Trarre indicazioni di carattere generale dalle vicende di due imprese medio-piccole in difficoltà – la Innse di Lambrate e la Cim di Marcellina – che occupano in tutto meno di duecento operai, a fronte di migliaia d’altre imprese che nelle regioni italiane si trovano in condizioni simili e hanno centinaia di migliaia di dipendenti, sembra davvero un azzardo. Resta il fatto che la rapidissima e dichiarata imitazione del comportamento dei lavoratori della prima da parte di quelli della seconda, e il non meno rapido successo nell’impedire la chiusura della fabbrica, ormai certo nel caso della Innse, e assai probabile nel caso della Cim, abbiano indotto molti a chiedersi quale significato può leggersi nelle due vicende.
Ricordiamo gli aspetti principali di esse. Anziché mettersi tutti in sciopero dinanzi alla preannunciata chiusura o smantellamento della propria fabbrica, succede che un piccolo gruppo di operai, non più di cinque-sette in ambedue i casi, sale su una struttura alta decine di metri – un carro ponte alla Innse, una torre di lavorazione di materiali cementiferi alla Cim – e sopportando seri disagi e pericoli dichiara che non scenderà a terra se la fabbrica non verrà salvata. Non si tratta d’una occupazione di azienda secondo i canoni classici; il resto della fabbrica è deserto – anche con l’aiuto, nel caso Innse, di interventi della polizia. Ma degli operai arroccati su alte strutture parla l’intero paese, i media vi dedicano spazi quasi mai visti nemmeno per scioperi con milioni di partecipanti, si muovono sindaci, prefetti, questori, e ovviamente i vertici sindacali.
Mentre questo è l’aspetto più noto e discusso, i commenti hanno riguardato assai meno il fatto che nessuna delle due imprese aveva in realtà problemi di produzione o di mercato. Sotto il profilo economico, ambedue andavano piuttosto bene. Il proprietario della Innse voleva venderla a un acquirente cui interessavano soltanto i macchinari, non l’azienda; la Cim rischiava (è d’obbligo l’imperfetto) la chiusura perché il comune ha indetto in passato un bando pubblico per l’affitto dell’area su cui sorge lo stabilimento – con prevedibile vittoria di qualche società immobiliare – senza sottacere che l’azienda pare non avesse pagato il canone dovuto. Forti interessi immobiliari, è stato scritto, si muovevano anche nello sfondo della vendita dell’Innse. In altre parole, pare doversi concludere che ai proprietari delle imprese e delle aree non interessasse granché assicurare la continuità delle due fabbriche, ma piuttosto trarre un utile dalla loro chiusura.
Grazie al loro comportamento, una dozzina appena di operai otterranno, a beneficio di tutti, quello che nemmeno uno sciopero di sei mesi di tutti i dipendenti sarebbe probabilmente mai riuscito ad ottenere: salvare in pochi giorni le due fabbriche. Visto il successo, troveranno altri imitatori? C’è da aspettarsi che in dieci o cento altre imprese che minacciano licenziamenti piccoli gruppi di lavoratori si pongano volutamente in una situazione pericolosa intanto per richiamare l’attenzione, poi per sollecitare chi può a intervenire per compiere salvataggi più o meno veloci? La possibilità esiste. Ma occorre considerare innanzitutto che se la Innse o la Cim avessero avuto milioni di debito, o fossero afflitte da una falcidia degli ordinativi, o mostrassero una produttività insoddisfacente nel loro settore, come si osserva per tante aziende in crisi, il loro salvataggio sicuramente non sarebbe arrivato così presto, e forse non sarebbe arrivato mai. In secondo luogo è certo che dopo il quarto o il quinto caso, se mai si verificassero, l’attenzione dei media, nonché di prefetti, questori e consigli comunali scenderebbe velocemente verso lo zero, e con essa la probabilità di trovare qualche tipo di soluzione.
C’è però un punto da tenere presente. Un operaio della Innse, dialogando a Radio Popolare con i compagni della Cim, ha detto che «il vecchio tipo di lotta, lo sciopero, non funziona più. Bisogna utilizzare altre forme di lotta». Per quanto riguarda le grandi vertenze contrattuali, è probabile che al momento la sua previsione sia sbagliata. Ma per molte questioni che hanno a che fare con gli innumeri marchingegni usualmente messi in opera al fine ultimo di tagliare l’occupazione, dalla cessione di rami d’impresa alle fusioni e acquisizioni i quali hanno come risultato che due più due fa sempre tre, è possibile invece che abbia ragione. Nessuno vorrebbe rivedere operai che rischiano la vita restando per giorni interi su strutture alte trenta o quaranta metri. Però bisogna riconoscere che la loro protesta, in questi casi, non ha danneggiato nessun soggetto terzo, ha inciso in misura minima sul reddito dei lavoratori interessati, e neppure ha recato alcuna menomazione agli impianti. Ed ha avuto un rapido successo. In altre parole, è stata una protesta ben inventata quanto efficace. Poiché la crisi delle imprese piccole e medie sarà indubbiamente lunga e severa, e i mezzi per scaricarne i costi anzitutto sui lavoratori sono soprattutto nelle mani della proprietà e delle direzioni, v’è da prevedere, se non anzi da augurarsi nell’interesse generale, che altre forme di protesta parimenti ben concepite – di tipo non-sciopero, e meglio se meno rischiose – emergeranno nel prossimo autunno.
Meglio ancora sarebbe se (1) fosse drasticamente disincentivata la speculazione immobiliare sulle aree dismesse, con un’adeguata politica urbanistica; (2) vi fosse una politica nazionale volta a stimolare gli investimenti produttivi e penalizzare quelli improduttivi, anche con forti tassazioni delle rendite finanziarie e immobiliari; (3) stampa e televisione non si occupassero soltanto degli eventi eccezionali e straordinari ma si impegnassero a formare l’opinione pubblica e non a titillarne gli istinti.
Insomma, non può essere solo la classe operaia a positivamente allo smantellamento del capitale industriale, ma il compiito spetta anche – e forse in primo luogo – alla politica e alla cultura.