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Cesco Chinello
Il Mose, un'opera utile poche volte all'anno
13 Dicembre 2006
MoSE
L'intervento sul MoSE di uno dei più autorevoli studiosi dell'impatto dell'indistrializzazione sull'ambiente naturale e quello sociale della Laguna. Da il manifesto, 13 dicembre 2006

È una delle rare volte in cui mi accade di essere in disaccordo con Rossana Rossanda, ma in nulla intacca il senso di forte fratellanza che nutro per lei da molti anni.

A che serve il Mose, in definitiva? a riparare Venezia dall'acqua alta sopra i 110 centimetri, cioè - allo stato attuale - pochissime volte all'anno (non ho sottomano le statistiche). Per tutte le molte altre continueremo a usare gli stivaloni di gomma nelle varie zone della città che vanno sotto, in relazione all'altezza di marea. Domanda essenziale: vale la pena di investire tutti quei miliardi di euro - in pratica concentrarvi tutta la spesa pubblica che riguarda la salvaguardia della città - per una «grande opera» che, a regime e se funzionerà, riparerà la città per pochissime volte all'anno nel mentre non ci sono più i soldi per i decisivi lavori di manutenzione (scavo dei rii, innalzamento delle fondamenta et similia) senza dei quali si tornerebbe ai tempi del massimo degrado? Oggi io rispondo che non ne vale la pena. Teoricamente, non si può escludere che in avvenire il Mose potrà anche servire, ma allo stato dei fatti quanto meno rischia addirittura di peggiorare una situazione già compromessa, con tutte quelle sue opere fisse in ferro e cemento in contrasto con i delicatissimi flussi e riflussi della marea in laguna. Nella scienza e nella tecnica non si procede con il metodo sperimentale?

Comunque, come scrive anche Rossanda, il Mose non risolve in nulla il problema dell'«affondamento» di Venezia e, aggiungo io, neanche lo rallenta. Questo della subsidenza è un processo legato a tanti fattori che ora nessuno controlla: ne pagheranno il conto le generazioni future. Sia detto per inciso che nei decenni trascorsi - non vedo mai citati questi colpevoli dati - la subsidenza di Venezia è stata anche causata dall'acquedotto industriale che, ancora dalla fondazione di Porto Marghera, estraeva l'acqua direttamente dalle falde sottostanti sino per lo meno a metà degli anni sessanta e poi - ancora ai tempi di Mattei - dall'estrazione del metano in Polesine, il tutto con non pochi danni complessivi e conseguenze, come appunto ora stiamo riscontrando (e dire che attualmente l'Eni vorrebbe estrarre petrolio con le piattaforme in alto Adriatico!).

Bisognerebbe anche sfatare un'altra leggenda: la relazione virtuosa tra Porto Marghera e Venezia per salvarla dalla monocultura turistica. Questa relazione non è mai esistita, né esiste, sin dall'insediamento delle prime fabbriche di Porto Marghera negli anni '20-'30: contrariamente alle previsioni, i capitali investiti erano tutti esterni (i grandi 'monopoli'); una percentuale ridottissima (a una sola cifra) di veneziani è andata e va a lavorare a Marghera; il porto industriale era e è in autonomia funzionale. Venezia, da Marghera, ha avuto solo gli inquinamenti dell'aria e dell'acqua. Nel tempo le tesi di Volpi-Grimani si sono dimostrate del tutto infondate, così come nella seconda metà del secolo le varie strategie dei gruppi dominanti veneziani con la seconda zona e l'insediamento dell'avvelenata e avvelenante industria petrolchimica. Non saprei immaginare dove saremmo arrivati se si fosse realizzato il Prg della terza zona (approvato nel 1964) su oltre tremila ettari di laguna e con addirittura un centro siderurgico (quello poi costruito a Taranto): per fortuna che a farlo fallire ci hanno pensato le troppo dimenticate lotte operaie del '68-'69.

Il tornante esplicativo di questa lunga storia lo si è riscontrato il 4 novembre '66 con i 194 centimetri d'acqua che hanno sommerso Venezia e che di colpo hanno messo allo scoperto l'incompatibilità assoluta tra Venezia storica al centro di una laguna - stravolta idrogeologicamente dai vari scavi di canali, isole artificiali, imbonimenti, chiusura delle valli ecc. - e un porto industriale della grandezza e della forza di Marghera costruito sul suo bordo: vista con il senno di poi, una follia totale di cui oggi paghiamo duramente le conseguenze.

Porto Marghera è ormai da parecchi anni sempre più un parco avvelenato di archeologia industriale. Quello che è rimasto di produttivo - salvo la Fincantieri (ex Breda) - sfrutta al massimo impianti obsoleti e rattoppati col ricatto del posto di lavoro: non c'è alcun futuro (come tutti sanno, ma non dicono). Nel contempo - di anno in anno - il turismo a Venezia è arrivato a quasi 19 milioni di presenze e gli «operatori turistici» vogliono anche la sublagunare per farne arrivare ancora di più (altro che tassa di soggiorno!): di Venezia non potrebbero rimanere che pietre consunte e qualche vecchio dimenticato che non ritrova più la sua città.

Il triste - il tragico - è che tutto questo era perfettamente leggibile sin dalla seconda metà degli anni '80, ma i più hanno chiuso gli occhi per non vedere: con il mutamento del paradigma produttivo da fordista a (per semplificare) postfordista il porto industriale (nato per la prima trasformazione di quelle determinate materie prime portate dalle navi direttamente sulle banchine della fabbrica) ha cessato la sua funzione perché sono cambiate le materie prime, sono comunque cambiati i sistemi produttivi, sono mutate le relazioni economiche (globalizzazione). Così Marghera è diventata un ferro vecchio.

Sin da allora sarebbe stato però possibile, prendendo atto della concreta realtà, pensare e approntare un progetto di ridefinizione-trasformazione generale dell'area Marghera-Venezia-Mestre - con tutte le garanzie sociali e di equilibrio ambientale - che stato, enti locali, forze economiche, politiche e sindacali irresponsabilmente non hanno saputo avviare, perdendosi nei mille rivoli del giorno per giorno e nelle chiacchiere dei convegni e delle consulenze. Nonostante l'imperdonabile ritardo, si potrebbe cominciare almeno ora - questo sì che sarebbe un gran bel lavoro qualificato e interdisciplinare - ma non vedo volontà, forze e culture innovative per un'impresa del genere. Perché dovremmo solo consolarci con l'andare senza stivaloni per tre o quattro volte all'anno: come si fa a non capirlo, caro Indovina?

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