«Con zerte teste che ghe n’è in giro…». A dispetto dell’amara sottolineatura con cui accoglie l’ospite, a 85 anni di inossidabile età, Andrea Zanzotto, uno dei massimi poeti viventi, non è affatto disponibile ad arruolare pure la sua nello stuolo di teste che, in giro per il Bel Paese, sacrificano il paesaggio allo sviluppo. Perciò si è messo di traverso, deciso a salvare l’ultimo angolo verde della sua Pieve di Soligo, dove è nato e dove ha sempre voluto vivere.
Facendone un luogo-simbolo del Veneto stravolto da un’edilizia onnivora, così come sta combattendo in Toscana Alberto Asor Rosa a difesa di Monticchiello. «Mi spiacerebbe vedere il poeta trasformarsi o trasformato in un personaggio di Cervantes», tenta di ironizzare Glauco Zuan, segretario della sezione comunale della Lega; e viene da pensare quanto poco «zerte teste» capiscano di don Chisciotte, e meno ancora dei poeti.
Non sanno, «zerte teste», che il legame di Zanzotto con la terra è profondo e da sempre («se penso che il mio primo libro di versi, nel 1951, l’ho intitolato Dietro il paesaggio…»). E che dunque, oggi come mezzo secolo fa, non riesce ad accettare l’idea di voler costruire un palazzetto dello sport sull’ultimo fazzoletto di verde riuscito fin qui a resistere al cemento: «Io non ho niente contro lo sport, anche se non mi emoziona più come una volta, adesso che ha perso la sua innocenza; guardi cosa si fa in nome del "dio balòn"… Quello che contesto è che sia stato scelto l’ultimo pezzetto di verde ben visibile, lungo una strada che si chiama via Mira proprio per lo spettacolo che si vede dall’alto». E invita a salire, per rendersi conto, sulla collina di San Gallo che domina il quartiere del Piave: «Da lì si vede netta la macchia lebbrosa che si sta dilatando nella pianura».
Non è un’infezione locale: quella lebbra sta corrodendo nell’intera regione i paesaggi immortalati nelle quinte pittoriche di Giorgione, di Tintoretto, di Tiziano. «La marcia di autodistruzione del nostro favoloso mondo veneto ricco di arte e di memorie è arrivata ad alterare la consistenza stessa della terra che ci sta sotto i piedi», denuncia Zanzotto. E descrive lo spessore di questo legame che ha retto per secoli prima di venire eroso dalla logica illogica dello sviluppo a tutti i costi: «In noi c’era una riconoscenza diretta per la terra salvatrice, che non serviva solo a darci sostentamento ma aveva in sé anche i connotati di un rifugio; la sentivamo davvero come "mater tellus", verso di lei avevamo un attaccamento furibondo». Un rapporto quasi inscritto nel Dna della persona: «Ho sempre avuto una forte sensibilità per la natura; fin da bambino, se scappavo di casa dopo aver combinato qualche marachella, andavo a rifugiarmi in un boschetto». A non molta distanza da qui nello spazio, molto più distante nel tempo, monsignor Giovanni Della Casa aveva scelto proprio un bosco per scrivere il suo Galateo.
Era un sentimento condiviso: «Quel paesaggio della mia infanzia era ben coltivato, i contadini ci lavoravano lasciando intatto il fiorire della terra. Poi, un po’ alla volta, si è cominciato a sfruttarla il più possibile, e dagli anni Ottanta stiamo assistendo a un autentico degrado di fronte al quale non possiamo non indignarci: bisogna fermare lo scempio che vede ogni area verde rimasta come area da edificare. Una volta esistevano i campi di sterminio, oggi siamo allo sterminio dei campi».
Nessuna crociata di retroguardia per nostalgia di un piccolo mondo antico, assicura Zanzotto: «Il cambiamento è un moto necessario, ma bisogna vedere con che velocità, come e quando si muove». E invita a imparare dalla natura quale sia l’autentico modello di sviluppo: «Guardate le piante, ciascuna di esse ha il suo criterio per crescere, e a un certo punto si ferma. Oggi invece prevale una formula che sottintende che tutto ciò che accade dovrebbe comunque accadere. Ma così si va contro anche a quel senso estetico del costruire che era connaturato al Veneto di una volta, e che aveva creato le condizioni ideali per i grandi capolavori artistici di questa terra».
Il suo è un appello forte: «Salviamo un prato in ogni paese». E ha cominciato lui per primo, a difesa del verde residuo di Pieve di Soligo («il Palasport lo facciano, ma da un’altra parte»): con una passione così forte che lo stesso governatore del Veneto Giancarlo Galan si è schierato dalla sua parte. Basterà per far cambiare scelta al Comune? «Pararìa», risponde Zanzotto nella dolcezza del dialetto. Sembrerebbe… Il condizionale è di rigore, stando a quanto sostiene il sindaco Giustino Moro, a capo di una civica di centrodestra: «Quell’area è destinata a opere di interesse pubblico per il gioco e lo sport fin dal 1988. Certo, noi non pretendiamo di avere la verità in tasca: mi sono già impegnato pubblicamente perché il Palasport sia di maggior qualità nell’espressione architettonica e nel rapporto con il contesto ambientale». Ma è il posto a essere sbagliato, ribadisce Zanzotto; e a questo punto il pallino torna alla Regione: se vuole tradurre in pratica le parole del suo presidente, deve chiedere la revoca della variante urbanistica che ha sdoganato il progetto.
«Io continuo la mia battaglia per salvare quel piccolo pezzo di terreno, oltretutto di golena antica», assicura Zanzotto; e parla del fiume che ha dato il nome al suo paese, il Soligo, «che qui gira, serpeggia, più in giù scava veri e propri canyon». Lo fa con la stessa intatta passione, con l’identica fresca melodia che animava i suoi versi di un tempo: «Io ti distinguo, cuna delle mie genti», scriveva nel 1960 dei Colli Euganei, «i colli in cui si tacquero / le torbide età prime». «Cuna», la culla. «Bisogna capire che salvare il paesaggio della propria terra è salvarne l’anima e quella di chi l’abita», conclude.
Sulla via del ritorno, scendendo verso la Manhattan di capannoni del quartiere del Piave, capita di passare per una sorta di Scilla e Cariddi della modernità. Sulla sinistra un cartello avverte «vendesi terreno edificabile a uso industriale». Sulla destra, un altro segnala «Grande Guerra-l’ultima battaglia», suggerendo una visita all’antica linea del fronte tra il Piave e il Grappa. E viene da chiedersi chi abbia fatto più guasti al paesaggio, se i cannoni di ieri o i capannoni di oggi.
Per fortuna, lì vicino, una voce indomita si ostina a non cedere alla rassegnazione. E a chiedere di aiutarla a far sì che la poesia non abbia cantato invano.