La Nuova Venezia, 29 gennaio 2009.
«Quando sono entrato in magistratura, nel 1959, il magistrato era un travet di lusso, dipendeva dal ministero e non osava alzare lo sguardo su politici, istituzioni e potere. Poi è arrivato il Csm, che ha reso liberi pm e giudici, proteggendoli dalle accuse dei potenti: con la caduta del Muro e la fine di Dc e Pci, ci siamo infilati a guardare ovunque ed è esplosa Manipulite. E’ vero, oggi la giustizia è bloccata, ma le riforme sul tavolo sono solo il cavallo di Troia per minare l’indipendenza del pm, non garantiscono giustizia più celere».
Il procuratore generale Ennio Fortuna, sabato 31 dicembre andrà in pensione, mezzo secolo dopo aver vestito per la prima volta la toga: da allora è stato pretore, pubblico ministero, procuratore circondariale a Venezia, membro del consiglio superiore della Magistratura eletto per Magistratura indipendente, procuratore della Repubblica a Bologna e, infine, pg presso la Corte d’appello veneta. Ne ha da ricordare, con la sua voce forte e il tono incalzante, il fluire carico di aneddoti del perfetto raccontastorie e l’entusiasmo di chi crede che «fare il magistrato sia il più bel lavoro del mondo».
Le inchieste. Da quella volta che si è trovato a indagare sull’allora collega, oggi senatore pd, Luciano Violante denunciato di falso per le perquisizioni a tappeto sul sospetto golpista Edgardo Sogno («Due persone degnissime, l’indagine finì in un nulla») a quando si rifiutò, nel 1968, di processare Pierpaolo Pasolini per il film «Teorema» e il Pg di allora lo sollevò dall’inchiesta («Ma poi il regista fu assolto!»). E gli anni Settanta, quelli del terrorismo, quando nel 1974 si ritrovò il garage di casa sventagliato da 21 colpi di mitra: «Negli Anni di piombo i magistrati italiani dimostrarono di non piegarsi, riuscendo a sconfiggere il terrorismo rispettando il codice e senza mai rinunciare al garantismo: i giudici di non molti Stati lo hanno fatto».
Furono anche i tempi dei primi crac dei promotori finanziari, con il caso dell’agente di cambio Marzollo che scosse la Venezia bene che gli aveva affidato milioni di risparmi. Ancora, i primi, veri furti d’arte, un decennio prima che Felice Maniero li usasse come merce di scambio: «Ritrovare arrotolati in un campo dell’isola di Poveglia tre capolavori del Gian Bellini rubati nella basilica di Santi Giovanni e Paolo è stata una soddisfazione enorme». E i delitti. «Il caso Pastres, con l’omicidio di un bimbo di appena 6 anni, a San Donà: fu terribile», racconta ancora Fortuna, «l’assassino lo bloccammo in Crazia: non avevamo prove certe contro di lui, ma durante l’interrogatorio crollò. Devo dire che negli interrogatori sono sempre stato piuttosto bravo: nei confronti psicologici riuscivo a trovare spesso la chiave giusta per la confessione, ma oggi sarebbe impossibile con la presenza dell’avvocato sin dal primo minuto».
Unabomber. Il cruccio finale: «Che dire? E’ stato più bravo di noi. Devo dire che le Procure di Venezia e Trieste hanno fatto il possibile, puntando tutto sull’indagine scientifica. Purtroppo abbiamo perso la partita dall’interno: eravamo convinti di avere la prova che Zornitta fosse colpevole e invece abbiamo scoperto che il lamierino trovato in un ordigno, era stato alterato. L’amarezza è forte».
Dalle Olivetti ai pc. «L’esperienza più esaltante è stata quella alla Procura circondariale», ricorda Fortuna, «abbiamo aperto un ufficio in un’ex scuola dove non c’era nulla: mi feci prestare le macchine da scrivere da Semenzato, che alla fine non le volle neppure indietro tanto erano vecchie. La fortuna fu che al ministero, incuranti del fatto che a Venezia c’è l’acqua, mi assegnarono 5 autisti d’auto: li misi tutti a lavorare al registro generale, anche se all’inizio scrivevamo i reati su alcuni quadernoni che comprai a Mestre, perché non avevamo neppure i libri del ministero. Sei mesi dopo, tutto funzionava perfettamente: fummo i primi ad informatizzare i fascicoli e ad introdurre l’udienza di comparizione». Il periodo nero fu quello successivo, alla Procura di Bologna: «La trovai distrutta, anche sul piano psicologico».
Giustizia malata? «Vado via molto amareggiato per non essere riuscito a dare risposta alle giuste richieste della cittadinanza per una giustizia celere e sollecita», conclude Fortuna, «ma i problemi sono altri da quelli che si vorrebbero risolvere con le riforme sul campo. Sono un appassionato nato difensore della magistratura libera e indipendente, che oggi vedo in pericolo. Gli avvocati dovrebbero capire che la separazione delle carriere tra pm e giudici - di per sé possibile - può essere un grimaldello verso l’assoggettamento del pubblico ministero a una nomina politica: un pm sotto il governo non alza lo sguardo. Senza l’indipendenza del pm viene meno la giustizia».
Il futuro. «Finché il cervello funziona, metterò la mia esperienza al servizio di enti, imprese, studi. La politica? Nel passato mi hanno chiesto di fare il sindaco e ho rifiutato: ora sono libero da ogni impedipento, se la proposta fosse seria, potrei accettare».