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Nadia Urbinati
Il Muro dell’Occidente contro i poveri del mondo
6 Settembre 2008
Capitalismo oggi
L’incapacità di affrontare in modo ragionevole i problemi della povertà nel mondo (che peraltro richiederebbe un impegno rivoluzionario) si ritorce contro il Primo mondo. LaRepubblica, 6 settembre 2008

Le recenti parole del Papa di compassione per le tragedie nelle quali sempre più spesso si concludono i tentativi degli immigranti di approdare alle nostre coste e di appello ai paesi occidentali affinché mettano in atto politiche di soccorso sono un invito a criticare le scelte di quei governi europei che come il nostro hanno imboccato la strada della criminalizzazione dell’immigrazione indesiderata (di quelle persone che provengono dai paesi più diseredati). Parole che dovrebbero stimolare i democratici a interrogarsi sulle contraddizioni delle politiche di chiusura delle frontiere e la necessità di prestare al fenomeno migratorio una maggiore e più qualificata attenzione. Queste migrazioni bibliche – il fenomeno forse più drammatico del nuovo secolo – mettono a nudo le tensioni nelle quali si dibattono la cultura liberale e quella democratica. Gli immigrati, senza dubbio quelli che aspirano a un lavoro e una vita dignitosa, prendono sul serio la promessa del liberalismo sulla quale le società che ora li respingono sono sorte: l’impegno individuale come condizione per la realizzazione sociale.

Le migrazioni transnazionali e l’interdipendenza globale sfidano il liberalismo dei paesi occidentali che si fa via via più nazionale e meno universalistico. Sfidano inoltre la sovranità e i confini degli stati, che ora vengono pattugliati non soltanto con leggi e polizia ma anche con una vergognosa ideologia xenofobica e razzista. La frizione tra universalismo e cultura morale dell’accoglienza, valori che la democrazia e il liberalismo coltivano naturalmente, e identità nazionalistica può avere effetti potenzialmente esplosivi se è vero che un continente come l’Europa, che aspira a diventare il faro della moralità cosmopolita e dei valori democratici, si fa quasi fortezza per difendere la propria civilizzazione contro i boat people, disperati che cercano di sopravvivere sfuggendo alla fame e agli abusi.

Le migrazioni mettono a nudo due problemi, uno dei quali chiama in causa questioni di giustizia distributiva e l’altro questioni di giustizia politica. Circa il primo problema, è un fatto che nessun codice internazionale e nessuna convenzione accorda a questi disperati lo status di rifugiati. I paesi democratici non riconoscono l’indigenza come forma di persecuzione che necessita di un impegno concreto, non soltanto morale, per attuare politiche di riequilibrio economico e di giustizia redistributiva a livello globale. Infine, è altresì vero che la definizione minimalista della democrazia alla quale ufficialmente si attengono le democrazie occidentali è cieca nei confronti di regimi che sono di fatto oligarchie rapaci anche se formalmente praticano elezioni politiche. In queste circostanze, ha scritto lo studioso australiano Robert Goodin, è inevitabile che fino a quando i beni non circoleranno equamente, saranno le persone a dover circolare per andarli a cercare laddove si trovano in abbondanza, poiché ogni persona ha il diritto di fare tutto quanto è in suo potere per poter sopravvivere. L’unica soluzione a questa che è una vera tragedia umanitaria è appunto che i paesi del primo mondo adottino politiche globali di giustizia redistributiva. Diversamente non possono stupirsi di essere la meta obbligata alla quale tendono tanti disperati della terra.

Ma c’è un problema ulteriore, questa volta relativo alle conseguenze che le politiche nazionalistiche possono avere sullo stato della nostra democrazia. Più che di un problema si tratta in effetti di un rischio, il quale non viene purtroppo messo in luce come dovrebbe: il rischio è che per perseguire politiche radicali di esclusione, e perfino di criminalizzazione, i paesi democratici finiscano fatalmente per fagocitare inoltre una cultura della violenza e della discriminazione che mette a repentaglio il loro stesso ordine politico. È per questo importante la proposta di Walter Veltroni di concedere il voto amministrativo agli immigrati residenti perché fa del tema dell’immigrazione un capitolo del problema dell’integrazione politica, non più solo della sicurezza.

È chiaro che nessun paese, nemmeno un paese autoritario, riesce a chiudere ermeticamente le proprie frontiere. Le frontiere sono di fatto sempre porose. La differenza fra regimi politici dipende da come la porosità viene ostacolata e regolata. Contrariamente ai paesi autoritari che non hanno grandi problemi a criminalizzare l’entrata (e molto spesso anche l’uscita) a loro discrezione, i paesi democratici non possono con la stessa arbitraria leggerezza adottare leggi liberticide per escludere (le pressioni dell’opposizione parlamentare e della Ue hanno indotto il governo italiano a moderare le norme sulla schedatura dei rom e degli extracomunitari). La democraticità degli stati democratici viaggia sul crinale di questa insanabile contraddizione, perché più un paese democratico irrigidisce le proprie politiche di accoglienza, più esso compromette i suoi propri principi e quindi anche il grado di libertà dei suoi cittadini. Come a dire che l’illibertà verso gli altri ricade su di noi perché ci rende immancabilmente illiberali verso noi stessi. Le politiche repressive creano più problemi di quanti non ne risolvono, anche se la loro spettacolarità può avere consenso d’opinione. Un progetto politico che si definisca democratico dovrebbe avere ben chiara questa contraddizione e comprendere che le strategie di giustizia redistributiva a livello globale e quelle di integrazione politica a livello nazionale sono la strada obbligata se vogliamo difendere il tenore delle nostre democrazie.

Ma l’appello del Papa all’Europa affinché accolga gli "irregolari" suggerisce un’ulteriore riflessione che si riallaccia a quanto ha scritto Ezio Mauro su questo giornale a proposito della funzione precettistica della chiesa. Sembra che la politica non abbia la forza di iniziare autonomamente un discorso di giustizia su questioni cruciali e controverse. Sembra che solo la cultura religiosa abbia il vocabolario che consenta a tutti noi di parlare di giustizia e di dignità. Eppure la cultura politica, quella democratica e liberale, ha principi, valori e parole capaci a sviluppare argomenti di giustizia altrettanto cogenti e forti. Il fatto è che chi opera nella sfera politica non usa questo linguaggio con altrettanta forza e autorevolezza di chi opera nella sfera religiosa. È forse una sbagliata nozione di opportunità politica più che la povertà del linguaggio politico ad entrare in gioco quando la politica resta muta o timida; l’idea che per parlare la politica abbia prima bisogno di sapere da quale parte sta l’opinione della maggioranza per seguirla o non scontentarla. Ma la politica è creazione di opinione non addomesticata adesione all’opinione corrente; è capacità e coraggio di influire sul giudizio politico dei cittadini, di operare affinché si determinino cambiamenti nell’opinione. Ecco perché insieme ai diritti di libertà e alla giustizia, dietro alla politica delle frontiere e dell’integrazione c’è in gioco la dignità della politica.

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