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Adriano Prosperi
Il perdono di Francesco
8 Dicembre 2015
Jorge Mario Bergoglio
Aver aperto il Giubileo non a Roma. ma a Bangui "è stato un segno estremo, da solo capace di esprimere la coscienza che il papa ha della gravità della condizione del mondo (e della Chiesa)». La Repubblica, 8 dicembre 2015
Aver aperto il Giubileo non a Roma. ma a Bangui "è stato un segno estremo, da solo capace di esprimere la coscienza che il papa ha della gravità della condizione del mondo (e della Chiesa)». La Repubblica, 8 dicembre 2015

OGGI a Roma si apre forse il Giubileo della Misericordia? Eh no, il Giubileo è già stato aperto. Non a Roma né in altro luogo romano o almanco italiano. È stato a Bangui, in Centrafrica. Qui papa Francesco ha spalancato la porta in legno e vetro della cattedrale e ha invitato a vedervi «la capitale spirituale del mondo »: non a Roma. Ora, è vero che altre volte i papi sono stati costretti a celebrare fuori Roma eventi simbolici importanti. La storia cristiana dei Giubilei comincia da quel discusso 1300.

Bonifacio VIII indisse la “perdonanza” che fece affluire a Roma una folla sterminata di pellegrini (fra cui Dante Alighieri). Lo fece oscurando l’indulgenza generale gratuita offerta dal suo predecessore Celestino V. Da allora in poi potere e danaro si mescolarono all’offerta di perdono dei peccati. Finché non fu un monaco tedesco, l’agostiniano Martin Lutero, a negare al papa quel potere sulle anime che ne costituiva la pretesa e la prerogativa fondamentale. Ma il cristianesimo occidentale non aveva mai visto prima di oggi mettere in discussione da parte di un papa il primato di Roma.

Questo è stato un segno estremo, da solo capace di esprimere la coscienza che il papa ha della gravità della condizione del mondo (e della Chiesa). Di fatto non si può dire che l’evento, così importante per Roma e per gli italiani tutti, abbia scosso il resto dell’umanità: altre sono le fedi religiose di cui il mondo è costretto a occuparsi. E l’ennesimo, sgangherato scandalo romano scoppiato proprio mentre il papa partiva per l’Africa ha spiegato a sufficienza perché il Vaticano non possa proprio dichiararsi capitale dello spirito. Intanto in Europa c’è una Germania che sta preparando un altro “giubileo”: la celebrazione dei 500 anni trascorsi da quel 1517 in cui Martin Lutero negando al papa di Roma il potere di cancellare i peccati e spedire in Paradiso le anime del Purgatorio, spalancò le porte a una modernità europea segnata da ben altri macelli religiosi che il preteso jihad di Daesh.

Oggi il Giubileo della Misericordia ripropone l’offerta antica del perdono. Ma non fa menzione né di purgatorio né di inferno né di demonio. La Chiesa apre le braccia al mondo, si preoccupa della tutela della vita umana e dell’ambiente. E lo speciale perdono giubilare torna a concernere le colpe dei singoli individui, dopo che quello dell’anno 2000 aveva sgombrato il campo dalle colpe storiche dei cristiani e della Chiesa. A esseri umani carichi di sensi di colpa e di fallimenti un papa gesuita propone il rimedio di cui i seguaci di Sant’Ignazio sono stati sempre i maestri: il perdono in confessione. Come? Lo dice la bolla e lo spiega bene monsignor Tettamanzi nel suo piccolo libro edito da Einaudi. Ci saranno dei sacerdoti speciali, missionari della misericordia che avranno facoltà di perdonare i peccati anche più gravi, quelli finora delegati ai vescovi. Niente di nuovo: fin dal ‘500 in Europa i “missionari del perdono” furono proprio i gesuiti. Quell’eredità è ben viva nella mente di questo pontefice. Non è un caso se il primo atto di papa Francesco è stato quello di proclamare santo Pietro Fabro, il gesuita figlio di contadini savoiardi esaltato da papa Francesco perché capace di un «dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari ». Perfino con Lutero.

Certo, non è solo sugli affioramenti del passato che si può basare un tentativo di ragionare con calma sul giubileo di Papa Bergoglio. La premessa dovrebbe essere il tranquillo riconoscimento che siamo davanti a un papato che ha modificato la percezione diffusa, non tanto della Chiesa quanto proprio della figura del papa: il quale è percepito e vissuto — in Italia e in altre parti del mondo — come leader sostanzialmente indiscusso, vero capo morale capace di imporre la sua egemonia su popoli e governi. E questo nell’età del populismo.

In mezzo al discredito generale per la politica e al senso di impotenza che pervade i governanti c’è un capitale di attesa e di speranza sul quale papa Bergoglio ha fatto qualcosa di più che avanzare un’opzione: se ne è semplicemente impadronito grazie a doti non comuni di spontanea comunicatività ma anche e soprattutto grazie alla sua capacità di intercettare attese e desideri profondi.

Questo Giubileo è un’occasione utile per guardarsi intorno e capire che cosa stia accadendo nel mondo, specialmente in quello delle religioni storiche. Il clima è insolito, nel mondo come nella Chiesa di Roma: si vive nel clima di una guerra strana, diffusa, «a pezzi» secondo la definizione del pontefice regnante. E questo pontefice è anche lui molto insolito. Averlo scelto la dice lunga sulle preoccupazioni diffuse nell’alta gerarchia cattolica — almeno in quella non romana e nemmanco italiana.

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