L’oggetto del desiderio della nuova demagogia
di Nadia Urbinati
La concezione liberale lo vede non come una massa uniforme che applaude un uomo ma come un insieme di individui e cittadini. E´ nell´Ottocento che gli viene attribuita in quanto volontà collettiva la fonte della legittimità dei governi e anche la sovranità politica
"Il popolo" è tra le categorie politiche quella forse più ambigua e più abusata, al punto di essere ora adottata addirittura per designare un partito, come se "la parte" e "il tutto" si identificassero; anzi, come se "la parte" si proponesse identica al tutto. L’origine del termine "popolo" è latina e nella tradizione romana repubblicana aveva un significato di opposizione/distinzione rispetto a una parte di popolazione che non era popolo: l’aristocrazia o il patriziato. Per questa sua connotazione non socialmente unitaria, dovendo decidere la denominazione della nuova assemblea convocata all’indomani della presa della Bastiglia, nel 1789, i costituenti francesi preferirono l’aggettivo "nazionale" a "popolare".
L’incorporazione del "popolo" nella concezione moderna della sovranità statuale e poi la sua identificazione con la nazione vennero perfezionate nel corso dell’Ottocento. Nel 1835 Giuseppe Mazzini lo definì "l’unica forza rivoluzionaria" esistente anche se "mai scesa nell’arena" politica, fino ad allora il luogo esclusivo della "casta" aristocratica e militare. Popolo venne a identificarsi con volontà collettiva e quindi con la sorgente del consenso fondamentale senza il quale nessun governo poteva dirsi legittimo.
Ma è proprio nella natura singolare del nome che sta il problema. Nelle principali lingue europee ad eccezione della lingua inglese, i termini Popolo, Peuple, Volk designano un’entità organica, un tutto unico la cui volontà è una ed è legge. Lo stesso Jean-Jacques Rossueau, al quale ingiustamente è stata attribuita la paternità teorica della democrazia totalitaria, aveva anticipato i rischi di plebiscitarismo quando, descrivendo l’assemblea popolare come unico legittimo sovrano, aveva precisato con molto acume che i cittadini vi si recano individualmente, e poi, una volta riuniti in assemblea, danno il loro voto in silenzio, ragionando ciascuno con la propria testa e senza consentire a nessun oratore di manipolare i loro consenso.
Le adunate oceaniche di memoria fascista e nazista sono state una negazione della volontà popolare democratica alla quale pensava Rousseau e che è così ben definita nella nostra costituzione. Quelle adunate di popolo, che ricalcavano il modello dell’antica Sparta dove le assemblee si concludevano urlando il "sì" o il "no" alla proposta del consiglio, non erano per nulla un segno di democrazia. In Atene, alla quale dobbiamo la nostra visione della democrazia, i cittadini si recavano all’assemblea e votavano individualmente, con voto segreto, e infine contavano i voti uno per uno, non fidandosi dell’impressione acustica provocata dall’urlo come a Sparta. Il modo di raccogliere il consenso e la procedura di computa dei voti sono stati da allora i due caratteri cruciali che hanno dato democraticità alla categoria ambigua di popolo; che hanno anzi consentito di togliere l’ambiguità ed evitare l’abuso. È chiaro infatti che se il termine "popolo" è singolare, sono le regole che si premuniscono di renderlo plurale. Il popolo dei populisti, quello per intenderci della concezione fascista e plebiscitaria, non è lo stesso del popolo democratico: ne è anzi la sua degenerazione e negazione. È ancora a un autore classico che ci si deve affidare per comprendere questa distinzione cruciale.
Nella Politica Aristotele distingue tra varie forme di democrazia, procedendo da quella meno pessima o sufficientemente buona a quella assolutamente pessima: la migliore è quella nella quale le funzioni del popolo di votare in assemblea sono affiancate da quelle di magistrati eletti; la peggiore è quella demagogica, un’unità nella quale la voce del demagogo diventa la voce del popolo e il pluralismo delle idee si assottiglia pericolosamente. Nel Novecento, Carl Schmitt ha dato voce a questa visione di democrazia plebiscitaria o cesaristica integrandola con una critica radicale del Parlamento: perché perdere tempo a discutere se ci si può valere di un leader che sa quel che il popolo vuole visto che la sua volontà è una sola con quella del suo popolo?
Il termine popolo acquista dunque un significato meno ambiguo e soprattutto liberale quando è associato non a una massa uniforme che parla con una voce e si identifica con un uomo o un partito, ma invece all’insieme degli individui-cittadini che fanno una nazione. Individui singoli perché il consenso non è una voce collettiva nella quale le voci individuali scompaiono, ma un processo che tutti contribuiscono a formare. Il pluralismo è il carattere che fa del popolo un popolo democratico; anche perché il voto è l’esito di una selezione tra diverse proposte o idee che devono potersi esprime pubblicamente per poter essere valutate e scelte.
Vox populi vox dei ha un senso non sinistro solo a una condizione: che la democrazia abbia regole e diritti non alterabili dalla maggioranza grazie ai quali i cittadini possono liberamente partecipare al processo di definizione e interpretazione di quella "voce". Ma se la "vox dei" abita un luogo definito e unico � sia esso un partito o un potere dello stato o un uomo � se acquista un significato unico, allora è la voce non più del popolo ma di una sua parte che si è sostituita ad esso. Concludendo in sintonia con questa analogia religiosa, vale ricordare che l’unanimità e la concordia ecclestastica finirono quando il pluralismo interpretativo del cristianesimo si affermò. La democrazia costituzionale può essere a ragione considerata una forma di protestantesimo politico.
La fine delle classi
di Michele Serra
Le vecchie e assurde figure che si trovavano nei sussidiari della nostra infanzia: il solerte mugnaio, l´astuto contadino l´operoso artigiano, il valoroso soldato
Claudio Villa era molto popolare, uno del popolo anche lui, per modi e gusti: impeccabile interprete della tradizione, voce di strada, voce di cortile. Ma ancora più popolari furono i Beatles, popolari in senso planetario e trans-epocale (li ascoltano anche adesso milioni di teen-agers): innovatori geniali, capofila della più grande rivoluzione nella cultura popolare del Novecento. Il popolo è conservatore o progressista?
È popolare, ovviamente, la televisione, ma siamo appena sortiti, qui in Italia, da una accesa discussione sulla popolarità travolgente di Roberto Saviano, in opposizione alla popolarità altrettanto cospicua dei reality-show: e dunque, questo benedetto popolo, preferisce ricordare o dimenticare, impegnarsi o fregarsene, stare in piedi come Saviano o sdraiato come gli stravaccati cronici del Grande Fratello? (Parentesi: popolarissima è anche la radio, con il vantaggio che quasi nessuno se ne è accorto. Se proprio si deve essere popolari, meglio esserlo clandestinamente).
Popolari furono molte rivoluzioni (non tutte), popolari le restaurazioni (quasi tutte). Il popolo è il composto e commovente incedere di Pellizza da Volpedo, ma è anche la sbracata canea delle curve di stadio.
Potremmo continuare all’infinito, giocando sull’ambiguità oramai conclamata del concetto di popolo e di popolare. Gli inglesi se la cavano meglio, usano la parola "people" che è più o meno sinonimo di "gente", possiede già una moderna indeterminatezza, interclassista e neutra, buona per tutti gli usi, meno per gli abusi: perché in nome della gente è meno facile farsi venire le strane idee germinate "in nome del popolo". A noi italiani, invece, impiccia ancora parecchio la storia di questa parola, specie la sua storia politica, il popolo in lotta, le masse popolari, la saggezza del popolo italiano (Berlinguer), el pueblo unido, l’unità popolare (la Banca popolare arriva a ridosso di queste irrequietudini minacciose, e le riconduce sapientemente ai suoi sportelli), le contraddizioni in seno al popolo, il popolo comunista (e per gemmazione quello democristiano, quello socialista, perfino quelli juventino e interista)
Ce n’è abbastanza per capire, specialmente adesso che un miliardario autocrate ha chiamato il suo partito "Popolo della libertà", e per giunta lo ha fatto a furor di popolo, che la parola è vuota come un sacco vuoto. Che indica una quantità e non una qualità, pur possedendone di infinite e di opposte.
È dunque una parola infida e malfunzionante, buona per ogni virtuosa innovazione come per ogni losco calcolo, e sarebbe meglio, molto meglio, arrendersi alla sua fine e imparare a farne a meno.
Forse è solo un caso (magari addirittura un caso clinico) ma la parola "popolo" a me fa venire in mente, per istinto, soprattutto alcune vecchie e assurde figurette del sussidiario delle elementari: il solerte mugnaio, l’astuto contadino, l’operoso artigiano, il valoroso soldato. Un presepe melenso e ruffiano, che suonava insensato già allora e già lì, in quella scuoletta faticosamente post-fascista.
Lo sfarinarsi delle classi sociali, il disfarsi degli alfabeti ideologici almeno qualche vantaggio dovrà pure averlo: per esempio rassegnarsi alla morte di alcuni concetti e di alcune parole, e costringersi a trovarne di nuovi e di adeguati. Ne rimpiangiamo parecchie, di parole, non questa, troppo abusata in passato e nominata quasi sempre abusivamente nel presente. Ci dispiace per Pellizza da Volpedo, meno per altri autori.
Cosa resta del populismo in letteratura
di Alberto Asor Rosa
Di questa massa informe emergono qua e là visioni frammentarie come su una spiaggia marina dopo una tempesta
C’era una volta il populismo. E noi lo combattevamo. A ragione: perché, letterariamente, ci appariva un’espressione arretrata, subalterna e nostalgica rispetto ai grandi filoni decadenti italiani ed europei dell’Otto e Novecento; perché, ideologicamente, rappresentava una visione edulcorata e compromissoria della lotta di classe, la quale invece, quella sì, avrebbe rimesso le cose al loro posto nel nostro paese e nel mondo. E però: Conversazione in Sicilia, Cristo si è fermato a Eboli, Cronache di poveri amanti, persino Speranzella e Quel che vide Cummeo, fino a Ilcapofabbrica e Il taglio del bosco, fino a, apogeo e crisi del neorealismo, Ragazzi di vita e Una vita violenta... Mica male, per un movimento retrogrado e sbagliato.
Qualcuno disse un giorno: non moriremo democristiani. Mai in Italia azzardare previsioni ottimistiche. Quel che abbiamo vissuto poi è un’esperienza diversa da come ce l’eravamo immaginata. Pensavamo classe operaia e popolo nozioni e pratiche politiche nettamente contrapposte, e inconciliabili. Abbiamo scoperto, a spese nostre, ma, quel che più conta, a spese del paese, che il tramonto della classe operaia, – tramonto politico e ideale, beninteso, non sociologico, ché di classe operaia ovviamente ce n’è ancora tanta, in Italia e in Europa, solo che sembriamo accorgercene solo quando si verifica una tragedia in fabbrica o si scopre che vota Lega, – avrebbe trascinato con sé il tramonto e la crisi del "popolo", nozione più evanescente e ondivaga di quella di "classe", e che ha bisogno d’un nocciolo duro per costituirsi e resistere, – per resistere, voglio dire, non solo politicamente ma anche culturalmente.
Di questo transito dalla consistenza al nulla qualcuno, acutissimo, persino s’accorse: Volponi, Memoriale (proletariato industriale) e La macchina mondiale (proletariato agricolo). Qualcun altro, invece (Balestrini, Vogliamo tutto), recependo entusiasticamente, com’era giusto, la spinta operaia in ascesa, invece di andare avanti, tornò, – e non era possibile altra scelta, – al populismo originario.
La situazione ora mi sembra questa: siccome viviamo da berlusconiani, non possiamo constatare che il dominio "demomediodittatoriale" del Nuovo Tipo di Capo poggia sulla definitiva messa in mora della classe operaia come classe politica generale e sulla neutralizzazione e frammentizzazione del popolo come categoria fondativa di ogni sistema democratico correttamente inteso: non più soggetti collettivi di qualsivoglia natura, ma una moltitudine di soggetti individuali che assurgono a politicità solo se si riferiscono al Capo motore immobile del sistema. Questo è il Popolo delle libertà, checché ne pensi, anche lui ottimisticamente, Gianfranco Fini.
Ora la domanda è: la letteratura ha bisogno dei miti? Se no, allora sta facendo il suo mestiere. Di questo popolo disperso e degradato, ridotto a massa informe (quella che a maggioranza vota il Capo), emergono qua e là visioni frammentarie, come su di una superficie marina che, dopo essere stata a lungo in tempesta, si spiana in una calma mortale: in Gomorra di Saviano; nelle periferie catatoniche e selvagge di Lodoli; sugli incerti margini della piccola borghesia in Un giorno perfetto di Mazzucco; in Io non ho paura di Ammaniti; nella Torino post-industriale di Culicchia; nella Napoli sempre più stremata di Da Silva. Il post-populismo è la moltitudine negriana (da Antonio Negri, intendo: Empire), ma tutto in negativo: l’implosione dell’esplosione, se si può dir così, cioè quel che resta di un sogno, quando noi (noi, proprio noi) l’abbiamo costretto ad autonegarsi a favore delle potenze infernali. Il resto è immaginario puro (tipo La solitudine dei numeri primi).