Le Ecopolis del futuro, più che inventarle da zero, forse bisognerebbe assemblarle. La scatola di montaggio potrebbe contenere le strade dei quartieri senz'auto di Edimburgo o Amsterdam, i termosifoni di Helsinki o Copenaghen riscaldati da impianti che bruciano la spazzatura, i tetti solari di Rizhao in Cina (tre milioni di abitanti), così come i bus di Hammarby a Stoccolma, che fanno il pieno col biogas estratto dagli scarichi dei wc.
Eppure la tentazione di immaginare una metropoli che verrà nuova di zecca è fortissima. L'ultima versione è stata disegnata da Popular Science, periodico americano che dal 1872 fa divulgazione scientifica. In questa fantacittà, molto hi-tech e per nulla greggio-dipendente, nessuno possiede l'auto.
Le piccole vetture elettriche in circolazione sono a disposizione di tutti e si parcheggiano come i carrelli dei supermercati: incastrate una nell'altra, per risparmiare spazio. Poi ci sono fattorie urbane biologiche, marciapiedi ammortizzati che convertono la pressione dei passi in energia, parchi di alghe per fabbricare idrogeno.
La rivista cerca di lavorare il meno possibile con la fantasia, per delineare un futuro a portata di mano: non tra un secolo, ma domani. Alcune soluzioni infatti sono in una fase avanzata di progettazione e già realizzate (dal 2002 un treno a lievitazione magnetica fa la spola tra Shanghai e l’aeroporto). Tuttavia molte delle idee proposte hanno anche costi proibitivi, si scontrano con la barriera di un complicato cambiamento globale di abitudini (quanti rinuncerebbero all’auto di proprietà?) o presentano intoppi tecnologici a prima vista insuperabili: spremere idrogeno dalle alghe, per dirne una, richiede una dose di energia spropositata rispetto a quella che si ricava.
«L'esigenza di realizzare megalopoli sostenibili non è più un tema caro solo agli ambientalisti, ma una priorità per urbanisti e architetti di tutto il mondo» osserva Luca Molinari, docente di progettazione architettonica alla II Università di Napoli. Non potrebbe essere altrimenti. I centri urbani sfruttano enormi quantità di risorse naturali (ossigeno, cibo, acqua, combustibile, i tre quarti dell'energia totale) e producono quasi esclusivamente scarti: smog, rifiuti, 1'80 per cento dei gas serra del Pianeta. Inoltre continuano a espandersi. All'inizio del '900 solo quindici persone su cento vivevano in città, mentre oggi l'Onu ha segnalato, con apprensione, il sorpasso: per la prima volta la popolazione urbana ha superato quella rurale.
Così, se la rivista Usa si esercita in un gioco di simulazione, c'è anche chi prova a fare sul serio. Il premier britannico Gordon Brown ha presentato un piano per fondare quindici eco-town: piccoli borghi da ventimila abitazioni (il primo sarà pronto nel 2025), alimentati da energia pulita e pensati per ridurre consumi e sprechi. La prossima estate gli Emirati Arabi. nel deserto vicino ad Abu Dhabi. getteranno le fondamenta di Masdar City. Un investimento da 15 miliardi di euro per riciclare ogni rifiuto prodotto dai 50 mila residenti. offrire acqua di mare depurata e desalinizzata. organizzare un efficiente sistema di trasporto pubblico e fornitura di energia pulita.
Anche il governo cinese lavora alla sua Utopia. Si chiama Dongtan, a due passi da Shanghai: avrà vento e sole come carburante. zero emissioni e una rete di biofattorie urbane per assicurare l'autosufficienza alimentare. n primo nucleo del nuovo insediamento da mezzo milione di abitanti sarà pronto nel 2010 su un'isola fluviale un po' più piccola di Manhattan.
In realtà i cantieri sono in netto ritardo e i giudizi negativi su questi progetti non mancano. Masdar è stata definita una cattedrale nel deserto e le comunità rurali britanniche e i gruppi ambientalisti locali hanno manifestato più volte contro le eco town, sostenendo che non c'è niente di verde nella scelta di urbanizzare la campagna inglese. Anche Dongtan, timidamente, è messa sotto accusa in Cina: il primo risultato ambientale sarà lo sfratto degli agricoltori che vivono e coltivano l'isola. «Ha poco senso edificare una città dal nulla» conferma Molinari. «È più sostenibile semmai recuperare, ricostruire e mitigare l'impatto ambientale di quello che c'è già, piuttosto che coltivare progetti spettacolari e mettere altro cemento e altre infrastrutture nelle aree ancora libere e integre». Nemmeno l'architetto Mario Cucinella crede «in metropoli fatte solo di meccanismi e tecnologia, senza storia e senza legami col territorio. La città del futuro è la città delle piazze e delle relazioni sociali, non un luogo dove di punto in bianco si deportano gli abitanti. Queste non sono città, sono infrastrutture». Non a caso più che progettare centri urbani, lo studio Cucinella preferisce dedicarsi a singole case, low cost e low emission. Le prime venti saranno costruite a Settimo Torinese all'inizio del 2009: cento metri quadrati l'una per centomila euro, con pannelli solari e tecniche costruttive soft, che generano più energia di quella che consumano. «Il surplus potrà essere rivenduto dai proprietari, coprendo in parte le spese per l'acquisto» dice Cucinella. Zero emissioni, infatti, vuol dire anche zero bollette.
postilla
A parte il treno a “lievitazione” [sic] magnetica di cui parla l’autore, e che evoca più la fanta-pizzeria che non la città del futuro, va sottolineato l’impianto complessivamente vetusto di questa apparentemente avanzatissima rassegna delle soluzioni d’avanguardia per le città. Nel senso che pare di essere ancora dalle parti di Broadacre, di Frank Lloyd Wright, o del “Futurama” suburbano-autostradale proposto dalla General Motors alla Fiera mondiale del 1939. Epoche nelle quali i rapporti sociali erano anche formalmente molto più arretrati di quanto non siano oggi. Epoche in cui era insomma ancora possibile pensare al mondo come a un brulicare di masse su cui sperimentare qualche stramberia tecnologica o innovazione sociale. Cosa ovviamente piuttosto improbabile oggi, se non in posti come la Cina o gli Emirati, dove non a caso si scatenano investitori e progettisti evidentemente nostalgici del tempo che fu. Mentre le eco-town britanniche giustamente devono pagare il prezzo del consenso, per cui non basta sventolare un vessillo ambientalista e poi fare quello che più conviene a politici e speculatori (come dimostra l’ampia rassegna di articoli proposti su Mall).
Insomma, ancora una volta si dimostra la necessità che la cultura urbanistica, o almeno la parte di essa che non guarda con acritica nostalgia ai bei tempi in cui le utopie si imponevano a calci nel sedere, inizi a comunicare di più e meglio. Magari ad esempio anche a evitare che i giornalisti italiani non solo continuino a intervistare le archistar, ma nello scrivere i propri articoli come in questo caso attingano … ehm, un po’ troppo ad altre fonti, come le Città a Emissioni Zero di Ron Nyren, pubblicato il mese scorso dalla rivista dello Urban Land Institute (f.b.)