La Repubblica, 26 aprile 2015
L’articolo che ora comincerete a leggere l’ho scritto ovviamente ieri, sabato 25 aprile. L’anniversario ricorda ciò che avvenne settant’anni fa: la liberazione dell’Italia dal giogo nazista ad opera delle armate angloamericane ma con il contributo importante della resistenza partigiana ed anche dei reparti dell’esercito regolare italiano inquadrati nell’VIII Armata a comando inglese.
Le brigate partigiane entrarono per prime a Milano, Torino, Genova dopo 18 mesi di resistenza sulle montagne alpine, prealpine e appenniniche e lo spirito che le unificò fu l’antifascismo. Nelle varie brigate c’era quello spirito comune a tutti e molto variamente rappresentato: le brigate Garibaldi erano comuniste ed erano le più numerose, ma c’erano anche quelle di Giustizia e Libertà del Partito d’Azione, quelle Matteotti socialiste, quelle cattoliche, quelle monarchiche ed anche repubblicane e liberali.Complessivamente erano alcune migliaia di giovani e c’erano anche donne con loro, ma il grosso che comprendeva una parte considerevole della popolazione italiana da Firenze in tutta la valle del Po e all’arco alpino era fatto dalle famiglie che abitavano quei luoghi e che rifornivano di cibo i partigiani e li ospitavano nelle notti in cui scendevano a valle per procurarsi quanto era loro necessario, comprese armi e munizioni.
Fu questo un movimento di popolo che diede vita alla Resistenza e mise la base etica e politica di quell’Italia democratica delle istituzioni repubblicane e della Costituzione che abbiamo votato con le elezioni e il referendum del 2 giugno del 1946.
Venerdì scorso il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato un’ampia intervista su queste pagine al direttore Ezio Mauro, chiarendo il significato di quel periodo, mettendone anche in evidenza alcune ombre che non hanno però alterato né indebolito la nascita dell’Italia repubblicana e democratica, la ricostruzione sociale ed economica che ne seguì e i martiri che persero la vita nelle camere di tortura fasciste durante quei mesi terribili e tormentati. Ma l’inizio di tutti quei moti popolari avvenne prima d’ogni altro a Napoli con quattro giornate di rivoluzione; le truppe alleate erano ancora a Salerno e arrivarono nella città partenopea a rivoluzione già avvenuta che aveva messo i tedeschi in fuga.
Gli esponenti principali di quel glorioso movimento risorgimentale furono Mazzini, Cavour, Garibaldi ed anche i Cairoli, Manara, Berchet, Mameli, Bixio, Pisacane e molti altri segregati nelle carceri austriache.
Anche il Risorgimento ebbe le sue ombre che segnarono profondamente il movimento e in parte ancora si protraggono con il dualismo economico tra Nord e Sud che proprio allora ebbe inizio. Proprio in quegli anni si manifestò anche il fenomeno mafioso che è andato via via crescendo fino a diventare un’organizzazione delinquenziale le cui radici restano al Sud ma le cui propaggini sono ormai arrivate fino a Roma, all’Emilia, alla Lombardia, al Piemonte, al Veneto e addirittura a Marsiglia e ad Amburgo.
La storia è sempre e ovunque molto complessa, il che non toglie che nel periodo di cui stiamo ora parlando il contenuto eticopolitico e sociale sia stato comunque positivo. Ma il nostro Paese è arrivato alla sua unità e alla trasformazione economica e sociale con grande ritardo rispetto al resto d’Europa. Questo sfasamento temporale ha avuto effetti profondamente negativi sulla democrazia italiana che è stata fin dall’inizio dello Stato unitario fragilissima. La causa è evidente: molti italiani hanno considerato e tuttora considerano lo Stato come un’entità estranea o addirittura nemica, oppure come strumento da utilizzare per i propri particolari interessi anziché a tutela degli interessi generale e del bene comune.
La diffusione non solo della mafia ma delle clientele e della corruzione così radicata sono fenomeni che hanno come causa prima il ritardo di secoli della nascita dello Stato unitario, sorto centocinquanta anni fa mentre in Francia, in Inghilterra, in Austria, in Spagna era nato quattro secoli prima e con esso economie molto più avanzate rispetto alla nostra.
Ogni tanto ci sono in Italia ventate di patriottismo, ma sono fenomeni passeggeri e non a caso avvengono quando al vertice dello Stato si insedia — col favore di popolo — un dittatore.
Le istituzioni per molti italiani sono estranee rispetto ai loro interessi ed è questa la causa della fragilità democratica che anche ora è tutt’altro che cessata.
Se guardiamo alla storia dell’Italia moderna questo fenomeno è largamente diffuso. Gli anticorpi dovrebbero mettere riparo alla fragilità della nostra democrazia e dovrebbe essere il Partito democratico a produrli, specialmente ora che alla sua guida c’è un personaggio coraggioso, eloquente, dotato di molte capacità di convincere amici e avversari. Ma il fatto strano degli anticorpi che distruggono se stessi si sta invece verificando con preoccupante intensità ed è proprio Matteo Renzi, che adottando lo slogan del cambiamento, sta cambiando la democrazia italiana non rafforzandola ma rendendola ancora più fragile sì da consentirgli di decidere e comandare da solo. Renzi sta smontando la democrazia parlamentare col rischio di trasformarla in democrazia autoritaria. Forse non ne è consapevole, è possibile, ma quella è la strada che sta battendo e sia la legge elettorale sia la riforma costituzionale del Senato rendono quel pericolo ancora più concreto.
Ero a Sanremo dove avevo frequentato il liceo e dove risiedevo con i miei genitori. Nel ‘41 andai all’Università di Roma ma per le vacanze estive tornavo a Sanremo dove ritrovato tutti i miei amici, Calvino, Roero, Pigati, Donzella, Cossu, Maiga, Turco e insomma quella che noi stessi chiamavano la banda, e con i quali avevamo vissuto il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza.
Quella storia e quella giornata l’ho raccontata nel mio libro “L’uomo che non credeva in Dio” edito da Einaudi nel 2008.
Lo cito qui di seguito, è un piccolo spaccato che rende l’atmo- sfera di un Paese allo sfascio, in fuga davanti a se stesso, dal quale la Resistenza l’ha riscattato. L’8 settembre ci furono due fenomeni contemporanei: gli italiani distrussero il loro Paese e contemporaneamente una parte di essi lo ricostruì su basi nuove, moderne e democratiche.
Voglio raccontarla quella storia e spero che interessi i lettori.
«Fu una tristissima giornata che per noi arrivò quasi d’improvviso dopo la caduta del fascismo avvenuta nel luglio precedente e la precaria euforia che essa aveva suscitato di una riconquistata libertà.
Dall’inizio di agosto avevamo visto con crescente sgomento le colonne motorizzate tedesche che scendevano sull’Aurelia verso sud e lunghi convogli ferroviari che trasportavano nella stessa direzione i carri armati con la croce uncinata sulle fiancate.
Finché arrivò l’8 settembre e ancora una volta, come tutte i giorni dall’inizio della guerra, ascoltammo la voce che leggeva le notizie del giornale radio dagli altoparlanti di piazza Colombo.
Quella voce la risento ancora quando ci ripenso: leggeva il comunicato di Badoglio con la notizia dell’armistizio e ordinava alle truppe di collaborare con gli angloamericani opponendosi a chiunque volesse impedirlo.
All’annuncio del capovolgimento di fronte, peraltro atteso e già avvenuto nella coscienza di gran parte degli italiani, l’intera nazione visse un attimo di silenzio sospeso. Poi cominciò lo sfascio che in poche ore abbatté lo Stato in tutte le sue simboliche presenze: l’esercito prima di tutto, l’autorità del governo, le leggi, la monarchia.
Il sentimento comune fu la fuga. Disperdersi. Pensare a sé e alla propria famiglia.
Anche il nostro piccolo gruppo di amici si scompose e i nostri destini si separarono. Ma prima facemmo ancora una cosa insieme: ci demmo appuntamento per la mattina dopo e andammo al deposito della Marina, un piccolo edificio di poche stanze, sopra gli scogli sulla strada litoranea per Bordighera. C’erano soltanto quattro marinai che stavano preparando i loro sacchi per andarsene. Noi dicemmo di esser lì per conto del Comune. Loro non sapevano evidentemente nulla dei poteri e delle competenze, ma soprattutto avevano soltanto voglia di lasciare quel luogo al più presto e andarsene a casa propria.
Domandammo se c’erano esplosivi. Risposero: “Esplosivi no, ci sono soltanto proiettili per i cannoni costieri”. “Ci sono anche i cannoni?”. Risposero di no. “I cannoni sono nelle postazioni della guardia costiera. Qui ci sono le munizioni di riserva”. Noi dicemmo che le prendevamo in consegna per conto del Comune e ci offrimmo di fare ricevuta dopo l’inventario. Loro risposero che se ne andavano, della ricevuta non avrebbero saputo che farsene. Ci dettero la chiave del deposito e quella del portone. E via. Lavorammo per tre ore a portar su i proiettili e gettarli sugli scogli. Pesavano un bel po’ e ne buttammo a mare la metà. Non sapevamo perché stessimo facendo quella fatica assolutamente inutile e priva di senso. Probabilmente fu il nostro modo di esprimere smarrimento e rabbia. Alla fine, stanchi e sudati, decidemmo di piantarla lì. Ci salutammo alla svelta e senza abbracci. Io dissi che appena possibile sarei partito per Roma con mio padre e mia madre.
Due giorni dopo telefonai a Italo, gli dissi che partivo col treno delle sei del pomeriggio. Ci salutammo ancora al telefono, ma poi me lo vidi alla stazione. Ero già salito e affacciato al finestrino. Lo ringraziai d’essere venuto. “Ci vedremo presto”, gli dissi. “Non credo” rispose lui. Il treno si mosse. Lui disse “ciau” con la u».
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Dovrò ora dire qualche parola sulle decisioni dell’Europa (28 capi di Stati e di governo riuniti giovedì a Bruxelles) sul tema posto da Renzi dell’emergenza dell’emigrazione dalla Libia.
Avevano dinanzi, i 28, un problema enorme che doveva e dovrebbe affrontare almeno quattro questioni: portare in salvo i migranti che tentano di raggiungere il Sud d’Europa (praticamente la costa italiana) sfuggendo ad un inferno di povertà, schiavitù, stragi, nell’Africa subequatoriale; sgominare l’organizzazione delinquenziale degli scafisti-schiavisti che organizza i viaggi della morte; stabilizzare la Libia perché fin quando quel Paese non torni ad avere una struttura di governo è impossibile vincere la guerra del mare; infine intervenire a monte dell’emergenza nelle terre del Centroafrica dove milioni di persone sono in condizioni di stentata sopravvivenza e alimentano la fuga verso il benessere che diventa purtroppo una fuga verso la morte.
Ebbene, questi essendo i problemi intrecciati l’uno con l’altro, l’incontro a Bruxelles ha partorito un topolino: hanno deciso di portare l’assegno mensile europeo alla politica dell’immigrazione da 3 a 9 milioni al mese. Sul resto di fatto è silenzio. La Mogherini è stata incaricata di preparare un memorandum che sarà esaminato dal Consiglio d’Europa, con molti Stati membri che hanno però già detto che più di quanto è stato deciso non faranno. Si tratta di Germania, Gran Bretagna, Paesi baltici, Olanda e via numerando.
Renzi è contento. Noi no. Ma non solo noi: basta leggere su il Sole 24 Ore
di ieri l’articolo di Vittorio Emanuele Parsi che comincia dicendo che «la montagna ha partorito il topolino» e lo dimostra con una lucida analisi di quanto (non) è accaduto a Bruxelles. Lo stesso giorno è uscito l’articolo di Prodi sul Messaggero dove si spiega che per stabilizzare la Libia bisogna far intervenire le grandi potenze arabe (l’Egitto, l’ Arabia Saudita e gli Emirati) e la Turchia e il Qatar, i soli che possono assicurare in Libia un’autorità senza la quale ogni altra azione è impossibile.
Concludo tornando al tema della Resistenza.
Mi dicono che a Renzi non è simpatica la canzone “Bella Ciao” che è proprio quella dei partigiani. Sarebbe stato bello se l’avesse intonata anche lui alla manifestazione dell’Anpi. Non vorrei che invece di “Bella Ciao” dicesse “Ciao Bella”. È un cambiamento ma non andrebbe affatto bene.