Nessuno si chiami fuori da questo atroce delitto. Meno che meno i governanti della nazione di cui Giulio pensava di essere cittadino, i quali hanno continuato a fare affari con i mandanti dei colpevoli e gli occultatori dei fatti. Forse per obbedire alla Trilateral Cmmission?
la Repubblica, 7 aprile 2017
«Il 25 gennaio del 2016 un giovane ricercatore italiano scompare al Cairo. Il suo corpo viene ritrovato nove giorni dopo. Comincia così il dramma di una famiglia e la lotta di un intero Paese per cercare di capire chi sono gli assassini, chi li ha coperti, chi ha depistato. Ecco la ricostruzione di come si sono svolti i fatti. E, per la prima volta, i nomi degli alti ufficiali egiziani coinvolti nel delitto»
Prologo
Il Cairo, 25 gennaio 2016. Pomeriggio.
Non era un giorno qualsiasi. Né poteva esserlo. Perché quel giorno, cinque anni prima, tutto era cominciato.
Piazza Tahrir. La Rivoluzione. La caduta dell’immarcescibile Regime di Hosni Mubarak. Il sogno di una Primavera che si era trasformata nel suo contrario e aveva spalancato le porte al colpo di Stato militare del generale Abd Al Fattah Al Sisi. A un nuovo inverno di violenza, sopraffazione, sparizioni, delazioni, per piegare ogni forma di dissenso.
Ahmed Abdallah, ingegnere informatico, professore universitario, attivista per i diritti umani e direttore della ong “Egyptian Commission for Rights and Freedoms”, non poteva immaginare che il suo destino stava per cambiare. Esattamente come quello di un ragazzo italiano che avrebbe conosciuto solo da morto. «Quel 25 decisi di non farmi trovare in casa. Erano in corso retate indiscriminate. Gli arrestati venivano trascinati direttamente di fronte a un tribunale speciale, la Corte Suprema della Sicurezza dello Stato. La mattina, la caffetteria che frequentavo quotidianamente, era stata assaltata da uomini armati a bordo di un automobile senza targa. Erano arrivati prima di me, ringraziando Dio. Avevano chiesto se qualcuno mi avesse visto o sapesse dove fossi. E se ne erano andati prima che arrivassi. Durante il giorno era stato imposto una sorta di coprifuoco. Il Regime aveva paura del popolo. Il popolo aveva paura della paranoia del Regime. Quel giorno respiravamo paura».
Alle 19, sulla riva sinistra del Nilo, nell’appartamento all’ultimo dei quattro piani della palazzina di Dokki dove abitava da quattro mesi, Giulio Regeni digitò sul suo portatile una chiave di ricerca su Youtube. “Coldplay. A Rush of blood to the head”. Aveva voglia di ascoltare quel brano che, anni prima, aveva consacrato la band nata a Londra. Giulio si è laureato in Inghilterra prima a Leeds, poi a Cambridge per il Phd con la ricerca sui sindacati nell’Egitto dei Generali.
Le 19. Aveva tempo. Il suo amico Gennaro Gervasio lo aspettava per le 20.30 in una caffetteria non lontana da piazza Tahrir. Tre fermate di metropolitana. Insieme sarebbero andati a cena da un professore che entrambi conoscevano, Kashek Hassamein.
Partì il brano dei Coldplay. Giulio non poteva sapere in cosa fosse precipitato. Né immaginare la profezia che era in quelle strofe.
See me crumble and fall on my face
Mi vedo sgretolare e cadere di faccia
See it all disappear without a trace
Vedo tutto scomparire senza lasciare una traccia
Salutò il suo coinquilino, il giovane avvocato Mohamed El Sayed. E uscì di casa poco prima delle 20.
Per l’ultima volta.
Morgue
Il Cairo, 31 gennaio 2016. Pomeriggio.
Il cellulare di Claudio Regeni vibrò. Era Maurizio Massari, ambasciatore italiano in Egitto.
I genitori di Giulio erano arrivati al Cairo il 30. E vivevano nell’appartamento che Giulio divideva con El Sayed e una tedesca, Juliane Schoki.
Paola e Claudio avevano lasciato Fiumicello in fretta e furia. Senza far parola con nessuno del perché fossero partiti per l’Egitto. Gli avevano consigliato di inventare una scusa. Ci aveva pensato Paola con gli amici: « Giulio non sta tanto bene. Una colica renale o un’appendicite. Se c’è da operarlo, meglio a casa». Aveva messo in valigia quello che riteneva potesse servire. «Dissi a Claudio: “Facciamo vedere che nostro figlio ha una famiglia. Una mamma, un papà. Che non è un ragazzo allo sbando. Quindi, portati la giacca. Io porto la collana”». Aveva pensato anche al rossetto. Ma era rimasto in borsa. «Lo dimenticai, perché normalmente non lo uso. Volevamo fare bella impressione perché all’ambasciata facessero tutto quello che era nelle loro possibilità per ritrovare Giulio».
Massari andò dritto al sodo. « Signori, con il ministro egiziano è andata male. Continua a dire che non sa niente di Giulio, quindi…». « Quindi? » , chiesero. « Quindi abbiamo deciso di dare la notizia all’Ansa. Forse in questo modo la pressione della stampa internazionale potrà smuovere un po’ le cose. Ecco, avete cinque minuti per avvisare casa prima che la notizia esca».
Paola chiamò allora Irene, la figlia più piccola, cinque anni meno di Giulio. Era rimasta a Fiumicello. «Le dissi: “Corri più veloce che puoi a casa e prendi tutto quello che ti serve. Poi, scappa, perché arriveranno i giornalisti”».
Alle 18 e 14 lampeggiò l’urgente dell’Ansa: FARNESINA, SCOMPARSO UN 28ENNE ITALIANO AL CAIRO «L’ambasciata italiana al Cairo e la Farnesina stanno seguendo “con la massima attenzione e preoccupazione” la vicenda di Giulio Regeni, studente italiano di 28 anni sparito “misteriosamente” la sera del 25 gennaio nel centro della capitale egiziana. Gentiloni — si legge in una nota della Farnesina — “ha avuto poco fa un colloquio telefonico con il suo omologo egiziano Sameh Shoukry, al quale ha richiesto con decisione il massimo impegno delle autorità del Cairo, già sensibilizzate dall’Ambasciata, per rintracciare il connazionale e per fornire ogni possibile informazione sulla sue condizioni. Ambasciata e Farnesina sono anche in stretto contatto con i genitori di Giulio”».
2 febbraio 2016. Uffici del ministero dell’Interno. Il Cairo.
Il ministro dell’Interno, Magdy Abdul Ghaffar, aveva ascoltato l’ambasciatore Massari senza muovere un muscolo. A 64 anni, quanti ne aveva, quaranta dei quali trascorsi nei servizi di sicurezza, era l’altro uomo forte del Regime. In silenziosa e ostinata opposizione ad Al Sisi. Se il Presidente poteva contare sulla struttura militare — forze armate e intelligence — Ghaffar controllava la “Stasi” del Medio Oriente, l’occhiuto, onnipresente servizio segreto interno: la National Security, così ribattezzata dopo la rivoluzione di piazza Tahrir in un maquillage che non ne aveva cambiato di una virgola le pratiche. Arresti illegali, torture, sparizioni. Al Sisi non poteva liberarsi di Ghaffar. Ghaffar non poteva fare a meno di Al Sisi. Ma le strutture di spionaggio che facevano capo ai due erano in perenne e paranoica competizione.
Ghaffar conosceva bene Massari, diplomatico cresciuto professionalmente nella Mosca del crollo sovietico e tra Washington e i Balcani, e non gli era sfuggito il modo in cui quel pomeriggio aveva deciso di rompere l’etichetta, tradendo una certa insofferenza. «Per incontrare Ghaffar c’era voluto molto tempo, almeno rispetto alla prassi — ricorda Massari — Non so dire per quanto rimasi seduto di fronte al ministro. Ma non fu una cosa breve. Al Cairo stava per arrivare il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, con una delegazione di nostri imprenditori». L’Eni aveva chiuso l’accordo per lo sfruttamento del giacimento di gas naturale di Zohr, una partita da 10 miliardi di euro. Gli imprenditori — infrastrutture, edilizia, settore creditizio — che accompagnavano la Guidi guardavano al Cairo come una straordinaria opportunità. «Resi esplicito quale imbarazzo provocava al nostro paese la coincidenza tra quella visita e la circostanza che dal 25 gennaio non sapevamo più nulla del nostro Giulio Regeni. Che da otto giorni le autorità egiziane non ci avevano fornito una sola informazione. Non avevo interprete quel giorno. Parlavo in inglese. E ricordo che continuai a ripetere a Ghaffar: “ We want Giulio back, we want Giulio back”. Rivogliamo Giulio” ».
Ghaffar aveva annuito.
Giulio era già stato ucciso.
3 febbraio 2016, casa di Giulio Regeni, Dokki. Il Cairo
Fuori era buio. Il cellulare di Claudio Regeni vibrò. Era Maurizio Massari.
«Buonasera. Sono con il ministro Guidi. Stiamo venendo da voi». Strano. Avrebbero dovuto vedersi il giorno successivo. Racconta Paolo: «Io e mio marito ci guardammo: “ Perché un ministro viene fin qui se avevamo appuntamento per domani?” » . « Due sono le cose: o vogliono farci una bella sorpresa e portarci Giulio, oppure le notizie sono cattive…», rispose Claudio. «Andavo su e giù dalla finestra… Ero molto nervosa. Mi misi persino a spolverare nervosamente il soggiorno, per ingannare l’attesa… Al Cairo entra molta polvere in casa».
Di nuovo il cellulare. Di nuovo Massari. «Disse che erano in ritardo di dieci minuti. Ma, stavolta, aggiunse che non portavano buone notizie. Al che, guardai Claudio e capimmo. Dissi: è già finito tutto. La felicità della nostra famiglia è durata così poco. Pensai che non sarei mai diventata nonna dei figli di Giulio. Perché a Giulio piaceva l’idea di avere dei figli». Suonò il citofono. Massari entrò nell’appartamento insieme con il ministro Guidi. Abbracciarono Paola. Abbracciarono Claudio.
«Avete cinque minuti di tempo per avvisare casa».
3 febbraio 2016, uffici della direzione del Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, Cinecittà. Roma.
Il primo dirigente Vincenzo Nicolì sollevò il telefono al secondo squillo. Aveva fatto notte a discutere di droga. Sul display riconobbe il prefisso del Cairo. Doveva essere quel collega che in ambasciata seguiva le rotte e il traffico di migranti. «Ciao, dimmi». I migranti non c’entravano. « Fu una di quelle telefonate che un poliziotto non dimentica mai. L’ispettore mi informò che era stato trovato il corpo di quel ragazzo scomparso otto giorni prima». La chiamata si sovrappose al cicalio della linea interna con l’ufficio del direttore del servizio, il Questore Renato Cortese. «Vincenzo, vedi che domani mattina devi andare in Procura. Ti aspetta il pm Sergio Colaiocco, il fascicolo sul ragazzo del Cairo è suo. Vuole fare un gruppo di lavoro misto, con i Carabinieri. C’è da capire rapidamente cosa è successo » . Avrebbero lavorato con la sezione antieversione del Ros dei Carabinieri. La comandava un colonnello di cui, a ragion veduta, si diceva un gran bene, Massimiliano Macilenti.
Notte 3- 4 febbraio 2016, Garden City, Cairo.
Ora o mai più. Se c’era una finestra utile per capire cosa fosse accaduto a Giulio, era quella notte. Maurizio Massari era rientrato in ambasciata da casa Regeni intorno alla mezzanotte, soltanto per riuscirne poco dopo. Un’affidabile fonte egiziana — la stessa che lo aveva avvertito qualche ora prima del ritrovamento del corpo di Giulio e che, peraltro, lo aveva conosciuto bene da vivo — gli aveva anche fornito indicazioni sulla morgue in cui era stato trasferito. Voleva vederlo, prima che quel corpo potesse essere manomesso.
Troppe cose non tornavano. E poi, come facevano gli egiziani a essere certi che quel ragazzo occidentale ritrovato per caso da un tassista con l’auto in panne, semi nascosto da un muro di sabbia, lungo la superstrada Il Cairo- Alessandria fosse proprio Giulio Regeni? Attraversò la città deserta. E all’ingresso dell’obitorio convinse i piantoni a consentirgli l’accesso alle celle frigorifere. Ne aprirono una prima. Sbagliata. Quindi, una seconda. « Non avevo mai visto nulla di simile. I segni di tortura erano evidenti. Sul volto, le braccia, le spalle, le gambe e, soprattutto, sul dorso. Non poteva essere opera di altri che non professionisti della tortura». E chi in quel Paese era professionista della tortura?
Paola non poteva prendere sonno. «Con il telefonino andai sul sito di Repubblica. E lessi che Giulio, secondo le prime indiscrezioni raccolte in Egitto, era stato torturato. Sollevai lo sguardo dal telefono e avrei voluto scaraventarlo contro il cassettone che avevo di fronte. Avrei voluto urlare. E in effetti ho urlato. Piano». Ricevette un primo messaggio di condoglianze da un’amica. Usava belle parole. Le rispose di getto: «Grazie, ma Giulio non è soltanto morto. È stato torturato». Poi, scorse la rubrica, e trovò il numero di Maha Abdelrahman. Era la tutor egiziana di Giulio a Cambridge. La docente che aveva concepito la sua ricerca e deciso il suo semestre al Cairo. «Nel mio inglese pasticciato le scrissi: “Ma non lo sapevi che era pericoloso mandarlo in Egitto?”».
*** 4 febbraio 2016, Sala mortuaria dell’ospedale italiano. Il Cairo.
Riconoscimento. La legge lo chiama così. Non si può riconsegnare un corpo ai suoi cari se non ne confermano l’identità. Ma l’ambasciatore non voleva. Non lì almeno, aveva insistito: « Paola, Claudio, ho provveduto io. È meglio se ricordate vostro figlio com’era». Claudio fece per annuire. Paola si impuntò. A metà mattina erano nella sala mortuaria dell’ospedale italiano del Cairo dove il corpo di Giulio era stato trasferito. «Ci trovammo di fronte un sacco. Un sacco bianco. Come quello dei vestiti dell’Ikea. Era chiuso. Chiesi di vedere almeno i piedi, perché quelli di Giulio erano come i miei, quelli di mio padre e del nonno. Abbiamo tutti le stesse dita » . Massari scosse la testa: «Paola, meglio di no. Davvero». Fuori dalla sala c’erano anche due suore. Una delle due le si avvicinò: «Signora, lo sa che ha un figlio martire?». La gomitata dell’altra la interruppe. «Forse pensava non sapessi». Ora toccava ai medici egiziani. Avrebbero effettuato l’autopsia del corpo di Giulio. Poi sarebbero potuti tornare a casa.
6 febbraio 2016, volo Egyptair Il Cairo-Roma.
Quando si viaggia a 13mila piedi di altezza non si pensa mai a quello che si è caricato in stiva. Il bagaglio si affida al check-in e lo si recupera al nastro. Giulio era in stiva. Una bara di legno chiaro, con i sigilli in cera lacca rossi. «Ci avevano assegnato due poltrone in economy. Finché non si avvicinò un’hostess, facendoci segno di spostarci in testa all’aereo, in business. Ci avevano riconosciuto. Tutto l’equipaggio egiziano venne a salutarci » . Claudio ne rimase impressionato: «Piangevano tutti. Si scusarono. Fu un momento, come dire… forte. E loro furono… splendidi » . E poi erano con Giulio. Paola lo sentiva: «Avevamo la percezione fisica che sotto di noi c’era la bara di nostro figlio». «Atterrati a Roma, attendemmo sotto l’aereo che... insomma... scaricassero Giulio. Sì, scaricassero. La parola giusta è questa».
Una prima verità
6 febbraio 2016, pomeriggio, Policlinico universitario Umberto I, Padiglione di radiologia. Roma.
Il pubblico ministero Sergio Colaiocco aveva incaricato della consulenza medico legale sul corpo di Giulio Regeni, il professor Vittorio Fineschi, direttore dell’istituto di medicina legale di Roma. Aveva accolto lui la bara arrivata da Fiumicino. «Con il pm pensammo di far riconoscere il corpo in una sala diversa da quelle usate normalmente. Lontana dall’obitorio. Scegliemmo un padiglione di radiologia. Un luogo più raccolto».
«I medici mi chiesero: “ Signora, avete già visto Giulio?”. Io gli risposi: “ Devo dirvi la verità, no. E vi avrei chiesto di farlo perché altrimenti mi sentirei una vigliacca per il resto della mia vita”». Il corpo, avvolto in un lenzuolo, con il capo fasciato di garze che lasciavano intravedere soltanto l’ovale del viso, era adagiato su una lettiga al centro del padiglione. «Entrati nella stanza riconobbi il naso di Giulio. Fino a quel momento avevo sperato non fosse lui. Che si fossero sbagliati. E invece era lui. Lo riconobbi dalla punta del naso e non avrei mai pensato di riconoscere una persona cara da quel particolare. Mi tornò in mente una domanda che da allora non mi ha mai abbandonato: come avevano fatto le autorità egiziane a essere certe al momento del ritrovamento che fosse mio figlio? Non aveva indosso i documenti. Era semi nudo, trasfigurato, non somigliava neppure lontanamente al ragazzo della fotografia che avevamo consegnato per le ricerche. A una mamma, a un papà bastano pochi particolari. Ma come avevano fatto degli estranei a riconoscerlo?».
6 febbraio 2016, notte. Sala settoria, Policlinico universitario Umberto I. Roma.
Il professor Fineschi, la sua équipe, i medici incaricati dalla famiglia, lavorarono sul corpo di Giulio per oltre otto ore. Apparve una lavagna dell’orrore. Gli avevano spezzato un polso, le scapole, l’omero destro, le dita di entrambe le mani e piedi, i peroni erano come esplosi, la bocca era offesa dalle lesioni provocate dalla rottura di numerosi denti. La cute era segnata da tagli e bruciature. E chi si era accanito su quel ragazzo lo aveva segnato come si fa con le bestie, come nell’orrore nazista, incidendo lettere dell’alfabeto sul dorso, all’altezza dell’occhio destro, a lato del sopracciglio. Sulla mano sinistra e sulla fronte.
Giulio era stato finito da un’ultima violenza. Una torsione improvvisa e letale delle vertebre cervicali. Il che suggeriva più che un’ultima tortura, un’esecuzione. Era un ulteriore dato che scioglieva ogni dubbio. E che avrebbe potuto far concludere al professor Fineschi: «Le lesioni sul corpo di Giulio erano state inflitte in tempi significativamente diversi, nell’arco di giorni » . Giulio, dunque, era stato torturato con metodo. Alternando violenza a sospensione. « Era ipotizzabile che lo avessero colpito con calci, pugni, bastoni, mazze. Scaraventandolo ripetutamente contro muri o pavimenti. Il corpo di quel ragazzo ci aveva raccontato tutto quello che poteva testimoniare».
La ricerca della verità cominciava da qui. È vero, quell’autopsia non indicava il nome degli assassini, ma ne definiva il profilo (professionisti della tortura). Lo sapevano il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e il sostituto Sergio Colaiocco. Ne erano consapevoli il colonnello Massimiliano Macilenti e il primo dirigente Vincenzo Nicolì. «Le lesioni sul corpo di Giulio escludevano una serie di ipotesi investigative. La morte di quel ragazzo non era riconducibile a una vicenda di carattere personale. Non era opera di una persona sola. E che Giulio fosse stato poi torturato in tempi diversi offriva un’ulteriore, cruciale, indicazione. Chi lo aveva sequestrato aveva avuto a sua disposizione un luogo in cui agire indisturbato per giorni, con la tranquillità di non essere trovato. Insomma, avevamo la certezza di trovarci di fronte a una struttura organizzata. Sicuramente di tipo statale o parastatale. L’indagine si complicava».
La Macchinazione
Notte tra il 5 e il 6 febbraio 2016, Aeroporto Mar al-Qhirah al-Duwaliyy. Cairo.
Il piccolo corteo di auto che aveva lasciato l’aeroporto procedeva a fatica verso la palazzina liberty di Garden City, sede dell’ambasciata italiana. L’ispettore dello Sco Alessandro Gallo, uno dei sette, tra poliziotti e carabinieri, della squadra investigativa arrivata da Roma, osservava il traffico impazzito della città. Era la prima volta che metteva piede in Egitto. «Non esistevano accordi di cooperazione, e gli apparati egiziani avrebbero dovuto aiutarci a scoprire gli autori di un omicidio per il quale i principali indiziati erano proprio appartenenti a quegli apparati». La strada era tutta in salita. E i sette ne ebbero la conferma entrando in ambasciata.
Erano stati istruiti a non usare telefoni cellulari nelle comunicazioni con Roma. A non agganciarsi ad alcuna sorgente wi-fi pubblica o in luoghi aperti al pubblico. Ma ora scoprivano che avrebbero dovuto, anche, imparare a riconoscere i luoghi e gli spazi in cui parlare tra di loro. Anche l’ambasciata, infatti, non era terreno franco. Il lato est del villino confinava con condomini ad alveare, dagli appartamenti per lo più abitati. Con un’eccezione. Due case dalle finestre cielo-terra, le cui luci non si accendevano mai. E curiosamente coincidenti, in altezza, con gli uffici dell’ambasciata. In linea d’area, poco meno di un centinaio di metri. Una distanza irrisoria per dei microfoni direzionali. Persino Massari evitava di avere incontri nei saloni che davano su quel lato dell’ambasciata. E aveva l’abitudine di liberarsi del cellulare una volta rientrato nei suoi uffici.
8 febbraio 2016, Ministero della Sicurezza Nazionale. Il Cairo
Il ministro dell’Interno, Maghdi Abdel Ghaffar, sedeva da solo al centro di un grande tavolo alla cui estremità si era sistemato un interprete. Di fronte a lui una folla di giornalisti, per lo più italiani, si chiedeva se il Regime avrebbe messo un punto fermo in quella storia. E quale. Non era un dettaglio. Quando si decide di parlare, inevitabilmente, ci si impegna a una versione dei fatti. E le autorità egiziane lo avevano, sin lì, evitato. Fatto salvo ciò che aveva raccontato, nell’immediatezza del ritrovamento del corpo di Giulio, Khaled Shalaby, capo della Polizia criminale e del Dipartimento investigativo di Giza. Un tipo con precedenti per tortura e un forte peso specifico negli apparati. «Un incidente stradale», aveva detto, liquidando le prime domande sulle circostanze della morte.
Ebbene, quella mattina, il ministro Ghaffar decise di usare un format che avrebbe riproposto per mesi. Evitare di spiegare ciò che era successo, preferendo sostenere ciò che non lo era. «Non conoscevamo Giulio Regeni. Non esistevano indagini a suo carico. Non era mai stato arrestato dalla Polizia né fermato. Non riteniamo si trattasse di un agente segreto, e respingiamo ogni “rumor” o accusa che indichino che sia stato torturato da appartenenti agli apparati della sicurezza del nostro paese. Fino a quando non saranno completati gli accertamenti medico-legali e non avremo sentito tutte le persone che questo ragazzo frequentava al Cairo, quel che viene detto è solo speculazione. La verità è che in Egitto non si tortura e che della morte di Regeni sono incerte sia le circostanze sia il movente. Posso rassicurare che la delegazione italiana che si trova al Cairo per partecipare all’inchiesta viene informata minuto per minuto su tutti i dettagli delle indagini».
I rumors. La stampa filo regime egiziana ne traboccava. Perché strumentali ad accreditare una contro narrazione che consegnasse Giulio a una storia che non era la sua. Un drogato, un omosessuale, uno spacciatore, una spia per conto della Gran Bretagna, quanto meno uno sprovveduto che si era messo nei guai da solo. Peraltro, quella vicenda delle indagini congiunte aveva subito assunto un tratto farsesco. I sette della squadra arrivata da Roma lo capirono alla prima stretta di mano con quelli che sarebbero stati i loro interlocutori per i successivi tre mesi. L’ufficiale della National Security, il servizio segreto interno competente per i reati politici e il terrorismo, che li aveva accolti si era presentato come «colonnello Osan Helmy». Quel poco che aveva aggiunto chiudeva l’indagine prima ancora che si aprisse. «Per noi Giulio Regeni è uno sconosciuto. Nessuno dei nostri uffici si è mai occupato di lui. Bisogna cercare altrove», aveva detto.
24 marzo, Aeroporto Mar al-Qhirah al- Duwaliyy. Cairo.
Alessandro Gallo consegnò la sua carta di imbarco al gate e mostrò il passaporto, mentre gli altri sei colleghi che erano con lui avevano già preso posto nel pullman che li portava all’aereo.
Tornavano a casa. Almeno per Pasqua. Un permesso di qualche giorno. Tanto, non c’era fretta. Se n’erano andati poco meno di due mesi e le tessere del complicato mosaico che erano riusciti a mettere insieme erano costate uno sforzo estenuante. Gli egiziani continuavano a non fornire dati investigativi cruciali. Tabulati telefonici, immagini delle telecamere di sorveglianza delle stazioni della metropolitana dove Giulio era scomparso, testimonianze che non rispondessero a un liso copione di «non so», «non ricordo», «non notai nulla di anormale».
A voler essere brutali avevano solo “prove negative”. Sapevano cioè soltanto ciò che Giulio non era. E ciò che a Giulio non era successo. Sapevano che Giulio Regeni non era stato sequestrato né in casa né nel tragitto che, tra le 19.30 e le 20, del 25 gennaio, aveva percorso a piedi per raggiungere la stazione della metropolitana di El Behoos. Sapevano che alle 19.38 aveva parlato al telefono con il professor Gennaro Gervasio, confermandogli il loro appuntamento, di lì a poco, in una caffetteria non lontana da piazza Tahrir per raggiungere insieme la cena di compleanno del professor Kashek Hassamein.
Sapevano che alle 19.41 aveva avvertito la fidanzata ucraina che quella sera, non avrebbero potuto fare la consueta video chiamata su Skype.
Sapevano che alle 19.58 il suo telefono aveva squillato a vuoto, che alle 20.02 aveva agganciato la rete dati della metropolitana, prima di spegnersi per sempre.
Sapevano che non era morto in un incidente stradale, né per vendetta personale.
Sapevano che non aveva nulla a che fare con gli stupefacenti, di cui peraltro non faceva alcun consumo come avevano documentato gli esami tossicologici svolti durante la sua autopsia.
Sapevano che non era una spia, e che non aveva mai avuto contatti con agenzie di intelligence di qualsiasi Paese, alleato o terzo.
Sapevano che sulle uniche due figure di interesse investigativo di quei primi 60 giorni di inchiesta gli egiziani avevano giocato opaco. Per dirne una: chi diavolo era davvero Mohammed Abdallah, il leader del sindacato degli ambulanti con cui Giulio, almeno a partire dall’ottobre 2015, aveva avuto rapporti di una certa assiduità e che era tra le ultime persone contattate a ridosso della scomparsa? La testimonianza che il tipo aveva reso alla polizia egiziana era stata fin troppo sbrigativa e generica. Come avesse fretta di farsi dimenticare.
E ancora: che parte aveva avuto Mohamed El Sayed, il coinquilino della casa di Dokki? Lavorando sotto traccia, avevano accertato che durante le vacanze di Natale 2015, durante l’assenza dal Cairo di Giulio, rientrato in Italia, El Sayed aveva ricevuto nell’appartamento la visita di un ufficiale della National Security, intenzionato a ficcare il naso nella stanza e nelle cose di Giulio. Curioso, per apparati che continuavano a smentire di essere mai inciampati nel nome del ricercatore italiano prima della sua scomparsa. E che peraltro continuavano a rimbalzare la richiesta dei tabulati telefonici di quei due tipi, l’avvocato e l’ambulante. Perché non consegnarli se erano “innocui”?
Del resto, l’indagine italiana al Cairo aveva autonomamente acquisito una testimonianza che confermava come la traccia dell’ambulante promettesse bene. Quella di Hoda Kamel, direttrice del “Egyptian Center for Economic and social rights”. Giulio le era stato raccomandato per la ricerca che stava facendo da Fatma Ramadan, docente dell’università americana al Cairo, alla quale era arrivato su segnalazione di Maah Abdelrahman, la sua tutor a Cambridge. Era stata Hoda poi a metterlo in contatto con Mohammed Abdallah. All’inizio il rapporto con l’ambulante aveva funzionato. Poi, si era complicato. Colpa di un finanziamento da 10 mila sterline, messo a disposizione dalla fondazione Antipode e destinato ai paesi in via di sviluppo, per un progetto di ricerca della cui esistenza Giulio aveva parlato ad Abdallah. Cosa che lo aveva prima ingolosito e poi gonfiato di risentimento. Quando era apparso chiaro che quel denaro non sarebbe mai potuto arrivare né a lui né al sindacato. «Penso che quella vicenda possa in qualche modo aver giocato nel definire i presupposti di quello che è accaduto — aveva raccontato la Kamel — Quelle incomprensioni potrebbero essere state alla base sia di una vendetta di Abdallah nei confronti di Giulio, ovvero l’occasione che le autorità hanno avuto per arrestarlo » . Non fosse altro perché anche la Kamel sapeva quello che al Cairo era il segreto di Pulcinella. Gli ambulanti lavorano regolarmente come informatori della Polizia e dei Servizi. Sono l’occhio e l’orecchio del Regime.
L’ispettore Alessandro Gallo aveva ormai raggiunto la scaletta dell’aereo per l’Italia e il cellulare si era messo a vibrare. Era Nicolì. «Ale, stammi a sentire, lo so che tu e i ragazzi state salendo su quel benedetto aereo, ma ora mi fate la cortesia di tornare indietro ». «Cosa?». «Gli egiziani sostengono di aver trovato gli assassini di Regeni». «Vivi o morti?».«Parlano di un conflitto a fuoco». «Immaginavo».
Una cruenta messa in scena
24 marzo, Roma, uffici dello Sco. Notte
Il primo dirigente Vincenzo Nicolì guardò negli occhi Renato Cortese, il capo dello Sco. Era arrivato dal Cairo il dettaglio di quella che gli egiziani consideravano la conclusione del caso. Cinque predoni a bordo di un pulmino bianco affiancati a un semaforo durante un controllo di routine. Un accenno di reazione. Un conflitto a fuoco. La morte di tutti i sospetti. Quindi, la perquisizione nella casa di quello che si voleva fosse il capo della banda, Tarek Saad Abde El Fattah Ismail. E qui, la sorpresa: da una borsa rossa da calcio, con lo scudetto tricolore della nazionale italiana, erano saltati fuori il passaporto di Giulio Regeni, il suo badge dell’università dell’American University of Cairo, il suo bancomat, il portafoglio, degli occhiali da sole e una pallina di una sostanza marroncina. Hashish, presumibilmente.
Cortese non diede il tempo a Nicolì di parlare. «So quello che mi vuoi dire. Lo penso anche io. Nessun bandito al mondo si sognerebbe di tenere nella sua abitazione la pistola fumante, il collegamento tra lui e un caso di omicidio di cui si sta occupando tutto il mondo. Hai ragione, Vincenzo. Questa storia sta in piedi come un sacco vuoto ».
8 aprile, Procura della Repubblica di Roma, palazzina B, ufficio del sostituto procuratore Sergio Colaiocco
Nella stanza del dottor Colaiocco erano arrivati il colonnello Macilenti del Ros e Nicolì per lo Sco. Le cose si mettevano male. I due giorni di vertice con i magistrati della Procura generale del Cairo, che aveva avocato le indagini, e gli investigatori egiziani si erano risolti in un catastrofico fallimento. Il Governo aveva richiamato per consultazioni l’ambasciatore, Maurizio Massari, congelando di fatto i rapporti diplomatici tra Roma e il Cairo. Davanti a loro c’era il nulla.
«Dipende», disse Colaiocco. «Dipende da dove la vogliamo guardare». Se la si guardava partendo da ciò che mancava e che gli egiziani avevano deciso di non consegnare — tabulati telefonici, sviluppo delle celle interessate la sera del 25 dal tragitto che ragionevolmente Giulio aveva percorso prima di scomparire, i filmati dei circuiti di sorveglianza della metropolitana — non si andava da nes-suna parte. Se invece la si guardava partendo dall’unica cosa che gli egiziani avevano messo al centro del tavolo — la banda dei cinque — era possibile far rientrare dalla finestra ciò che gli apparati del Regime avevano fatto uscire dalla porta. E questo perché se — come tutto lasciava supporre — la storia della banda era una messa in scena, scoprire chi l’aveva architettata significava avvicinarsi agli assassini di Regeni, che da quel depistaggio dovevano essere coperti.
24 aprile, Il Cairo, casa di Ahmed Abdallah
Erano le tre di notte e lo svegliarono prima il rumore del calcio dei mitra battuti sulla porta di ingresso e quindi le urla di una decina di poliziotti in passamontagna che lo buttarono giù dal letto. Il professor Ahmed Abdallah di alcuni riconobbe le uniformi delle forze speciali. Di altri, in borghese, i modi tipici degli agenti della National security, il servizio segreto interno. Da due mesi la sua Ong aveva accettato la consulenza legale per la famiglia Regeni. Ora, lui, ne pagava il conto.
«Chiesi se avessero un mandato di perquisizione. Non mi risposero neppure. Mi sequestrarono il cellulare, perquisirono tutta la casa, infilarono in una borsa alcuni cd che documentavano la mia attività di ambientalista. Quindi mi trascinarono in una stazione di polizia. Qui mi mostrarono alcuni documenti, chiaramente contraffatti, che incitavano a manifestazioni di piazza contro la vendita ai sauditi delle isole di Tiran e Sanafir. Dissi: “Se volete arrestarmi per un reato specifico, contestatemelo. Ma non parlatemi di questi documenti perché non mi appartengono”» .
Gli comunicarono che era accusato di terrorismo, insurrezione e attentato alla sicurezza dello Stato. Rischiava la pena di morte. «Mi misero prima in una piccola cella con altri 12 detenuti, dove ero obbligato a stare in piedi 12 ore al giorno, con la possibilità di dormire al massimo 4 ore. Continuavo a svenire e non riuscivo a tenermi in equilibrio. Poi fui trasferito in una cella di isolamento, buia e con un buco in terra che serviva da gabinetto». L’ufficiale che quella notte aveva firmato le accuse che giustificavano il suo arresto aveva un nome che in quel momento non gli diceva nulla. Ma che molto avrebbe detto in seguito. Il colonnello Sharif Magdi Ibrqaim Abdalaal.
La mano del colonnello Mahmud
8 giugno, uffici dello Sco
Allo Sco e al Ros ne erano venuti a capo. Aveva ragione il dottor Colaiocco. La storia della banda era una messa in scena che portava dove gli egiziani mai avrebbero voluto. Gli esami balistici sul pulmino e quelli autoptici sui cadaveri dei suoi cinque passeggeri disposti dalla magistratura egiziana documentavano tre circostanze incontrovertibili. La prima: le cinque vittime erano state uccise con colpi esplosi a bruciapelo dietro la nuca. Incompatibili, dunque, con una qualunque dinamica di conflitto a fuoco. La seconda: tutti i colpi esplosi dalla Polizia avevano raggiunto il pulmino frontalmente. Il che era incompatibile con la dinamica che vedeva una pattuglia aver fatto fuoco durante un affiancamento. La terza: nell’abitacolo del pulmino non c’erano tracce di sangue. Dunque, i cadaveri vi erano stati trascinati.
Di più: Tarek Saad Abde El Fattah Ismail, il capo della banda, il 25 gennaio non era nella zona del Cairo in cui Giulio era scomparso. Il suo telefono cellulare aveva agganciato — alle 16.00, alle 17.33 e alle 20.32 — una cella dell’area di Awlad Saqr, regione a nord della capitale egiziana.
Restava una domanda: come ci erano finiti i documenti di Giulio nella casa del bandito? Chi ce li aveva portati? Rispondere avrebbe fatto fare alla ricerca degli autori dell’omicidio di Giulio un significativo passo avanti.
Era arrivato in soccorso un testimone che aveva riferito una circostanza che neppure lui poteva immaginare così cruciale. Il giorno della perquisizione dell’abitazione di Tarek Saad Abdel Fattah Ismail, un parente del bandito aveva distintamente visto un ufficiale del Dipartimento investigazioni criminali estrarre dalla propria tasca i documenti del ragazzo italiano che sarebbero poi stati ritrovati nella borsa da calcio rossa. Quell’ufficiale aveva un nome. Il colonnello Mahmud Hendy.
Lo svelamento
9 settembre, Istituto superiore di pubblica sicurezza, via Guido Reni, Roma
Erano tornati in visita a Roma, i magistrati egiziani. Gli apparati della sicurezza del Regime erano in un angolo. Lo svelamento della macchinazione della banda dei cinque li costringeva a muovere. La Procura di Roma sapeva che la National security era dietro la messa in scena del 24 marzo. E, avendo sviluppato autonomamente i pochi tabulati ricevuti dal Cairo, era anche in grado di dimostrare che il coinquilino di Giulio, l’avvocato Mohamed El Sayed, era stato in contatto con almeno due funzionari della stessa National Security, nelle settimane che avevano preceduto la sua scomparsa.
Ce n’era abbastanza per costringerli a non arrivare a mani vuote. E infatti la procura generale del Cairo lasciò cadere sul tavolo dei colleghi italiani un lungo verbale di interrogatorio datato 10 maggio. La chiave per venire a capo del rebus. Documentava il pieno coinvolgimento degli apparati di sicurezza egiziani e la menzogna del ministro dell’Interno, Abdel Ghaffar, che li aveva coperti. Dimostrava l’ultimo disperato tentativo del Cairo di sequestrare la verità. Da maggio a settembre quel verbale era rimasto in un cassetto della procura generale egiziana. Ora ne saltava fuori. Probabilmente perché il Regime non aveva più scelta. Qualche pedina andava sacrificata.
Nel verbale era raccolta la confessione di Mohammed Abdallah, l’ambulante di cui Giulio si era fidato e che lui aveva tradito. Un ex giornalista di gossip. Soprattutto, un informatore della Polizia. « Mi chiamo Mohammed Abdullah Saeed, ho 44 anni. Sono un rappresentante dei venditori ambulanti. Nel dicembre del 2015 mi ha chiamato la dottoressa Hoda Kamel per dirmi che c’era un ricercatore che doveva eseguire un dottorato sui venditori ambulanti e mi ha chiesto di incontrarci per vedere in che modo potevamo aiutarci a vicenda: era Giulio Regeni… » . Abdallah riferiva di aver incontrato Giulio almeno sette volte, tra il tardo autunno 2015 e il gennaio 2016. Per portarlo ai mercati Ramses. Per fargli toccare con mano l’oggetto della sua ricerca. Per tirarlo in trappola.
Non aveva importanza se fosse vero o meno che la decisione di tradirlo fosse stata una vendetta per il denaro della ricerca che Giulio gli aveva paventato e che aveva capito non avrebbe mai ottenuto. O, più semplicemente, perché consegnare un’asserita spia alla vigilia del 25 gennaio gli avrebbe fatto guadagnare qualche tipo di ricompensa dal Regime. Ciò che aveva importanza è quanto Abdallah raccontava fosse accaduto tra dicembre 2015 e il 6 gennaio 2016. Aveva prima denunciato Giulio come spia alla Polizia municipale, che aveva quindi trasmesso la pratica alla National security. « Il 4 gennaio venni chiamato dal mio contatto negli uffici della sede centrale del Servizio. Mi chiese di avvertirlo quando avessi rincontrato il ragazzo italiano. Lo feci il 5 gennaio. Mi diedero una telecamera e un microfono con cui registrare clandestinamente il nostro incontro » . Abdallah, del suo contatto al Servizio, ricordava il nome. Il colonnello Sharif Magdi Ibrqaim Abdlaal.
“Il ragazzo è partito”
6 gennaio, Il Cairo, mercati Ramses
Il 6 gennaio, ai mercati Ramses, Giulio Regeni si offrì inconsapevole all’occhio elettronico e al microfono nascosti che lo condannavano di fronte alla paranoia della National Security. Intorno alle 22.30 di quella notte, dopo averlo salutato, Mohammed Abdallah chiamò il colonnello Sharif, il suo referente al Servizio: «Pronto Signore… Con il suo permesso vorrei essere contattato urgentemente da qualcuno per questa cosa che ho… Ho paura di spegnerla, di cancellare qualcosa… Vorrei sapere come spegnerla. Vorrei che qualcuno mi chiamasse per questa cosa qui. La spengo o la lascio accesa? Il ragazzo è appena partito».
Il 6 gennaio 2016 Giulio Regeni aveva cominciato a morire. E il Procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e il sostituto Sergio Colaiocco avevano ora in mano il bandolo della matassa.
Epilogo
13 marzo 2017, Roma, Piazzale Clodio, Uffici della Procura della Repubblica
Sergio Colaiocco rilesse un’ultima volta il testo della rogatoria che si preparava a notificare alla procura generale del Cairo. Gli uomini del team investigativo si erano avvicendati. E allo Sco era arrivato dalla mobile di Bari un altro sbirro di lungo corso, Luigi Rinella. Il risultato del lavoro non cambiava. Anzi, rafforzava il quadro di sistematico depistaggio della ricerca della verità da parte di appartenenti degli apparati di sicurezza del Regime. Gli ultimi accertamenti tecnici dell’inchiesta italiana documentavano, infatti, attraverso lo sviluppo dei tabulati di almeno una decina tra ufficiali e sottoufficiali del Servizio segreto, che la mano della National security era intervenuta in tutti i capitoli di quella storia.
La National Security aveva arruolato Mohammed Abdallah per incastrare Giulio Regeni. E cinque erano stati i referenti dell’ambulante nel quartier generale del Servizio, a Nasr City. Per giunta, uno di loro era il colonnello Osam Helmy, lo stesso ufficiale che un anno prima aveva accolto la squadra investigativa italiana arrivata al Cairo negando che l’intelligence egiziana avesse mai avuto a che fare con il ricercatore italiano.
La National Security era entrata nella casa di Giulio agganciando il coinquilino di cui lui si fidava. E non era avventuroso immaginare che se qualcuno la sera del 25 aveva avvisato il Servizio del momento in cui era uscito di casa, quello non potesse che essere il giovane avvocato Mohammed El Sayed. La National Security aveva partecipato alla messa in scena del 24 marzo. I due gruppi di ufficiali del Servizio, responsabili del depistaggio e dei rapporti con l’ambulante Abdallah, erano stati costantemente in contatto tra loro, come ora documentavano i tabulati telefonici consegnati dalla procura generale del Cairo e sviluppati dall’inchiesta italiana.
Le indagini difensive dell’avvocato Alessandra Ballerini avevano svelato tre ulteriori dettagli. A loro modo cruciali. Il primo: il colonnello della National Security Sharif Magdi Ibrqaim Abdlaal, che aveva coordinato l’operazione di spionaggio su Giulio, era lo stesso che aveva falsamente accusato e arrestato Ahmed Abdallah, il consulente della famiglia Regeni. Il secondo: lo stesso Sharif aveva agganciato nelle settimane precedenti la scomparsa amici egiziani di Giulio di cui Giulio si era fidato.
Il terzo: era stato il colonnello Mahmud Hendy l’ufficiale che aveva collocato i documenti di Giulio nella casa del capo della banda dei cinque eliminati il 24 marzo.
Si poteva dunque tirare finalmente una riga.
« Questo ufficio, alla luce delle risultanze sin qui acquisite, ritiene che Giulio Regeni, denunciato da Mohammed Abdallah prima del dicembre 2015, sia stato oggetto di accertamenti, per un non breve periodo, ad opera di ufficiali degli apparati di sicurezza egiziani. Questi ultimi, nel ricostruire le indagini effettuate, hanno riferito, tra molte reticenze, fatti non conformi al vero. Orbene, il perimetro investigativo che conduce ad apparati pubblici, rafforzato dagli accertati rapporti tra coloro che hanno rinvenuto i documenti di Regeni e coloro che lo avevano attenzionato nel gennaio precedente, appare non in contrasto con la circostanza che i soggetti responsabili dei fatti dovevano disporre di un luogo di detenzione dove Giulio Regeni è rimasto sequestrato almeno una settimana e che detto luogo doveva avere una doppia caratteristica: essere idoneo alle torture che sono state riscontrate e che tali torture fossero inflitte senza che terzi estranei ne venissero a conoscenza» .
C’erano voluti 14 mesi per poter mettere nero su bianco in un documento ufficiale le prove che inchiodavano alle loro responsabilità gli apparati del Regime. E che interpellavano i suoi due uomini forti: il ministero dell’Interno, Ghaffar, il Presidente Al Sisi.
Il muro di sabbia cominciava a sbriciolarsi.
*** In Egitto continuano a scomparire non meno di due innocenti al giorno.