Titolo originale: The world goes to town – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Che pensiate che la storia umana inizi nei giardini di Mesopotamia chiamati Eden, o più prosaicamente nelle attuali savane dell’Africa orientale, è chiaro che l’ Homo sapiens non ha iniziato la sua esistenza come creatura urbana. L’ habitat umano delle origini era dominato dalla necessità di trovare cibo, e caccia e raccolta sono cose da spazi aperti. Non fu sino alla fine dell’ultima era glaciale, circa 11.000 anni fa, che iniziammo a costruire qualcosa che si potrebbe definire un villaggio, e a quell’epoca l’uomo esisteva già da 120.000 anni. Ce ne vollero altri seimila per arrivare all’epoca classica, e alle città per svilupparsi fino a raggiungere i 100.000 abitanti e oltre. Ancora nel 1800 c’era solo il 3% della popolazione mondiale a vivere in città. In un qualche momento dei prossimi mesi, però, quella quota supererà la soglia del 50%, se non è già successo. Con saggezza o meno, l’ Homo sapiens è diventato Homo urbanus.
In termini di storia umana, questo potrebbe apparire uno sviluppo positivo. Certo sarebbe molto discutibile affermare che dalla campagna nono è mai venuto niente di buono. Presumibilmente, la ruota è un’invenzione dell’ambiente rurale. E anche gli abitanti delle città hanno bisogno del panem, oltre che dei circenses. Se il Dottor Johnson e Shelley erano nel giusto quando affermavano che i veri legislatori dell’umanità sono i poeti, allora bisogna di sicuro dare merito a colline, laghi e altre delizie rurali per averli ispirati.
Ma i contributi della campagna al progresso umano sembrano poca cosa, se paragonati a quelli urbani. Sviluppo della città è sinonimo di sviluppo umano. Coi primi villaggi è emersa l’agricoltura, l’addomesticamento degli animali: non si doveva più vagare per la caccia e la raccolta, ma si poteva invece riunirsi negli insediamenti, consentendo ad alcuni di sviluppare abilità particolari, e a tutti di vivere più sicuri dai predatori. Dopo un certo periodo i contadini riuscirono a produrre più di quanto si consumava, almeno nelle annate buone, e i vari prodotti dei villaggi- cereali, carne, stoffe, terraglie – si potevano scambiare. Attorno al 2000 a.C. si iniziarono a produrre gettoni di metallo, antenati delle monete, a titolo di ricevuta per le quantità di cereali depositate nei granai. Contemporaneamente, le città iniziavano a prendere forma.
Lo fecero a partire dalla Mezzaluna Fertile, striscia di terre produttive fra gli attuali Iraq, Siria, Giordania e Palestina, da cui emergeranno Gerico, Ur, Ninive e Babilonia. Col tempo vennero altre città in altri luoghi: Harappa e Mohenjodaro nella valle dell’Indo, Menfi e Tebe in Egitto, Yin e Shang in Cina, Micene in Grecia, Cnosso a Creta, Ugarit in Siria e, la più spettacolare, Roma, prima grande metropoli, che poteva vantare, al suo culmine nel III secolo a.C., una popolazione di oltre un milione di abitanti.
Abitare insieme significava sicurezza. Ma le persone si radunavano anche per via dei vantaggi pratici di stare tutti nel medesimo posto: vicino a un fiume o a una sorgente, su un’altura o penisole difendibile, vicino a un estuario o a una fonte di cibo. Era anche importante, ci insegnano gli storici, la capacità di un insediamento di attirare le persone in quanto luogo di incontro, spesso a scopi spirituali o sacri. Tombe, boschetti, anche caverne, potevano diventare luoghi sacri per cerimonie o rituali, verso cui la gente si dirigeva in pellegrinaggi. L’uomo non vive di solo pane.
Comunque il pane, in senso lato, era importante. Le persone arrivavano in città a pregare, ma anche per scambiare – il tempio era spesso anche il mercato – e i beni portati e venduti non erano solo prodotti dei campi, ma anche il frutto dell’opera di artigiani urbani e altri lavoratori qualificati. La città divenne centro di scambio, sia dei prodotti che delle idee, e quindi centro di apprendimento, innovazione, sofisticazione.
Non solo nella Mezzaluna Fertile, ma nei secoli anche a Alessandria e Amsterdam, Cambay e Costantinopoli, Londra e Lisbona, Teotihuacán e Tenochtitlán. É nelle città che l’uomo si libera dalla tirannia della terra, e riesce a sviluppare capacità, a imparare dagli altri, a studiare, insegnare, costruire le capacità sociali che poi fanno sembrare i campagnoli degli zotici. L’homo urbanus non è solo un uomo che vive nella città: è la città stessa.
Le città sono state naturalmente molto più di tutto questo, e non erano tutte uguali. Nel corso del loro sviluppo, alcune si distinguevano per il ruolo religioso (la Roma del secondo periodo), come il centro di un impero (Costantinopoli, Vijayanagara), nuclei amministrativi (Pechino), laboratori politici (Firenze), luoghi dell’apprendimento (Bologna, Fez), del commercio (Amburgo) o di lavorazioni particolari (Toledo). Alcune fiorirono, altre tramontarono, la longevità dipendente da vari fattori come conquiste, epidemie, malgoverno, collasso economico.
La tecnica si dimostra imparziale
Qualunque sia il contesto particolare in cui si sviluppa una città, comunque, il suo vigore molto probabilmente sarà influenzato dall’evoluzione tecnologica. Nello stesso modo in cui è la sovraproduzione agricola a rendere possibili i primi insediamenti stabili, sono le innovazioni nei trasporti a indurre lo sviluppo degli scambi da cui dipende la ricchezza di tante città. Ci sono altri sviluppi tecnologici che rendono possibile la sopravvivenza urbana. I romani, ad esempio, costruiscono gli acquedotti per portare acqua pulita in città, e fogne per renderla più salubre.
Ma se ne avvantaggiano solo i ricchi. La maggioranza dei romani, e degli abitanti delle città nel corso della storia, vivono nello squallore, molti ne muoiono. Le città sono affollate e malsane; le persone malnutrite; la malattia si diffonde rapidamente. Le città crescono in dimensioni e numero di abitanti per lunghi periodi, ma possono declinare e scomparire. Tra l’anno 1000 e il 1300 la popolazione urbana d’Europa si raddoppia, fino a raggiungere circa i 70 milioni (grazie anche in parte a un nuovo sistema di rotazione delle colture, reso possibile da nuovi attrezzi). Poi, con la Morte Nera, si riduce a un quarto. Muore anche la gente di campagna, a sono I cittadini ad essere particolarmente vulnerabili. La loro salute dipende soprattutto da acqua pulita e impianti sanitari, che pochi possiedono, e da sapone e medicine a buon mercato, che devono ancora essere inventati.
Non sorprende che il successivo grande sviluppo urbano derive ancora da un salto tecnologico: l’invenzione dei motori e delle macchine per la produzione. La Rivoluzione Industriale in un primo tempo fa assai poco per rendere migliore la vita urbana, ma offre posti di lavoro: parecchi posti di lavoro. Dalle fabbriche dell’era industriale iniziata alla fine del XVIII secolo nasce un’epoca urbana interamente nuova. I contadini abbandonano le terre a moltitudini per spostarsi nelle città, prima nel nord dell’Inghilterra, poi in tutta l’Europa e in nord America. Nel 1900, il 13% di tutta la popolazione mondiale era diventata urbana.
L’ultimo salto, da quel 13% al 50% in soli 107 anni, deve ancora qualcosa alla scienza e alla tecnologia: avanzamenti della medicina, insieme alle conoscenze sui modi di evitare le malattie, consentono a sempre più persone di abitare insieme senza soccombere, come accadeva un tempo, per la diarrea, la tubercolosi, il colera e altre epidemie. Ma i medesimi sviluppi, hanno allungato la vita anche nelle campagne, portando a enormi incrementi della popolazione rurale. L’ingegno umano non è riuscito a produrre nelle campagne una ricchezza corrispondente a tale crescita. Di conseguenza, molti abitanti di villaggi sono andati a cercare una vita migliore in città.
Le sole proporzioni e velocità dell’attuale espansione urbana, rendono improbabile qualunque grande cambiamento, del tipo di quelli che hanno segnato sinora la storia urbana. Si tratta soprattutto di poveri migranti, in quantità che non hanno precedenti, che producono bambini pure a ritmi senza precedenti. Si tratta dunque in gran parte di un fenomeno dei paesi poveri o poco ricchi; il mondo sviluppato si è lasciato alle spalle gran parte della sua urbanizzazione.
Ma nei paesi poveri si tratta di una tendenza che continuerà. Le Nazioni Unite prevedono che l’attuale popolazione urbana, di 3,2 miliardi di persone, aumenterà sino a quasi 5 miliardi entro il 2030, quando tre persone su cinque vivranno nelle città. L’incremento sarà particolarmente drammatico nelle regioni più povere e meno urbanizzate, in Asia e in Africa. Si tratta delle zone meno in grado di misurarsi col problema. C’è già il 90% della popolazione urbana di Etiopia, Malawi e Uganda, tre dei paesi più rurali del mondo, che vive negli slum.
Nel giro di dieci anni al mondo ci saranno quasi 500 città con oltre un milione di abitanti. Gran parte di questi nuovi cittadini sarà assorbita da metropoli di oltre 5 milioni. E alcuni staranno anche nelle megacittà, ovvero quelle da 10 milioni e oltre di abitanti. Nel 1950 solo New York e Tokyo potevano dire di essere così grandi, ma nel 2020, dice l’ONU, ci saranno nove città - Delhi, Dacca, Giacarta, Lagos, Città del Messico, Mumbai, New York, San Paolo e Tokyo – con oltre 20 milioni di persone. L’area metropolitana di Tokyo già ne contiene 35 milioni, più dell’intera popolazione del Canada.
La Megalopoli del mondo antico stava in Arcadia, parte della Grecia cantata da Virgilio come modello di semplice e lieta vita rurale. Le città che indica ora quel generico nome sono tuttaltro che arcadiche. Per quanto riusciti questi luoghi possano essere, se il successo si misura in termini di crescita di popolazione. Ma la gran parte si trova in paesi poveri, e molti degli abitanti, quando non la maggioranza, abita nello slum.
Invece nel mondo ricco la città sta attraversando cambiamenti di genere molto diverso. Molti dei nuovi centri fioriti nel corso della Rivoluzione Industriale e dell’epoca della manifattura ad essa seguita hanno perso popolazione. Anche New York, tanto a lungo epitome di sofisticazione urbana, ha attraversato un brutto momento negli anni ‘70. Alcune città mantengono un proprio ruolo come centri amministrativi, grazie alle condizioni politiche. Alcune sono ancora centri di scambio, grazie alla posizione geografica. Alcune tengono semplicemente perché hanno raggiunto un certo equilibrio. Altre però sono in difficoltà.
Fra i motivi tradizionali del vivere in città, molti (la presenza del luogo sacro, la vicinanza del cibo) hanno perso importanza. Alcune delle cose un tempo offerte dalla città (fabbriche, negozi) ora si possono trovare nei centri commerciali o zone industriali suburbane. La sicurezza, un tempo fra i motivi principali della concentrazione umana, spesso è questione sfuggente, più nelle vie della droga della metropoli che nell’ambiente dell’esurbio. La tecnologia, che storicamente ha favorito il progresso urbano, ora consente alle persone di lavorare nell’idillio rurale grazie al computer domestico. Nessuna meraviglia che molte città per continuare a prosperare debbano reinventarsi.
Quasi tutti i centri dei paesi ricchi, che siano stabili o in declino, si preoccupano di trasporti, inquinamento, energia, sacche di povertà eccetera. Ed esistono problemi in abbondanza. Ma si tratta di problemi di ordine differente rispetto a quelli affrontati dalle città dei paesi poveri, di gran lunga più drammatici e a fronte di risorse molto più scarse. Se i centri ricchi si preoccupano per flussi in aumento o calo relativamente modesti di popolazione, quelli poveri si confrontano con vere ondate di marea di migranti.
Dunque la storia delle città è giunta a un bivio.
Nota: la conclusione piuttosto brusca del testo si deve al fatto che sono state tagliate le frasi conclusive, che introducevano il successivo articolo sul tema dell’urbanizzazione mondiale proposto dall’Economist una audio intervista a Johnny Grimmond, a cui ovviamente rinvio, oltre che alla versione originale di questo estratto su Mall_int e qui su Eddyburg agli articoli relativi al Rapporto WorldWatch 2007 (f.b.)