Alla fine di novembre il Ministero per i Beni culturali aveva dichiarato che l’area di Marghera su cui avrebbe dovuto sorgere il Palais Lumière era sottoposta al vincolo della legge per cui non si può costruire a trecento metri dal mare. Ora, in un paese normale basterebbe questo a far desistere chi volesse innalzare proprio in quella fascia, e in vista di Venezia, l’edificio più alto di quello stesso paese (250 metri). Ma financo in Italia la cosa diventava pressoché impossibile, perché se anche la soprintendenza di Venezia avesse concesso l’autorizzazione, in deroga al vincolo, associazioni come Italia Nostra l’avrebbero tosto impugnata, facendo impantanare il tutto in tribunale per decenni. E il novantenne Pierre Cardin ha più volte chiarito di avere, comprensibilmente, fretta.
Né questa ovvia prospettiva, né l’appello di quattrocento intellettuali al presidente Napolitano (il quale, peraltro, non ha ritenuto di rispondere in alcun modo) hanno minimamente spaventato il sindaco PD di Venezia, l’avvocato Giorgio Orsoni, che il 22 dicembre ha firmato l’accordo con Cardin, entrando in tal modo nella storia della Serenissima «come un seguace non dei Dogi, ma dei barbari» (così Salvatore Settis, ieri su “Repubblica”).
Ma il sindaco non sente ragioni, ed è tranquillissimo, anche perché è convinto che i gruppi del Consiglio comunale ratificheranno compatti il progetto. Tanta tranquillità non è condivisa, per esempio, nella Parigi dello stesso Cardin, dove l’autorevolissima Accademia di Iscrizioni e Belle Lettere ha approvato una dura mozione in cui si legge che «a proposito della salvaguardia del patrimonio storico e artistico italiano, oggetto di studio di molti dei suoi membri e bene comune della civiltà europea, l’Accademia è vivamente preoccupata per le minacce che pendono su Venezia e la sua Laguna», e che «spera che il Palais Lumière non venga mai costruito proprio a causa della sua altezza smisurata».
La babelica Torre di Cardin, tuttavia, non sembra poter essere arrestata né dalla forza della legge, né da quelle della cultura e del buon senso: ma forse, con provvidenziale paradosso, potrebbe esserlo da quella del denaro. Cardin ci teneva ad apparire come lo zio d’America che tornava in patria con le tasche gonfie di quattrini: lo stilista ha dichiarato formalmente che avrebbe investito un miliardo e mezzo di euro nella Torre, senza contare i milioni promessi per il risanamento dell’area industriale, e quelli con cui avrebbe patrocinato rassegne artistiche. E si capisce che una buona parte dei cittadini di Marghera, abbandonati da decenni a se stessi, abbia salutato con cieco favore questa specie di emiro nostrano che prometteva una magica fontana di lavoro e benessere alta duecentocinquanta metri.
E, invece, ecco il colpo di scena: la banca non fa credito al paperone Cardin, che non riesce così a trovare, entro il 31 dicembre, i venti milioni di euro da dare al Comune per comprare i terreni su cui dovrà sorgere la Torre. E così il sedotto e abbandonato Orsoni si sfoga con la “Nuova Venezia”: «Noi abbiamo fatto il nostro dovere. Ma Cardin si è rivelato una delusione». La pochade appare davvero grottesca. Forse nessuno, nemmeno Orsoni, credeva davvero che potesse sorgere un simile, inaudito mastodonte: ma i primi milioni di Cardin (pochi, maledetti e, soprattutto, subito) servivano a far rientrare il bilancio nel Patto di stabilità. Insomma, una politica fast food incurante di ipotecare il domani pur di sfangarla, in qualche modo, oggi.
A Venezia, patria di sublimi cortigiane, anche la prostituzione era un’arte: ma oggi non si riesce nemmeno più a scegliere un cliente solvibile.