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Jorge Castañeda
Il nuovo presidente della Bolivia non è Che Guevara
10 Febbraio 2007
Articoli del 2006
Un punto di vista parziale, pragmatico, ma certo informato sulla realtà della "nuova sinistra" sudamericana. International Herald Tribune, 18 gennaio 2006 (f.b.)

Titolo originale: Bolivia's new president is no Che Guevara – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

CITTÀ DEL MESSICO – Non si deve sottovalutare l’importanza della vittoria di Evo Morales alle elezioni presidenziali in Bolivia, a causa dei motivi simbolici e per le implicazioni che riguardano il resto dell’America Latina. In una regione dove è sempre esistita una scandalosa concentrazione di ricchezza e potere, avere un presidente che appartiene alla comunità indigena non è un fatto secondario.

La Bolivia è sempre stata un paese paradigmatico: la rivoluzione del 1952 è stata una delle sole quattro vere sollevazioni popolari dell’America latine nel XX secolo (insieme a quelle di Messico, Cuba e Nicaragua); fu tragicamente scelta e in modo sbagliato da Fidel Castro, Che Guevara e Régis Debray a metà anni ’60 come piattaforma di lancio per un movimento di guerriglia esteso a tutto il Sud America; e fu, insieme al Cile, il primo paese a sperimentare le “riforme strutturali” dette Reaganomics in the tropics già a metà anni ‘80.

In modo simile, le campagne antidroga USA spesso fanno riferimento o ripetono quello che da un certo punto di vista è stato considerato un enorme successo: la sostituzione delle colture e l’intervento militare nella regione di Chaparé vicino a Cochabamba, pure a partire dalla metà anni ‘80. In realtà, la coltivazione di coca fu semplicemente trasferita nella zona alta della valle Huallaga in Peru, lasciandosi dietro moltissimi coltivatori infuriati e impoveriti in Bolivia.

Fra questi, naturalmente, c’era Evo Morales, che domenica presterà giuramento come presidente della Bolivia dopo aver vinto le elezioni con 54% dei voti il 18 dicembre.

Oggi c’è uno spostamento a sinistra in America Latina, ma non è omogeneo. I partiti e rappresentanti che emergono dalla vecchia tradizione comunista, socialista o castrista (con l’eccezione dello stesso Castro) tendenzialmente hanno attraversato il Rubicone dell’economia di mercato, della democrazia rappresentativa, del rispetto dei diritti umani e di posizioni geopolitiche responsabili. Sono Ricardo Lago e Michelle Bachelet ch egli è succeduta in Cile, Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile, e forse anche Tabaré Vázquez in Uruguay.

Ma quelli le cui radici affondano più profondamente nella tradizione populista latinoamericana, come il venezuelano Hugo Chávez, l’argentino Nestor Kirchner e il boliviano Evo Morales, sono di una pasta diversa. Sono molto meno convinti degli imperativi della globalizzazione o dell’ortodossia economica, del valore intrinseco della democrazia e rispetto dei diritti umani, e non aspettano altro che di stuzzicare la Casa Bianca.

La “nuova sinistra” del Cile, Brasile o Uruguay ha una politica interna che sale dalle radici profonde dei problemi: combattere la povertà, ridurre le ineguaglianze, migliorare il sistema sanitario, della casa e dell’istruzione. La politica estera può portare a disaccordi con Washington, ma senza veri attriti.

D’altro canto la sinistra populista non ha molta politica interna, ma fa risplendere le proprie credenziali di sinistra col vecchio metodo: antiamericanismo e politica estera filo-cubana.

Molto probabilmente, questo è quanto farà Morales in Bolivia. Essere troppo radicale non solo gli alienerebbe il sostegno finanziario internazionale, ma potrebbe intensificare le forze centrifughe già presenti delle aree orientali e più ricche della Bolivia. Inoltre, si devono fare enormi sforzi per la lotta alla povertà estrema, ma anche in questo caso i risultati non saranno cosa spettacolare di breve termine.

Quindi Morales dovrà fare ciò che i populisti del suo genere fanno sempre: attaccare Washington e ingraziarsi il sostegno interno: i coltivatori di coca del Chaparé, dove ha cominciato la sua carriera politica anni fa. Ha cominciato in modo non ambiguo per quanto riguarda gli Stati Uniti: i suoi primi viaggi all’estero sono stati all’Avana e a Caracas, e farà tutto il possibile per partecipare al cosiddetto “asse del bene” di Castro e Chávez.

E non solo rifiutando di proseguire col programma di eliminazione della coltura di coca, ma annunciando che intende aumentare le superfici coltivate – visto che la coca è oggetto tradizionale di consumo nelle terre alte boliviane - Morales raggiunge due obiettivi in un colpo solo: imboccare una strada di collisione “ politically correct” con Washington, e usare le frange più estreme del suo sostegno di base, qualcosa che il Presidente George W. Bush capisce molto bene.

Ma in definitiva, è improbabile che Evo Morales diventi un Fidel Castro andino. La Bolivia è tragicamente povera, profondamente dipendente dall’aiuto esterno e ha una storia di instabilità senza paragoni in America Latina. Se gli Stati Uniti giocheranno freddamente la loro partita, e il Brasile entrerà a pieno titolo nel dibattito globale, Morales potrà far notizia, ma non certo la storia. Spero che tutti noteranno la differenza.

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(Jorge Castañeda, ex ministro degli esteri in Messico, è autore di “Compañero”, una biografia di Che Guevara, e di “Utopia Disarmata”, sui fallimenti delle rivoluzioni in Sud America)

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