dal mosaico, dei piani comunali. Ma è un esito che contrasta con il modello del “Codice” che vuole uno strumento speciale, unitario e autonomo. Immediatamente prescrittivi sulle specifiche situazioni dei luoghi, necessariamente prevalente sulla generale pianificazione urbanistica. Lo ha più volte ripetuto la Corte Costituzionale, l’Urbanistica ancilla della tutela paesaggistica, piegata a realizzarla, tenuta cioè ad osservarne il primato.

Ricorderemo che la rivendicazione di nuove forme di autonomia nella tutela del paesaggio è da talune regioni fondata su una testuale (francamente, e non la sola, infelice) espressione della Convenzione europea del paesaggio (2000, ratificata dall’Italia nel 2005), secondo la quale “paesaggio” “designa una determinata parte del territorio come è percepita dalle popolazioni”. Espressione come ben si intende evasiva, perché non solo affida la identificazione dei valori del paesaggio ad apprezzamenti soggettivi, pur se collettivi, ma perché non dice e non può dire come si esprima quella percezione, quale soggetto sia legittimato ad interpretarla e quale sia il criterio di collegamento tra ambiti territoriali e popolazioni. Ebbene “le popolazioni” della convenzione dovrebbero intendersi quelle locali e da quella espressione si vorrebbe perciò ricavare l’impegno assunto dal nostro paese con la ratifica della convenzione a riconoscere l’attribuzione esclusiva dei compiti di identificazione e tutela del paesaggio ai Comuni come rappresentativi appunto delle popolazioni locali, quelle insediate nell’immediato intorno della “determinata parte del territorio”. L’argomento, come è facile intendere, è debolissimo ed è testualmente contraddetto dalla stessa convenzione (l’art. 4) la cui esecuzione si adegua alla ripartizione delle competenze secondo l’ordinamento di ogni stato e in conformità ai suoi principi costituzionali, con esplicito riconoscimento del ruolo nazionale.

Una rapida osservazione sull’emendamento al disegno di legge governativo in tema di federalismo fiscale che fonti non ufficiali ma accreditate davano approvato per conferire al comune di Roma e al costituendo ente di Roma capitale potestà esclusiva nella materia della tutela di patrimonio e paesaggio. Una amputazione colossale, è facile intendere, dell’unitario patrimonio culturale della nazione. Non è invece così e il sindaco di Roma, che lo aveva annunciato, era stato male informato. Ma l’equivoco (con le reazioni risentite subito suscitate) non deve essere stato consumato invano. La unitarietà di patrimonio e paesaggio della nazione esige, varrà ripeterlo ancora in questa occasione, unità di esercizio della tutela ed esclusivamente con leggi costituzionali (che vorremmo rimettere in discussione) sono state introdotte le sole eccezioni degli statuti “speciali” di Sicilia, Val d’Aosta, province autonome di Trento e Bolzano).

Dunque, si è detto e ripetuto, tutela come funzione essenziale della Repubblica, paesaggio e patrimonio come valori assoluti e prioritari che non tollerano di entrare in bilanciamento con altri interessi anche di rilievo pubblico sui quali debbono quindi sempre prevalere. Il primato appunto della tutela. Nel disegno costituzionale la tutela è presidiata da una straordinaria forza, della quale non sembrano sempre consapevoli non solo le soprintendenze ma perfino i comitati tecnico-scientifici, la massima istanza consultiva del ministero. Come nel caso dell’assurdo parcheggio sotterraneo che lambisce le fondazioni della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, giudicato incompatibile dal bravo soprintendente, ma infine licenziato sul parere del comitato tecnico scientifico che ha ritenuto di non potere resistere alla scelta politica e si è limitato a suggerire esornative mitigazioni. E anche il parcheggio nel cuore del Pincio era stato licenziato dal direttore regionale perché avrebbe migliorato la qualità urbana delle strade circostanti liberate dall’ingombro delle autovetture in sosta e dunque sopportabile il sacrificio degli strati millenari di fondazione della città sotto quell’assetto monumentale. E delle ragioni della tutela si sono invece investiti sindaco e ministro, negando lo sventramento del colle. Aprendosi così il delicato problema dei poteri del ministro in ordine ad uno specifico tema di tutela rispetto alla determinazione del competente organo tecnico-scientifico, intervento nella specie virtuoso, come per la tramvia che sfiora a Firenze Battistero e Santa Maria del Fiore, inconcepibile a giudizio del ministro (e per ragioni di ovvia coerenza per il parcheggio del Sant’Ambrogio a Milano e per il massiccio filobus, il Civis, nella Bologna medievale). Ma pure legittimo quando impone al dissenziente direttore del museo (è il caso dell’Annunciazione leonardesca promotrice e Tokyo del made in Italy) il prestito a una esposizione all’estero di un’opera dal direttore giudicata inamovibile?

La eccezione culturale è in linea di principio insuperabile e ha la forza di imporsi non solo sull’improprio insediamento residenziale sotto le mura di Monticchiello (e vi ha rinunciato), ma pure su altavelocità, autostrade, metropolitane, ponte sullo Stretto, eccetera; e pure quando il no del soprintendente e del direttore regionale nella sede della conferenza dei servizi rimane fermo e la questione sia stata rimessa al governo, neppure qui la politica può far legittimamente valere le sue prevalenti ragioni, perché anche il Consiglio dei ministri è chiamato a dare un apprezzamento di merito interno alle esigenze di tutela, che è tenuto a rispettare per precetto costituzionale. E’quanto non è invece avvenuto per il tracciato della autostrada Rovigo – Vicenza - Trento che sconvolge il paesaggio palladiano ed era stato fermissimamente contrastato da tutti i soprintendenti, ma il Consiglio dei ministri ha infine imposto con le superiori ragioni delle comunicazioni e dei trasporti. E il Consiglio di Stato non ha visto ragioni di censura. Perché non ha avvertito che il precetto della tutela dei beni culturali è rivolto anche al giudice (amministrativo e ordinario) che ben può, e anzi deve, direttamente applicare l’articolo 9, in ogni caso come criterio interpretativo della norma ordinaria. (Italia Nostra si propone di invitare a convegno magistrati ordinari e amministrativi per discutere con loro di “tutela e giurisdizione”). E se è vero in linea generale che le determinazioni politiche del governo trovano in se stesse, come espressione appunto della potestà politica, la ragion d’essere e dunque sono sottratte al dovere della motivazione che è requisito di legittimità dell’atto amministrativo, quando si tratti invece del destino del patrimonio culturale della nazione neppure il governo è sciolto dal precetto della tutela e deve dar conto di averlo osservato. L’amico Gianluigi Ceruti, alla cui competenza e generosità Italia Nostra affida la difesa nelle più impegnative controversie davanti al giudice amministrativo, constata con amarezza che l’aspettativa di tutela giurisdizionale dei valori di patrimonio, paesaggio e territorio è assai spesso delusa. E non è infrequente la decisione che pretende dal provvedimento di tutela (come requisito della sua legittimità) il bilanciamento tra l’esigenza di salvaguardia del bene culturale e l’interesse privato o pubblico che dalla tutela risulterebbe anche soltanto in parte sacrificato. Un giudice dunque non ancora consapevole del primato della tutela?

Certamente in contrasto con il principio di assolutezza della tutela è la norma del Codice dei beni culturali (art. 21), ereditata dalla legge del 1939, che rimette alla superiore decisione del ministero, dunque in sede di valutazione politica, “la demolizione delle cose costituenti beni culturali”, e questa competenza è stata invocata ed esercitata anche di recente per consentire alla metropolitana di Roma di travolgere lo strato archeologico con la prevista stazione di Piazza Venezia e alla metropolitana di Brescia di portar via le profonde fondazioni di una torre medievale.

Dall’articolo 9 discende la necessità per tutte la istituzioni della Repubblica di dotarsi di adeguate competenze tecnico - scientifiche e strutture organizzative per assicurare in proprio l’esercizio delle funzioni di tutela, certamente impegnate al più alto livello di responsabilità nella gestione dei musei pubblici che sono centrali, se così si può dire, nella strategia del “patrimonio”. L’aver artificiosamente sottratto la valorizzazione alla tutela apre la via alla privatizzazione di attività che sono invece espressione diretta della funzione di tutela, come appunto la gestione dei musei, che espressamente il Codice dei beni culturali e del paesaggio considera attività di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica. Italia Nostra ha criticato con severità la formulazione dell’articolo 115 come è risultata dalla prima revisione, quella del 2006, e così è rimasta definitivamente. Gli enti cui i musei appartengono sono sciolti dall’imperativo di costituire in proprio “strutture organizzative interne alle amministrazioni, dotate di adeguata autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e provviste di idoneo personale tecnico”, perché “al fine di assicurare un miglior livello di valorizzazione dei beni culturali” ben possono ricorrere alla gestione indiretta e cioè per concessione a “terzi”, e la scelta tra gestione diretta e indiretta “è attuata mediante valutazione comparativa in termini di sostenibilità economico-finanziaria e di efficacia”. Insomma si esprime così una netta preferenza per soluzioni esterne: la rinuncia, inammissibile in linea di principio, ad assumere in proprio la responsabilità della gestione culturale (non più soltanto dei servizi aggiuntivi) del più prezioso, complesso, impegnativo bene culturale, le cui raccolte appartengono al demanio pubblico, perché “il miglior livello di valorizzazione” è raggiunto per concessione a “terzi”. Come se poi, prive di adeguate strutture tecnico-scientifiche interne, le amministrazioni proprietarie siano capaci di guidare e controllare la esecuzione del contratto di servizio che regola i rapporti con il concessionario. Una deriva verso la dismissione di una funzione essenziale, una grave offesa al primato della tutela. Non conforta la constatazione che in pratica la gestione di un museo ben difficilmente può essere remunerativa e non pare che vi sia convenienza economica al concorso di privati concessionari . Preoccupa invece che il contratto di servizio, nella ricerca di efficaci incentivi per il terzo concessionario, sacrifichi alla sostenibilità economico-finanziaria le finalità di ricerca e promozione culturale che animano il museo.

Né abbiamo dubbi che il primato della tutela non consenta le annunciate operazioni di vera e propria messa sul mercato dei nostri patrimoni museali, ai quali si riconosce un potenziale valore locativo da spendere presso i provvedutissimi musei di oltre oceano o con quelli costituendi fondati in Medioriente sul petrodollaro. Il modello, dichiaratamente, è quello oggetto della convenzione siglata dal Louvre con il governo di Abu Dhabi per un fantasmagorico museo dell’Emirato, progetto giudicato in Francia “dissennato” da Jean Clair, il direttore del Museo Picasso, che fu per oltre dieci anni conservateur general du patrimoin. Chiediamo al Ministro di richiamare i suoi consulenti dalle visite di promozione commerciale negli Stati Uniti, che troppo li avvicinano a piazzisti. E’ la mercificazione del bene culturale pubblico, non più fine, ridotto a mezzo di produzione di utilità economica (e non importa se per essere spesa a beneficio del museo). E neppure si è riflettuto che il “Codice” pone un alt insuperabile a simili operazioni con l’art. 67, che ammette, sì, l’uscita temporanea in attuazione di accordi culturali con istituzioni museali straniere e per la durata che non può essere superiore a quattro anni, ma soltanto in regime di reciprocità, con esclusivo fine di scambio, per ottenere cioè un analogo prestito che reintegri la raccolta secondo un ragionato progetto culturale e compensi la temporanea assenza. Non certo come manovra che valga a supplire le carenze degli ordinari e dovuti finanziamenti istituzionali.

Né crediamo che questa manovra possa essere programmata e governata in sede centrale, perché ogni singola iniziativa deve essere invece espressione di accordi culturali promossi dalla direzione scientifica del museo interessato e perché la realtà dei nostri musei, già lo osservammo in altra sede, è ribelle ad assetti organizzativi unitari che facciano gerarchicamente capo a una appositamente costituita direzione generale del ministero

Per concludere. Un primato difficile. Non generalmente riconosciuto. Insidiato. Perfino apertamente contestato. Credo che si possa parlare di un allarmante fenomeno di inadempimento costituzionale.

Quale il compito di Italia Nostra. La tutela ha bisogno di un forte sostegno nazionalpopolare, lo diceva Giorgio Bassani, proprio in senso gramsciano sottolineava lui, crociano di convinta osservanza, e proponeva all’associazione il compito di suscitare la partecipazione democratica alla responsabilità della tutela, di farsi strumento di questa diffusa coscienza. E’ un compito che credo l’associazione abbia saputo sia pure con difficoltà perseguire, anche se questo impegno non si è tradotto in un corrispondente sviluppo quantitativo della sua compagine sociale, ma diffusa e radicata in ogni parte del paese. Risultati non irrilevanti possiamo registrare, e anche nel vasto movimento dei comitati. Ed è compito ancora attuale che trova un recente riconoscimento nella esplicita apertura della riforma del titolo V della Costituzione (ma che stava già in nuce nell’articolo 3), come sussidiarietà orizzontale, diretto coinvolgimento, e dunque responsabilità, di cittadini e loro libere associazioni nella stessa gestione attiva degli interessi pubblici.

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