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Alessandra Coppola
Il numero 103 e gli altri profughi Milano è la porta per l'Europa
3 Maggio 2014
Articoli del 2014
«Era evidente già al principio, al primo passaggio di profughi attraverso l’Italia, la scorsa estate. Adesso è impossibile ignorarlo: la questione non è milanese, né italiana, forse neanche solo europea. Ma certamente va affrontata, a Roma come a Bruxelles». Il Corriere della Sera, 3 maggio 2014 (m.p.r)

«». Il Corriere della Sera

A diciott’anni appena compiuti Abdullah è l’uomo di famiglia, seduto sulle panchine di marmo a consultarsi con gli adulti per la prossima tappa: «Belgio? Olanda?». Allunga un braccio, accarezza la testa di Ibrahim, controlla che non si allontani: «Ha dieci anni - sorridono entrambi - mia madre è laggiù», accovacciata con altre donne. Il padre è rimasto in Siria, «tutto il resto della famiglia è sparso per l’Europa». Sono gli ultimi arrivati, alla stazione Centrale di Milano, e la notte l’hanno passata qui, guancia a terra e coperte di vestiti, nello slargo del mezzanino, perché le strutture di accoglienza sono al collasso e l’afflusso ha preso un ritmo così intenso che il Comune non ne può più. «Il governo è un colabrodo s’affligge l’assessore alle Politiche sociali, Pierfrancesco Majorino -: fino a quando continuerà a ignorare cosa sta succedendo?» .

A Roma qualcosa sanno. E’ stato il Viminale a lanciare «l’allarme sbarchi»: in Siria il conflitto non s’arresta, i profughi arrivati in Egitto sono incoraggiati a prendere il largo, nel caos della Libia è diventato sempre più facile contattare un trafficante e partire. «Eravamo in 500 su una sola nave — racconta un ragazzo col pullover fucsia e la catena d’oro —, così stretti da non poter respirare. In otto sono morti, c’era anche un bambino». I sopravvissuti sono arrivati nel Sud della Sicilia, tre giorni fa, hanno ricevuto un biglietto con un numero e una data: il ragazzo con la collana ha il 103. Hanno raggiunto Catania, che è diventata il principale snodo a Mezzogiorno: un gruppo di volontari, Giovani musulmani soprattutto, cibo e vestiti, una rete di assistenza ormai oliata che permette ai rifugiati in transito di salire su un treno per Milano.

«Grazie a Dio non ci hanno preso le impronte», sottolinea il giovane 103: per il regolamento di Dublino, bisogna fare domanda di asilo nel Paese europeo d’approdo. Ma se non ci sono registri a documentarlo, è più facile varcare la frontiera. «Vorrei andare in Svezia». In tanti l’hanno fatto, Stoccolma riceve 1.500 richieste al mese, «tante quante l’Italia in un anno», ha marcato critico al Corriere il ministro dell’Immigrazione Tobias Billström : anche lì, gli alloggi finiscono, il sistema s’inceppa. Tra i profughi accampati in stazione, circola la voce di un’apertura dell’Austria, al tempo stesso si racconta di qualcuno che si è messo in viaggio il primo maggio ed è già sulla via del ritorno, respinto al Brennero. «Ventimiglia è più sicura?» chiede un ragazzo. Forse, ma pare che la Francia intenda intensificare i controlli sui treni. Restare, partire, riuscire, ancora una volta è una puntata alla roulette, che coinvolge nell’azzardo famiglie intere, e mai come questa volta, tanti bambini. Spiegano che genitori coi figli non s’arrischiavano nei mesi scorsi, per il cattivo tempo. Ma ora che nel Mediterraneo fa bello, ha preso il mare questa donna al quinto mese di gravidanza con due bambini, quest’altra con le lentiggini che è già al settimo, nonne che tengono in braccio neonati, un bimbetto di tre anni e il volto sfigurato che non si stacca dalla gonna della madre.

Era evidente già al principio, al primo passaggio di profughi attraverso l’Italia, la scorsa estate. Adesso è impossibile ignorarlo: la questione non è milanese, né italiana, forse neanche solo europea. Ma certamente va affrontata, a Roma come a Bruxelles.

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