Il manifesto, 25 agosto 2015)
Nelle economie emergenti non si avvertirono problemi, anzi, gli indicatori economici continuarono a essere positivi. Però, successivamente — mentre nell’Eurozona l’ottusità della “austerità espansiva” aggravava i danni — la crescita si è ridotta o annullata anche in quasi tutti i paesi Brics. Rimaneva la Cina, che con i suoi elevati volumi di crescita del Pil e del commercio con in paesi occidentali attenuava i problemi di quest’ultimi.
Ma adesso anche in Cina è sempre più evidente la frenata dello sviluppo travolgente degli ultimi anni (dal 14% di crescita del Pil nel 2007, le previsioni per il 2015 sono anche inferiori al 5%; le esportazioni cinesi nel 2014 hanno registrato un calo fino al 26% rispetto al 2008 e sono diminuite del 7,3% nei primi sette mesi del 2015).
In Cina emergono i limiti di un modello che, pur molto diverso da quello dominante nei paesi capitalistici occidentali nell’ultimo trentennio, ha in comune il contenimento dei salari e la carenza dei consumi interni (pur se a livelli molto più bassi).
C’è stata una accumulazione forzosa volta a recuperare la sua arretratezza (capitalistica), alimentata con una distribuzione favorevole ai profitti (pubblici e privati) canalizzati in nuova capacità e innovazione produttiva, spingendo gli stessi redditi da lavoro a finanziare in Borsa le imprese e lo stato (il cui debito è pari al 280% del Pil).
L’elevato aumento della capacità produttiva e i bassi consumi interni hanno determinato anche un elevato surplus nel commercio estero e il reinvestimento dei proventi valutari in titoli stranieri, soprattutto Usa. Il modello di sviluppo cinese ha dunque contribuito al fenomeno mondiale della forte crescita di debiti e crediti che ha contribuito alla crisi globale, ma in modo diverso (e fortemente controllato dallo stato) dalla finanziarizzazione delle economie occidentali. In queste ultime gli squilibri nel settore reale erano attutiti dal crescente interscambio con la Cina. Tuttavia, le persistenti cause della crisi dei paesi capitalisticamente sviluppati hanno finito per trasmettere i loro effetti negativi anche al sistema cinese.
La decelerazione dell’economia cinese ha cause proprie, ma un contributo è ascrivibile alla perseverante crisi delle economie occidentali che ha finito per assumere una dimensione effettivamente globale. Questa evoluzione negativa è stata accentuata dalle politiche prevalenti nell’Euro zona, da mesi concentrate sui vincoli da imporre alla Grecia (ma con intenti dimostrativi per gli altri paesi periferici e la stessa Francia) per assisterla con un intervento da 86 miliardi di euro (in buona parte da utilizzare per la restituzione di debiti alla stessa Troika) che, tuttavia, rappresenta circa un decimo di quanto le Borse europee hanno perso nella sola settimana scorsa e ieri per effetto della “sindrome cinese”.
Una similitudine significativa sulla quale dovrebbero riflettere sia i fautori del modello tedesco sia chi auspica la rottura dell’euro è che nell’Unione europea e in Cina si stanno evidenziando i pur prevedibili problemi generati dalla inadeguatezza — pur se a livelli diversi — dei salari e dei consumi, e dalla difficoltà di compensarne l’effetto negativo sulla domanda con le esportazioni. Di fronte alla pericolosa tendenza delle svalutazioni competitive tra grandi aree — Usa, Cina, Giappone, Unione europea – i paesi membri di quest’ultima rischiano di parteciparvi, per di più, in ordine sparso, se torneranno dall’euro alle valute nazionali.
La concentrazione degli intenti espansivi sulla politica monetaria sta alimentando una ingente offerta di liquidità che, permanendo gli ostacoli di natura reale alla ripresa e alla sua riqualificazione, rifornisce la speculazione finanziaria e crea nuove “bolle”, anche in Cina, dove iniziano ad esplodere. Nel dibattito teorico si è tornati a valutare l’ipotesi che sia in atto una “stagnazione secolare” (come nella grande crisi degli anni ’30 del secolo scorso, con motivazioni arricchite dalle specificità della crisi attuale), ma lo si fa – per lo più — nei congressi accademici e in una “rassicurante” ottica di lungo periodo che sembra definire un piano parallelo di discussione sconnesso dalle vicende e dalla politiche economiche correnti.
Come da tempo succede i politici credono di avere altro cui pensare, ma — avvertiva Keynes — «sono di solito schiavi di qualche economista defunto».