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Francesco Erbani
Il paesaggio perduto
5 Giugno 2007
Roma
L’intervento svolto al V Premio Cederna della Provincia di Roma, il 30 maggio 2007. Una lezione di urbanistica nel solco del difensore del paesaggio romano. (m.p.g.)

L’agro romano è a rischio di estinzione, si legge in un documento sottoscritto da un centinaio di archeologi, architetti e funzionari della Sovrintendenza archeologica di Roma. Quel documento è una lettera-appello al ministro per i Beni e le attività culturali Francesco Rutelli e trae spunto proprio dalle prese di posizione del ministro in favore di una tutela del paesaggio italiano in quanto deposito di valori non solo naturali, ma anche storici, cioè prodotti dall’uomo.

Accade spesso di sentir parlare del paesaggio come pura categoria ideale, anzi come semplice effetto della percezione, come se i suoi valori fossero puramente immateriali, per cui ognuno si costruisce il proprio paesaggio, con un’operazione mentale. E invece il paesaggio ha una sua concreta rappresentazione nella struttura del territorio. E l’elemento che caratterizza il paesaggio italiano in genere, e che rappresenta il suo vero valore è proprio il fatto di essere un paesaggio fortemente antropizzato, cioè segnato dalla mano dell’uomo. E a seconda delle zone d’Italia la mano dell’uomo ha definito assetti del territorio che rendono riconoscibili i luoghi, perché li fanno uno diverso dall’altro. La campagna toscana è diversa da quella siciliana non solo per la conformazione del terreno, ma anche per le tradizioni colturali, perché in Toscana prevale la coltivazione dei vigneti o dell’ulivo e gli appezzamenti di terreno sono (purtroppo forse erano) di dimensioni ridotte e quindi il paesaggio ne è condizionato e perché, invece, in Sicilia prevale la grande estensione coltivata a grano, con queste immense distese pianeggianti.

Anche l’agro romano ha le sue specificità, e naturali e definite invece da secoli di attività umane. Una delle caratteristiche fondamentali che lo rendono riconoscibile è questo intersecarsi diffuso di natura e di storia antica, di qualità della vegetazione e di evidenze archeologiche che trovano forse la loro esemplarità nei tremilacinquecento ettari del Parco dell’Appia Antica. L’agro romano non è solo la cornice che avvolge Roma, quasi lo sfondo neutro in cui si situa la città. E’ invece un contesto che attribuisce alla città un di più di significati. Non sarebbe pienamente riconoscibile la città di Roma senza l’interazione costante fra l’edificato e l’inedificato.

Ecco questo patrimonio è a rischio. Basta gettare lo sguardo su qualche cifra. Nel 1951 Roma era edificata su 6 mila ettari, per arrivare a questa dimensione la città ha impiegato grosso modo duemilacinquecento anni. Gli abitanti erano un milione e seicentomila. Nel 2001, cinquant’anni dopo, si è arrivati a più di 41 mila ettari, sette volte di più del 1951. Ma la popolazione si è assestata sui 2 milioni e mezzo. Non è neanche raddoppiata. E inoltre, mentre dal 1951 la popolazione è cresciuta molto arrivando a toccare nel 1981 i 2 milioni e ottocentomila, dall’81 in poi è sempre calata.

E’ un evidente paradosso. L’edificato di una città cresce quasi indipendentemente dalla crescita della popolazione. E’ vero che una città si sviluppa anche perché si moltiplicano le esigenze di lavoro e quindi nascono fabbriche, stabilimenti e altre strutture produttive; oppure aumentano le esigenze di spazi per lo svago, la cultura: ma è questo il caso di Roma? E poi proviamo a vedere se le cose negli ultimi tempi si sono modificate. Dal 1991 al 2001, stando ai dati del censimento, Roma ha perso 180 mila residenti. Ma il Piano regolatore della città, recentemente approvato, prevede altri 65 milioni di metri cubi di costruzioni - case, stabilimenti, uffici, ma soprattutto case in cui dovrebbero andare ad abitare circa 300 mila persone. Se si dovessero attuare le previsioni del Piano regolatore, si legge sempre in quel documento dei funzionari della Sovrintendenza, Roma passerebbe da 41 mila ettari di edificato a 56 mila. Cosa vuol dire? Vuol dire che altri 15 mila ettari di agro romano andranno perduti. E’ vero che il territorio comunale di Roma è il più grande d’Italia e arriva a 129 mila ettari, ma è vero anche che il ritmo dell’espansione non si è arrestato e non si arresta. E poi, passando dalle cifre all’osservazione empirica, basta fare un giro per vedere come sono combinati queste decine di migliaia di ettari che teoricamente dovrebbero essere integri per osservare una miriade di piccoli insediamenti diffusi, case sparpagliate, attività economiche e commerciali ecc.

La verità è che a Roma si costruisce a ritmo forsennato. D’altronde sono le stesse autorità cittadine a sostenere con una punta d’orgoglio che i tassi di crescita dell’economia romana sono superiori a quelli medi italiani, quasi del doppio. E di questo ovviamente non è possibile non rallegrarsi. Poi si va a verificare qual è la natura di questa crescita e si scopre che i tre cardini di essa sono l’edilizia, il commercio e il turismo.

L’edilizia cresce in tutta Italia. Stando ai dati citati recentemente da Vittorio Emiliani, ogni anno si perdono in Italia 380 mila ettari di suolo agricolo. Noi produciamo una quantità di cemento pro-capite che è più del doppio di quella tedesca. E Roma è all’avanguardia di questo processo: proviamo a fare un giro sul raccordo anulare, partendo dalla Bufalotta, estremo nord della città, passando per la Tiburtina, la Magliana, Fiumicino e poi tornando alla Bufalotta per rendersi conto che uno degli elementi cospicui del paesaggio dell’agro romano sono le gru, che hanno ormai trasformato lo sky-line della città.

L’agro romano rischia e rischia di brutto. Rischiano i suoi luoghi di pregio e rischia in generale tutto il suo tessuto. Ma oltre a questo incombe un altro pericolo: quello di costruire una città che sarà sempre più faticosa da vivere, che produrrà sempre più affanno e stress. Si parla molto del ritorno a Roma degli architetti, si legge di questa o di quell’altra archistar che ristrutturerà uno stabilimento dismesso, che allestirà un museo o che costruirà una piscina olimpionica (poi si scopre che le per le olimpiadi si tornerà a usare il vecchio e glorioso Foro Italico, sperando di lasciarlo integro). Nessuna avversione per l’architettura moderna. Antonio Cederna non ne aveva nessuna, a patto che non mettesse le mani nei centri storici e che invece si cimentasse con la costruzione di una vera città moderna, senza rincorrere le direttrici speculative, come si faceva in molte capitali d’Europa, da Londra a Stoccolma, da Copenhagen ad Amsterdam, che potevano sfoggiare quartieri di edilizia pubblica che Cederna ammirava come capolavori di qualità urbana. Il problema è che a Roma si costruisce in luoghi dove non arriveranno mai i servizi pubblici su rotaia, in luoghi che le pubblicità descrivono come immerse nel verde, silenziose, sfruttando proprio quelle qualità della campagna romana che nel frattempo si distruggono. Sviluppandola in questo modo la città si disarticola, si spappola sul territorio e si trasforma in un organismo sempre più a misura di auto privata: non è per caso che a Roma siano immatricolate quasi 80 macchine ogni cento abitanti, comprendendo fra i cento abitanti anche i neonati e i ragazzi fino a diciott’anni. La macchina diventa il mezzo di trasporto privilegiato, provoca congestione e inquinamento. Serve ad andare in centro oppure a spostarsi da una periferia all’altra. Mentre il centro storico si svuota sempre più di residenti e si avvia a diventare solo un luogo che attrae per lavoro o per divertimento, un luogo per ministeri, uffici, studi professionali e un luogo solo per masse incontrollate di turisti, che producono una mutazione irrimediabile del suo aspetto fisico. I dati di questo esodo li ha più volte citati Paolo Berdini, che ha dimostrato come ad essere svuotati non sono solo i quartieri dentro le Mura, ma anche i quartieri novecenteschi e persino quelli del secondo dopoguerra. Tutta gente che va a vivere nelle Roma 2, Roma 3 e Roma 4 e che ogni giorno prende la macchina per venire in centro e la riprende la sera per tornarsene a casa.

Ben vengano gli architetti a progettare spazi pubblici e luoghi di cultura. Ma intanto a Roma ci sono già 22 grandi centri commerciali e, stando alle denunce delle associazioni dei commercianti, se ne autorizzano ben 4 ogni anno. Non vorrei che Roma scontasse il paradosso di chiamare grandi progettisti, ritrovandosi però con una selva di ipermercati. Inoltre, accusano sempre le associazioni dei commercianti, i centri commerciali proliferano anche grazie alle norme adottate per la riqualificazione delle periferie, in particolare delle aree dove sono sorti insediamenti pubblici, gli articoli 11. Provvedimento sacrosanto in teoria, perché si portano servizi laddove non ci sono mai stati e si ricollegano questi quartieri alla città. Il problema è che si costruiranno asili o centri per gli anziani non sfruttando le aree già espropriate che sono in quei quartieri, dove tantissimo è lo spazio sprecato (centinaia e centinaia di ettari, stando ai calcoli di Giovanni Caudo), ma in cambio della concessione a privati di licenze per costruire a loro volta altre case. Nasce così la tortuosa vicenda di Colle della Strega.

Le domande che sorgono a questo punto sono: ma perché si costruisce tanto? per chi si costruisce tanto? Ho citato Cederna: in effetti se si vanno a leggere le sue pagine, sebbene risalgano anche a cinquant’anni fa, una risposta la si trova. Cederna ebbe la fortuna (per un giornalista questa è una fortuna) di raccontare l’Italia proprio a partire da quel 1951 in cui prendeva il via quella spaventosa trasformazione che avrebbe sfigurato i suoi connotati. Ed ebbe la bravura di non limitarsi a raccontare l’Italia che vedeva modificarsi sotto i suoi occhi, ma di cercare le cause. Rispondendo a quelle domande: perché si costruisce tanto e per chi?

Il meccanismo che agli occhi di Cederna regola questa trasformazione devastante è di diversa natura. Culturale, intanto: l'Italia è un paese in cui la consapevolezza della qualità del proprio patrimonio non è adeguata all'entità e alle valenze di esso. Economica, in secondo luogo: in Italia la rendita pesa moltissimo, e la rendita fondiaria e immobiliare, in particolare, assorbono tante risorse che altrimenti sarebbero destinate a un più corretto sviluppo (non è difficile leggere le denunce di Cederna sul Mondo contro la Società Generale Immobiliare, che a Roma possiede milioni di metri quadrati, incrociandole con gli interventi che sullo stesso settimanale pubblica Ernesto Rossi contro i monopoli). Politica, infine: una buona parte della politica non intende né progettare né regolare l'assetto di un territorio, è come inibita dalla forza che esprimono il mondo dell'edilizia e della rendita e si adegua ai suoi desideri, convinta che nel possesso di un suolo sia in qualche modo iscritta la possibilità di una sua trasformazione in senso cementizio e che questa possibilità vada al massimo contrattata, mitigata, ma non condizionata dalla tutela di interessi generali. Negli anni Cinquanta, scrive Cederna, si costruisce dove e come si vuole purché lo esiga chi possiede un suolo. Non si costruisce perché c'è bisogno, o almeno non solo per questo, ma perché c'è qualcuno che ha la forza di imporlo.

Queste tre condizioni restano sostanzialmente inalterate nella storia italiana dagli anni Cinquanta a oggi. Vi sono stati periodi in cui, anche a Roma, si è tentato di regolare l’attività edilizia, legandola alla necessità vera di costruire case e a quella di far crescere la città in maniera corretta, tutelando il centro storico e governando rigorosamente lo sviluppo dei nuovi quartieri. Ma sono state delle parentesi, come quella controversa quanto si vuole, ma almeno sostenuta da un’idea forte, dell’edilizia popolare, una parentesi che sembra chiusa per sempre. Sappiamo quante case invadono l’agro romano, deturpandolo e consumando suolo pregiato. Sono case costruite da privati su suoli privati, che costano anche sei, settemila euro a metro quadrato. Le case si costruiscono, ma il problema dei senzacasa resta inalterato e anzi va aggravandosi sempre di più: nella città che dilaga con il suo cemento sui paesaggi raccontati da Goethe e da Chateaubriand sono censite ben trentamila famiglie che una casa non ce l’hanno e non se la possono permettere.

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