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Saskia Sassen
Il mosaico cangiante della sovranità
18 Maggio 2008
Un’intervista di Benedetto Vecchi all’autrice del più importante testo sulla città nell’età della globalizzazione. Da il manifesto del 15 maggio 2007

Quando Saskia Sassen apprende che il suo ultimo libro - Territory, Authority, Rights: From Medieval to Global Assemblages, Princeton University Press, ha scritto Sandro Mezzadra su queste pagine il 3 febbraio di quest'anno - circola in Italia e che viene discusso da ricercatori, attivisti ben prima della sua traduzione ha un moto di meraviglia. «È un saggio molto accademico, ma in ogni paese che vado scopro che è discusso molto da chi certo non vive di sola accademia. E spesso mi trovo di fronte un pubblico che lo ha letto in profondità e mi pone domande molto pertinenti. In passato, i libri venivano tradotti e poi, eventualmente, l'autore veniva invitato a discuterli. Ora scrivi un libro negli Stati Uniti e viene letto quasi in tempo reale in Spagna, Italia, Francia, America Latina». Ma quando la studiosa sente nominare Internet, il suo volto si apre a un sorriso divertito. «Già, la rete, mi dimentico sempre che non è solo usata dal capitale finanziario, ma anche da chi guarda alla globalizzazione da un'altra prospettiva».

Invitata dal Festival della filosofia di Roma, che si è concluso ieri, per partecipare a una tavola rotonda sul futuro delle metropoli, Saskia Sassen scandisce il suo pensiero lentamente, ma accetta di deragliare dal suo ragionamento sempre con quel misto di meraviglia e curiosità che provoca una recezione non prevista dei suoi libri. Si inoltra, dunque, su sentieri sconosciuti, ma solo se aprono strade esplorative sul tema che le è a cuore. E questa volta non sono le città globali, tema che l'ha resa nota al pubblico italiano, ma la globalizzazione.

Con il suo ultimo libro, lei ritorna sul luogo del delitto, la globalizzazione, che, secondo la vulgata dominante, è oramai niente altro che un cadavere eccellente. Altri invece la considerano una parentesi che si è chiusa con un ritorno alla normalità. Lei invece sostiene che la globalizzazione è viva e vegeta e che ha trasformato radicalmente la realtà, dalla economia al «politico». Quali sono allora i cambiamenti nella sfera del politico e nell'esercizio della sovranità?

La globalizzazione non è stata una parentesi. Le ragioni che portano molti opinion makers ad affermare che la globalizzazione è una parentesi derivano dal fatto che, spesso, si è parlato di globalizzazione in termini palingenetici. Tra passato e presente ci sono sempre continuità e discontinuità. E oggi, ad esempio, in economia appaiono con più evidenza le similitudini che non le differenze con il passato. Per quanto riguardo il «politico», fatte poche eccezioni, il suo funzionamento è stato presentato quasi inalterato. D'altronde, i parlamenti continuano a legiferare, il potere giudiziario continua a controllare che vengano rispettate le leggi, mentre il potere esecutivo applica le leggi. Il «politico» studiato finora riguardava le decisioni del Fondo monetario internazionale, della Banca Mondiale o dell'Organizzazione mondiale del commercio. Tuttavia questi tre organismi sovranazionali hanno solo preparato il terreno per il processo ancora in atto. Si può ragionevolmente affermare che hanno svolto il loro compito e che non è detto che nel prossimo futuro quelle istituzioni internazionali non vengano sciolte; oppure che cambino nome e ruolo. Le mutazioni del «politico» più profonde riguardano però il rapporto, come recita il titolo del libro a cui lei fa riferimento, tra territorio, autorità e diritti.

Siamo di fronte a dinamica non lineare, complessa. Negli Stati Uniti viene usata molto l'espressione fuzzy logic, derivata dalla teoria del caos, che non so, però, come viene tradotta in Italia.

Sempre più spesso si traduce come sinonimo di caotico, imprevedibile, non lineare....

Più che caotico, non lineare, cioè che non ha linee di sviluppo univoche, quanto contraddittorie. Prendiamo, ad esempio, il livello nazionale della globalizzazione. In molti hanno scritto della fine dello stato-nazionale. Anche io ho parlato di stati denazionalizzati. Ma ora è arrivato il momento di scavare a fondo e capire come è cambiato lo stato nazionale e, di conseguenza, per tornare alla sua espressione, l'esercizio della sovranità.

Ho già detto che le istituzioni internazionali sono in una fase di mutazione. Nel frattempo, però, vediamo che accanto al Fondo monetario, alla Banca mondiale, al Wto si sono affiancati altri «attori», dall'Unione europea al Nafta, all'Asean. Ci sono inoltre altre «entità» private che hanno lavorato assiduamente per modificare, ad esempio, il diritto commerciale a livello internazionale. In questo caso, mi riferisco alla Organizzazione mondiale delle camere di commercio o alle factories law, cioè i grandi studi di avvocati che definiscono regole che hanno valore normativo per imprese multinazionali e stati nazionali quando intrattengono affari tra loro. Tutto ciò dà vita a un mosaico del governo della globalizzazione mondiale che modifica il concetto di sovranità, tanto a livello nazionale che internazionale.

Più che un governo in senso classico, questo mosaico è una forma reticolare di governance che ha il compito di definire l'intreccio tra il globale e il nazionale. E che dirime le questioni che nascono attraverso un meccanismo di coinvolgimento di tutti gli attori - statali, non governativi, privati, politici, della cosiddetta società civile - al fine di prevenire situazioni di conflitto radicale tra quegli stessi attori....

Sì è un mosaico in cui vige una divisione del lavoro e una conseguente specializzazione in base alle quale alcuni organismi lavorano attorno a un problema, altri organismi su un altro problema. Talvolta in questo mosaico prevale una logica multilaterale, in altri casi una logica unilaterale. Inoltre, mi convince ciò che lei dice sul fatto che questo mosaico modifica l'intreccio tra globale e nazionale. In ogni caso, ciò che viene trasformato è tanto il concetto che l'esercizio della sovranità. Ovviamente, lo stato-nazione non rinuncia alle sue prerogative, ma dobbiamo constatare che nel potere esecutivo si fa strada una logica globale che orienta sempre più la sua azione. Durante, l'onda lunga della deregulation, c'è stata effettivamente una erosione della sovranità nazionale. Ora però, il potere esecutivo si fa carico delle istanze del capitale globale, traducendole sul piano nazionale. E in questo riacquista centralità.

In Europa, e dunque anche in Italia, è l'esecutivo che ha istituito le authorities - dalle telecomunicazioni alle norme sulla concorrenza - che controllano che le logiche del capitale globale siano rispettate sul piano nazionale.

Dunque siamo all'interno di una transizione di lunga durata.....

Si, ma tutto ciò ha pregnanza politica. Per questo, va studiato il «politico». Ho già accennato prima al bisogno di governo della globalizzazione, ma è interessante rilevare che questo governo si esprime attraverso una «politicità informale» legata al fare nelle società capitaliste. Amo molto la parola making, che per me non coincide con un professionismo politico o con una expertise, piuttosto indica un'azione diretta, che plasma, modifica la realtà.

Una concezione poco classica del politico. Infatti nelle sue riflessioni c'è poco spazio per i concetti di decisione, di amico-nemico, di virtù, di fortuna, di contingenza. Quali sono dunque le categorie del politico a cui fa riferimento?

Non sono disinteressata al destino delle categorie del politico. In questa fase della globalizzazione è però importante partire dalla fenomenologia del politico, a partire dalla presenza, ad esempio, dei poveri nella sfera pubblica. Oppure a quella strana entità che è stata chiamata la società civile globale. So bene che le obiezioni più evidenti a questo approccio riguardano il fatto che la presenza dei poveri nell'arena politica coincide con la modernità. Ma nella globalizzazione i «poveri» hanno a che fare con il making, cioè con un un fare che condiziona i rapporti di potere nella società, anche se quel fare non coincide con la forme politiche codificate, oserei dire formali. Allo stesso tempo, la cultura, che non è solo Entertainment, esprime una narrazione talvolta potente di realtà sociali che debordano dalle categorie tradizionali del politico. Prendiamo i migranti. I clandestini, o come dite voi in Europa i sans papiers, sono soggetti senza diritti e senza potere. Eppure, in California, esercitano un potere nel business agro-alimentare, perché senza di loro quel settore non potrebbe mai funzionare. Non possono votare, prendere la parola nella discussione pubblica, ma Los Angeles rimarrebbe paralizzata senza il loro contributo. E questo vale anche per altre città globali, come Chicago, New York. Ciò non è dovuto solo al fatto che lavorano in settori vitali della vita cittadina, ma perché «fanno», operano e tessono continuamente le reti informali di un legame sociale che il neoliberismo distrugge continuamente. Un lavoro di Sisifo, un making che non è certo contemplato nella categoria della decisione, ma che è rilevante nei rapporti di potere nella società.

Un altro termine che ha una centralità nel «politico» è senza dubbio presenza. Nelle manifestazioni dei migranti negli Stati Uniti viene gridato continuamente: «presente!». Non è però la risposta ad un appello, ma è espressione di un «fare» che è anche politico. Per me esprime la politica che rivendica il diritto ad avere diritti.

Tuttavia, oltre ad avere una funzione normativa, il diritto è anche codificazione di un potere e di una mediazione. Non crede che il diritto ad avere diritti sia sì affermazione di un potere, ma anche di una mediazione tra due istanze conflittuali?

I migranti, in quanto condizione posta ai margini della società, hanno un valore euristico, ci facciano cioè comprendere dinamiche per così dire generali. Ecco io credo che questo loro essere su una linea di confine dei rapporti di potere della società costringe a pensare a come si è trasformato il politico. Devo dire che nei miei scritti non mi sono granché posta il problema della mediazione. Nelle città globali assistiamo a due insorgenze sociali: quella del capitale, delle élite globali e quella dei «poveri». Due insorgenze che esprimono altrettante temporalità, quella veloce della élite globale e quella di lunga durata della politica dei diritti ad avere diritti. Due temporalità in tensione l'una con l'altra che anch'esse incidono nella globalizzazione. Il making dei poveri ha una sua temporalità che non coincide con quella del capitale globale. Sono mondi che si incontrano, scontrano nelle città globali modificando profondamente la realtà. Entrambe sono ancorate alla metropoli e entrambe plasmano lo spazio urbano. Il capitalismo globale vede le metropoli come un territorio da plasmare a loro uso e consumo. Per i poveri è lo spazio per il loro «fare». È ovvio che la mediazione si esprima in questo duplice fare. Ma è una mediazione fluida, mutevole nel tempo, informale.

Una ultima domanda: la guerra come strumento di produzione della sovranità. È sempre stato così, ma ora ci troviamo di fronte a guerre particolari.....

Sono infatti guerre urbane, che non vedono grandi eserciti che occupano uno spazio per confliggere tra loro. La guerra si conduce nella città tra combattenti di pronto intervento e civili dall'altra.

Volevo però sottolineare il fatto che forse la guerra è uno strumento di costruzione della sovranità che vede eserciti che rispondono a una logica globale da imporre al locale, il nazionale. Cosa ne pensa?

Non nego che negli Stati Uniti chi ha voluto la guerra ha pensato alla guerra come fattore costituente di una sovranità globale. E tuttavia le guerre sono anche media events. Quando Saddam Hussein è stato impiccato, le immagini e il video della sua esecuzione hanno fatto il giro del mondo e sono stati commentati da centinaia di milioni di persone. Tutti esprimevano la loro opinione. Ecco la guerra, più che fattore costituente svolge un altro ruolo: quello che mette a nudo i rapporti di potere, i conflitti culturali delle società contemporanee. Per quanto riguarda i fattori che possono accelerare il formarsi di questa nuova sovranità di cui, ripeto, possiamo per il momento definirne solo i contorni, penso al cambiamento climatico e le crisi - economiche, sociali e politiche - che può scatenare. Lo stesso si può dire dei diritti umani. Ecco, questi possono diventare il fattore costituente di una nuova sovranità.

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