Un ficcante articolo scritto per chi ritiene che «l’obiettivo fondamentale sia ricompattare il centrosinistra: discutere sui contenuti, ma per tornare uniti al governo del Paese» come ai bei tempi di Monti e Prodi.
La Repubblica, 24 luglio 2017
È DAVVERO una sinistra morente, quella che considera “mortale” l’abbraccio tra Giuliano Pisapia e Maria Elena Boschi. Come se quella foto scattata alla festa dell’Unità non fosse un semplice gesto di cortesia tra due personalità che pur sapendo di avere idee diverse su tante cose, sanno anche di appartenere a una stessa famiglia politica. Ma fosse invece la prova di un tradimento identitario da parte del leader destinato a guidare il Campo Progressista, che ha l’ardore e l’ardire di cingere la spalla della madrina della riforma costituzionale del governo Renzi. L’immagine di una contaminazione non solo culturale, ma addirittura antropologica, che la purezza della sinistra non può tollerare. Oggi nella lotta irriducibile contro il renzismo, come ieri nella battaglia irrinunciabile contro il berlusconismo.
Bisogna dirlo, con onestà. Renzi fa poco o nulla, per trovare un terreno comune con tutto quello che si muove a sinistra del Pd. Il manifesto macroniano del segretario appena uscito in libreria non ha certo alzato il livello del dibattito, ma semmai ha solo sparso nuovo sale sulle vecchie ferite, tra bordate contro Bersani e strali contro D’Alema, ironie contro Prodi e veleni contro Letta. La disfatta referendaria non ha prodotto nessun cambiamento di linea nel partito, che in un contesto neo-proporzionale si crogiola nel mito ostinato dell’autosufficienza. La conferenza programmatica a ottobre offerta a Orlando e un paio di poltrone in segreteria concesse a Emiliano sono solo un beffardo “brodino” propinato a una minoranza malaticcia e sempre più sofferente.
Ma la sinistra del Pd cosa sta facendo, per ricomporre questa frattura profonda e soprattutto giustificare la sua esistenza presente e futura? Poco o nulla, a sua volta. Gli scissionisti di Mdp, i reduci di Rifondazione, gli epigoni di Sinistra italiana, i civatiani, i montanariani e i falconiani: a guardare le schegge impazzite di questa infinita diaspora torna in mente la leggendaria parodia televisiva che Corrado Guzzanti fece di Bertinotti. Fausto il Rosso, che teorizzava le virtù della “sinistra pulviscolare”, capace di ridursi in polvere e così diventare inafferrabile per il nemico. La sinistra giocosa, innocente e irresponsabile, capace di cullarsi nell’eterna sindrome di Peter Pan, di trascorrere i decenni a suonare ai citofoni e poi di ricomparire dopo qualche era geologica per chiedere «mi ha cercato qualcuno?».
Pisapia, l’uomo che dovrebbe provare a federare le schegge, sarà anche un “leader riluttante”: troppo morbido, un po’ timido, quasi ambiguo. Ma sembra impresa sovrumana mettere ordine in questo caos entropico, in cui si sommano nobili ragioni ideali e indicibili ambizioni personali. Pare che nella galassia rossa si scontrino due o tre linee linee. C’è la linea di Bersani e Speranza, che criticano il Pd ma riconoscono i comuni avversari, Grillo e Berlusconi, e dunque cercano un terreno non conflittuale con la prospettiva che sia ancora possibile ricostruire una parvenza di centro-sinistra. C’è la linea di Pisapia, che teme la nascita di due liste, anche se ne vorrebbe tanto una sola, larga, estesa dai progressisti ai centristi, dai cattolici ai civici, da Zingaretti a Tabacci. Insomma, come cantava Jovanotti, “una grande chiesa / da Che Guevara a Madre Teresa”.
Poi c’è la linea di D’Alema, che è speculare a quella di Renzi: lista unica, “Izquierda unida”, da Articolo Uno a Nicola Fratoianni, magari guidata da Anna Falcone. Una lista radicalmente alternativa al Pd, che lo attacca a viso aperto in campagna elettorale, e dopo il voto si vede com’è finita. In questa lista ci sono quelli che si indignano per i “casti connubi” con Boschi. Quelli che considerano il Pd un partito di destra, da avversare come si avversava Forza Italia. Quelli che riconoscono la leadership di Pisapia solo se chiede scusa per aver votato sì al referendum. Quelli che pongono come conditio sine qua non di una ripresa del dialogo a sinistra l’eliminazione di Renzi dalla scena politica.
Nessuno sa immaginare quale linea prevarrà. Ma al di là di questa guerriglia tattica, e di fronte all’analoga impasse causata dal confuso e rissoso movimentismo di Renzi, è purtroppo evidente che sul piano della strategia questa “accozzaglia del forse” non ha ancora prodotto nulla di qualificante. Non una proposta organica, non una piattaforma programmatica, se si eccettuano le pur sacrosante ma al fondo generiche contestazioni alla buona scuola o al Jobs Act. E allora, tra il Pd che respinge con sdegno il Vinavil messo a disposizione da Prodi e i suoi carnefici che gli oppongono l’antica “diversità” da preservare, la sola colla che tiene insieme le polveri del Campo progressista rischia davvero di essere l’anti-renzismo.
Troppo, perché anche il segretario è palesemente a corto di idee e di orizzonti. Troppo poco, perché così si smarrisce l’obiettivo fondamentale che invece dovrebbe ricompattare il centrosinistra: discutere sui contenuti, ma per tornare uniti al governo del Paese. A prescindere dalle inutili nostalgie, questa è stata la virtù dell’Ulivo del ‘96 e persino dell’Unione del 2006. E questa è oggi la virtù che il Pd e i dieci piccoli indiani che si agitano alla sua sinistra stanno smarrendo. Per ragioni uguali e contrarie, e ripescando una formula coniata da Arturo Parisi dopo la caduta del primo governo Prodi, tutti gridano «meglio perdere che perdersi». Non hanno capito che stavolta, andando avanti così, riusciranno a fare tutte e due le cose.