Il manifesto, “Sbilanciamo l’Europa”, 7 marzo 2014.
Che adesso, attraverso il voto, sia possibile indicare chi dovrà essere presidente della Commissione europea è un passo in avanti nella democratizzazione dell’Unione. Che tale elezione sia ora il frutto di una maggioranza parlamentare politicizza la scelta, finalmente sottratta al rito falsamente neutrale secondo cui fino ad oggi i governi, pur diversi fra loro, si accordavano sul nome più adatto. Un meccanismo che esasperava ulteriormente la presunzione su cui si basa la costruzione comunitaria, secondo cui quanto muove ogni decisione sarebbe procedimento puramente tecnico. E tuttavia che sia sufficiente accrescere i poteri del Parlamento per democratizzare la Ue è ipotesi francamente un po’ semplicista. Ci vuole ben altro.
Innanzitutto per la buona ragione che sin dalla sua nascita, nel ’57, ma in modo più evidente con l’introduzione dell’art. 102 del Trattato di Maastricht del ’93 (nella sua sostanza pienamente recepito dagli atti fondamentali successivi), si è tolto alla politica il potere di regolare gran parte della vita della Comunità (e dunque valore a ogni decisione parlamentare). Quell’articolo costituzionalizza infatti il primato della competitività nel mercato su ogni altra considerazione, e taglia così fuori l’economia dalla sfera delle decisioni politiche. La sovranità su questo decisivo settore, che determina ogni altra scelta, è stata così trasferita direttamente alle mani (invisibili) del mercato, non alle istituzioni europee. Il compito affidato agli esecutivi, e sottoposto al controllo del parlamento, è dunque solo quello di montare la guardia, attraverso una quantità di regole e sorveglianze, affinché il mercato venga liberato da ogni intrusione intesa a garantire alla politica - e cioè agli umani - il governo della società. Fin quando il principio ispiratore dell’Unione resterà la competitività costi quel che costi, possiamo dotare il Parlamento di tutti i poteri che vogliamo ma la politica, dunque la democrazia, non sarà reintrodotta.
Sarebbe bene riflettere sul fatto che a ingoiare quell’articolo 102 e la filosofia che lo accompagna sono stati parlamenti nazionali pur dotati di ogni potere e che pure non l’hanno esercitato per cancellare l’ispirazione di un Trattato che pure comportava la scelta suicida di non poter più legiferare se non al servizio della massima competitività e dunque solo su dettagli marginali, la scelta di fondo essendo stata fatta una volta per tutte con la costituzionalizzazione dell’obbligo di adottare una linea iperliberista. Ci si dovrebbe interrogare su come poté accadere che a questo siano addivenuti parlamenti di paesi dove pur forte era la tradizione di politiche fondate su un incisivo intervento pubblico in funzione regolamentatrice dell’economia. È accaduto anche in Italia, dove quel Trattato è stato votato da una schiacciante maggioranza contro solo gli antieuropeisti del Msi e gli europeisti di Rifondazione comunista che pure, tuttavia, ha accettato che tutto si risolvesse in una sbrigativa seduta e senza che l’opinione pubblica fosse minimamente allertata. E informata.
Tutto questo naturalmente si può cambiare ed è quello che in molti cerchiamo di fare. Ma avendo chiaro cosa serve per democratizzare l’Europa. E per cominciare qualcosa che dipende direttamente da noi. Se fino ad ora l’opinione pubblica italiana così come degli altri paese è stata così disattenta (e dunque inefficace) rispetto alle pur gravi scelte adottate a livello europeo (liberalizzazione del movimento dei capitali senza contemporanea creazione di uno spazio unico sociale e fiscale, tanto per fare l’esempio più macroscopico) è perché non esiste un’opinione pubblica europea, ma una somma di opinioni nazionali che non comunicano, perché solo sulla carta esistono partiti, sindacati, media realmente europei (un po’ meglio i movimenti). Ogni parlamentare e ogni commissario risponde al suo frammento, non a tutta l’Europa. E perciò a nessuno. Né, di conseguenza, una decisione assunta a Bruxelles acquista la stessa legittimazione di una legge nazionale. Senza questi corpi intermedi fra società civile e istituzioni - aveva acutamente notato la sentenza della Corte Costituzionale tedesca all’epoca del varo del Trattato di Maastricht - la democrazia (per non parlare di solidarietà) non esiste. Costruirli dipende anche da noi.