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Carla Ravaioli
Il mondo
4 Dicembre 2007
Capitalismo oggi
Se non cambiamo i valori del “nostro” mondo, nessun dialogo è possibile con l’”altro” mondo. Un ulteriore capitolo da Un nuovo mondo è necessario, Editori Riuniti, 2002 (introvabile in libreria)

Tutt’altro che facile da mettere in opera, anche pensata solo in funzionedell’Occidente, l’ipotesi qui abbozzata si presenta come un’impresa al limite dell’inconcepibile, quando la si confronti, si tenti di confrontarla, con i problemi di quelli che vengono indicati, con una litote di burocratica ipocrisia, come “Paesi in via di sviluppo”.

Ma più esatto sarebbe parlare dei problemi del mondo. Perché - come rifletteva Arnold Toynbee nel lontano ’52, in un prezioso libretto significativamente intitolato “Il mondo e l’Occidente” (1) - l’Occidente non è che una piccola parte del pianeta, circondata dal vasto Mondo, anzi da una serie di mondi, alcuni di storia e cultura più antiche e prestigiose della sua. Ciò che non impedisce all’ Occidente di porsi con convinta determinazione come il depositario di tutto il meglio prodotto nei millenni, democrazia, sapere, progresso, efficienza, ricchezza, come il centro dinamico del sistema-umanità, pertanto autorizzato a padroneggiarlo.

Ma notoriamente il Mondo, il non-Occidente, è costituito in effetti da una moltitudine di mondi, estremamente diversi dal punto di vista economico, sociale, culturale, storico, antropologico, in cui convivono miseria assoluta e livelli di consumo assai prossimi ai nostri, tassi altissimi di analfabetismo e notevoli quote di popolazione di avanzata e sofisticata professionalità scientifica, rigidità di costumi inalterati da secoli e consuetudininon dissimili da quelle di qualsiasi paese occidentale, rapporti intersessuali fermi alle norme non di rado criminali di un dispotico patriarcato e libertà non troppo lontane da quelle volute dal femminismo. Sono terre rimaste pressocché le stesse da sempre (poche, per la verità, e in via di sparizione) e città in trasformazione continua e rapidissima, irriconoscibili da un anno all’altro, in gara per somigliare tutte al più presto a Manhattan; paesaggi dominati dalle torri degli impianti petroliferi e spiagge sterminate ancora senza traccia di interventi umani, o quasi (e fino a quando?); grandi foreste ancora vive ma di una vita artificiale curata a beneficio dei safari turistici, grandi foreste invece abbattute per fare spazio agli allevamenti zootecnici di proprietà McDonald’s e affini, intere vallate sommerse con le loro culture e i loro vilaggi dalle acque di dighe giganti. Sono nazioni rapidamente arricchite, ma con immancabili larghissime fascie di indigenza, nazioni tradizionalmente povere ma divenute poverissime negli ultimi decenni, in cui sempre però crescono favolose ricchezze di pochi, nazioni in guerra da generazioni, con eserciti armati e addestrati nei modi più moderni e costosi e gente che muore di fame; alberghi a cinque stelle e favelas, grattacieli e capanne di lamiera e cartone, lussuosi quartieri residenziali e ghetti, shopping centers traboccanti di merci e percentuali di sieropositivi che sfiorano la metà della popolazione; borghesie pienamente assimilate ai nostri costumi e consumi, nuove miserabili classi operaie improvvisate al comando di imprese straniere, caotiche irrespirabili megalopoli in costante espansione tra folle in fuga da catastrofi ecologiche, guerre, industrializzazione forzata delle campagne, masse di disperati di ogni sorta attratti dalle luci della città.

Più volte è stata notata l’incongruenza di nominare tutto questo, e il molto altro contenuto in così tante e disparate comunità umane, in un unico modo: “Paesi in via di sviluppo” secondo la formula imposta dalla moderna diplomazia, “Terzo mondo” secondo la denominazione che in epoca di guerra fredda lo contrapponeva agli altri due mondi, il “Primo” capitalista e il “Secondo” socialista, oppure “Sud del mondo”, secondo la più recente dizione che lo distingue dal “Nord”. E certo, a considerare le caratteristiche dei singoli paesi, l’incongruenza è clamorosa. Ciò che tuttavia non impedisce a tutti noi, quando sentiamo parlare di Terzo mondo, Sud del mondo, Paesi in via di sviluppo, di capire a che cosa ci si riferisce, né ci impedisce di usare le stesse parole per riferirci a quei paesi nel loro complesso. Le parole non nascono a caso: indicare una massa di realtà tanto diverse con una dizione unica significa riconoscere ad esse una qualità comune; ed è una qualità che si definisce in rapporto e in contrapposto a quella del “Primo mondo”, del “Nord del mondo”, dei “Paesi sviluppati”, insomma dell’Occidente. Perché sul modo di essere attuale di tutte e di ciascuna di queste realtà pesa un passato, lontano ma anche recente e recentissimo, di cui l’Occidente dai più remoti ricordi della storia fino ad oggi è stato, è, responsabile e protagonista: le imprese di Alessandro il Grande, la penetrazione cristiana, la sfida delle potenze marinare, le grandi “scoperte”, il colonialismo, la tratta dei neri, fino alla “cooperazione” e allo “sviluppo” a stelle e striscie gestito da Fmi, Bm, Omc. Questa storia firmata dall’Occidente è presente nella memoria e nell’attualità di tutto il Mondo, dei tanti diversissimi mondi che lo costituiscono: nelle spettacolari ma già in crisi esplosioni economiche dei “dragoni” asiatici,nelle disuguaglianze che crescono dovunque, negli inestinguibili conflitti che massacrano intere popolazioni, nei fondamentalismi che rinascono e si diffondono in funzione antioccidentale e cercano vendetta.

E allora, alla domanda che ponevo sopra, se quel rifiuto dei valori dominanti nel Nord del mondo, che ritengo necessario a una sinistra che voglia operare come tale, possa valere come orizzonte strategico, come base propedeutica per politiche utili anche per il Sud, la risposta mi pare possa essere positiva. Sono di conforto in questo senso le tante voci critiche che ci raggiungono direttamente da quei paesi: da comunità contadine, che si battono per la difesa delle agricolture locali e delle culture tradizionali contro la diffusione degli ogm, come i Sem Terra brasiliani o la Via Campesina del Chapas, da movimenti che protestano contro la scarsità idrica causata dall’uso crescente d’acqua nell’ industria, come i Navdanya indiani guidati da Vandana Shiva, o che chiedono la cancellazione del debito e raccolgono firme a favore della Tobin tax; da organizzazioni non governative del Sud-Est asiatico, impegnate in analisi inesorabilmente critiche dello “sviluppo” guidato da Bm-Fmi-Omc, oppure da studiosi tornati nei loro paesi d’origine dopo aver frequentato prestigiose università occidentali, come l’indiana Anuradha Mittal, condirettrice del “Food First”, qualificato centro di ricerca sulle cause della fame nel mondo. Sono tutte voci non solo di netta condanna della globalizzazione neoliberista, dei criteri e valori che la guidano, degli istituti che ad essa presiedono; voci di “Globalizzati e scontenti”, secondo il titolo del recente libro della sociologa americana Saskia Sassen, (2), ma anche di interi paesi ormai attestati su fermi propositi di “deglobalizzazione”.

In questo senso la parola più netta e documentata è ancora quella dell’ economista filippino Walden Bello: “Il modello della crescita ad alta velocità alimentata dal capitale straniero in favore dei mercati esteri, ha lasciato dietro di sé poco altro che distruzione dell’ambiente,”(3) dice ; e fermamente ritiene giunto il momento di cambiare rotta: “L’attuale crisi che sta distruggendo la vita delle persone in tutto il Sud, ci offre anche la migliore opportunità per riesaminare alle fondamenta il nostro modello e la nostra strategia di sviluppo” (4). A questo scopo sostiene necessario recuperare il vecchio proposito di un modello economico autonomo, che il dominio dei capitali stranieri ha frustrato;rivalutare gli stati nazionali, riorientare l’economia verso un modello non più mutuato dal Nord ma diretto dall’interno dei singoli paesi, preferibilmente su base regionale, che garantisca le massime opportunità ai produttori locali, che sposti il proprio asse “da produzione per l’esportazione a produzione per il mercato interno”. Secondo un programma fondato sulla constatazione che esiste un “eccesso di capacità produttiva” e un’’“offerta eccessiva di quasi tutto”, e sulla convinzione che sovente “l’espansione non è segno di buona salute quanto sintomo di malattia”, per una politica capace di “togliere enfasi alla crescita e massimizzare l’equità… e collegare l’agenda sociale a quella ambientale”. Soprattutto - insiste Bello - il Sud del mondo non deve più affidare decisioni economiche strategiche al mercato neoliberista, ma basandosi sulla scelta democratica e sottoponendo sia l’economia privata che l’iniziativa statale al costante controllo della società civile, deve puntare su “un programma globale di distribuzione delle risorse e del reddito”. A questo fine è necessaria l’eliminazione della “santa trinità di Bretton Woods”, cioè Fmi, Bm, Omc, istituti senza i quali “il mondo starebbe molto meglio”(5), e la loro sostituzione con un sistema pluralistico di istituzioni sovranazionali che si completino e controllino a vicenda, lasciando spazio ai Paesi in via di sviluppo per seguire liberamente i percorsi scelti in piena autonomia.

Come si vede, una parte significativa del Sud del mondo, che pure a lungo si è lasciata sedurre dal sogno occidentale, va ora ravvedendosi e ritirando il consenso in passato largamente attribuito al sistema neoliberistico. Ciò che appare d’altronde inevitabile, e perfino tardivo, di fronte alle aberrazioni che ha prodotto: vedi ad esempio la Thailandia analizzata da Bello, e la descrizione di ciò che dodici anni di “sviluppo” capitalistico hanno fatto di Bangkok, con “impianti industriali che verranno messi in disuso tra alcuni anni…, centinaia di grattacieli vuoti…, un traffico orrendo che è soltanto leggermente modificato dall’espropriazione di migliaia di automobili ultimo modello nei confronti dei proprietari falliti, … un rapido declino del capitale naturale del Paese e un ambiente compromesso in modo irreversibile, se non irreparabile...” (6)

E’ un ravvedimento condotto con una consapevolezza e una chiarezza di proposte da cui le voci antagoniste che si levano dal Nord avrebbero non poco da imparare. Anche per loro – come appare evidente dai brani riportati – sono oggetto della critica più dura non solo i paradigmi dell’economia oggi imperante, ma appunto quei “valori” che, prevalenti nella nostra società, vengono esportati e imposti in tutto il mondo; quei “valori” che anche le sinistre hanno più o meno inconsciamente assimilato e che dovrebbero finalmente disconoscere e separare da sé, per recuperare il loro “essere sinistra”. Le stesse proposte formulate da questi Paesi per il loro futuro politico avrebbero davvero molto da insegnare a noi Occidentali. Se ad esempio le sinistre facessero propria unadirettiva come “collegare l’agenda sociale a quella ambientale”, e agissero di conseguenza, non si troverebbero di fronte ad alternative tra salvare fabbriche orribilmente distruttive dell’ambiente e della salute dei lavoratori, oppure accettare la disoccupazione per un intero paese. E finalmente assumere come “programma globale” la “distribuzione delle risorse e del reddito”, tenendo ferma l’esigenza di “togliere enfasi alla crescita e insieme massimizzare l’equità”, significherebbe privare di fondamento l’eterna obiezione-alibi che proprio dalle sinistre viene più spesso brandita : “E quelli che muoiono di fame, quelli che vivono con un dollaro al giorno, come chiedergli di ridurre i consumi?”

Già, perché il Sud del mondo, o meglio il Mondo, il non-Occidente, questo enorme agglomerato di culture diverse, contraddizioni e disuguaglianze, è per larghe estensioni miseria senza aggettivi e senza confronti, miseria allo stato puro. E per chi a stento ci sopravvive, con pochissimo cibo, qualche straccio addosso, senza casa, senz’acqua, non solo non è pensabile ridurre i consumi, ma è indispensabile prevedere una crescita economica anche materiale: di case, di acquedotti, di scuole, di ospedali, di merci di prima necessità. Ma se tutto ciò viene attuato con il massimo possibile rispetto per l’ambiente, non in funzione dell’aumento del Pil ma dei bisogni reali, e quindi in quantità congrua e controllata, magari attingendo alle enormi riserve inutilizzate dell’Occidente, perseguendo appunto un programma di “distribuzione delle risorse e del reddito” e non interessi privati, allora anche la produzione di beni materiali può dar luogo a qualcosa di assai diverso dall’accumulazione capitalistica: non solo lasciando massimo spazio allo sviluppo di “beni sociali”, ma facendosi “bene sociale” essa stessa, partecipe della qualità di quelle ricchezze che, messe in comune, si accrescono, per trasformarsi così in “accumulazione sociale”.

Note

1) Arnold Toynbee, Il mondo e l’Occidente, Sellerio Editore, Palermo 1992.

2) Saskia Sassen, Globalizzati e scontenti, Il Saggiatore, Milano 2002.

3) Walden Bello, Il futuro incerto, op. cit. p. 229.

4) Id. p. 27

5) Id. pp. 325-6

6) Id. p.189

7) Giuseppe Prestipino, Narciso e l’automobile, op. cit.

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