Nell’ottica degli ideatori – un gruppo della Confindustria, probabilmente legati alla unica realtà sportiva “industriale” del Veneto, cioè Benetton, e del distretto degli attrezzi sportivi della marca trevigiana, assieme ad immobiliaristi vari, il cui snodo sembra essere la facoltà di economia di Cà Foscari dove insegnano Gianfranco Mossetto (Economia dei beni e delle attività culturali, nonché presidente di Est Capital, un fondo di investimenti immobiliari promotore del nuovo palazzo del cinema e proprietario di grandi alberghi al Lido) e Federico Fantini (direttore del master in Strategie per il business dello sport, incaricato di redigere il concept plan delle olimpiadi veneziane) – l’intento è semplice ed evidente; lo ha esplicitato bene il presidente dei giovani industriali di Padova, Jacopo Silva: “Costruire la metropoli del Nordest”, da uno, due milioni di abitanti. Ancora più chiaro l’ex doge Gianni de Michelis che afferma che le Olimpiadi sono l’occasione per “profonde trasformazioni infrastrutturali e istituzionali (…) modificare profondamente la mappa dell’intero Veneto (…) con soglia demografica di due milioni di abitanti”. Che è poi quello che teorizza il nuovo Piano regionale di coordinamento territoriale: una “densificazione” edilizia lungo i trentadue chilometri del nuovo Passante autostradale (nato per fluidificare il traffico di attraversamento, si scopre ora un condensatore di cemento) cominciando con Veneto City e finendo con il Quadrante di Tessera moltiplicato per due , come ha già chiesto il gran patron della Save, Marchi. In mezzo tutto quello che serve: termocombustori, metropolitane di superficie e di profondità, outlet, alberghi, ospedali, fiere e università… e, ovviamente, attrezzature sportive, in un delirio di proposte da capogiro.
Ma non c’era la crisi? E non una crisi qualsiasi – ci ha spiegato Tremonti - ma derivata proprio dalla sopravalutazione finanziaria degli investimenti immobiliari; vale a dire da una esposizione bancaria troppo generosa nei confronti degli immobiliaristi che sono diventati insolventi. Scandali e fallimenti non si contano più anche in Italia. Così come crescono i cantieri fermi, i capannoni sfitti o invenduti, le abitazioni che non hanno acquirenti perché a prezzi “fuori mercato”.
E chi se ne frega - dicono i nostri interlocutori sostenitori della crescita urbana e dello sviluppo economico “locale” – , affari loro se qualcuno gli fa ancora credito, facciano pure le varie agenzie di intermediazione tra proprietari di aree e banche: Pirelli Re, Condotte, Mantovani, Impregilo. Noi amministratori “federalisti” non ci occupiamo di compatibilità macroeconomiche, noi vogliamo lavoro (di costruzione), oneri di urbanizzazione e servizi (attraverso le compensazioni urbanistiche), residenze, e quant’altro serve a fare le città più grandi e ricche.
Del resto, nella competizione globale tra aree geografiche, le amministrazioni pubbliche più stimate e più votate sono quelle che riescono ad attrarre maggiori investimenti immobiliari. Il modello da emulare – a dispetto di tutti i “post” moderni, fordisti, industriali… succedutisi - è sempre quello dell’Expo universale di Parigi con la sua torre Eiffel, tant’è che per le Olimpiadi del 2012 il sindaco di Londra Boris Johnson ne vuole costruire una di 120 metri. Sono sicuro cha anche a Venezia non mancherà un “archistar” che ci regalerà il progetto di un altro ponte.
Ma siamo proprio sicuri che questi siano anche i desideri e gli interessi autentici degli abitanti?
A giudicare dal tasso di natività dei cittadini autoctoni del Veneto non sembra che vi sia un trend di crescita demografica tale da giustificare una offerta residenziale pari a quella solo già prevista dagli strumenti urbanistici esistenti (vedi le ricerche di Legambiente di Padova e le osservazioni presentate al Ptrc). Chi sono i milioni di nuovi abitanti che industriali e amministratori locali auspicano possano venire ad insediarsi? Chi abiterà i nuovi ventimila alloggi del nuovo quartiere olimpico, quando se ne andranno gli atleti? Famiglie in lista di attesa di alloggi popolari, studenti fuori sede, immigrati senza alloggio, comunità di sinti e rom? Non credo proprio, nessuno di questi rientra nei parametri di solvibilità previsti dai project financing.
Avanzo un tema di discussione per le facoltà di urbanistica (tanto non ce ne sono più), di sociologia (non ce ne sono mai state) e di economia, soprattutto: la grande metropoli non è un modello da prediligere, è piuttosto un inferno da evitare. Di “megalopoli” ce ne sono una doppia dozzina nel mondo che presto (quando si faranno le olimpiadi a Venezia) saranno abitate da 2,4 miliardi di persone in bidonville ( The Challenge of Slums, Report on Human Settlements, rapporto Onu – Habitat, 2003). Chi pensa alla Pianura Padana come una Los Angeles (come ha avuto modo di dire Giancarlo Galan) ha visto troppi telefilm e non ha visitato né i suoi ghetti, i suoi slums, i suoi barrios, né le sue gate-comunity per ricchi, quartieri blindati, artificiali, sorvegliati e chiusi.
Molto meglio entrare in un altro ordine di idee – questo sì sarebbe davvero innovativo, coraggioso e moderno. Quello adottato dalla Giunta di Cassinetta di Lugagnano, comune nel Parco agricolo sud di Milano, che ha dato vita ad uno strumento urbanistico a consumo zero di suolo. Molti altri comuni lo stanno seguendo, ne è sorto un movimento che si chiama “Stop al consumo di territorio”. Un po’ quello che stanno facendo altre municipalità (questa volta il movimento è partito dal Galles a Mchynlleth) in materia di energia: si chiamano Transition Town e puntano a città con “zero emissioni di carbonio”. Altre reti di amministrazioni virtuose hanno già raggiunto i “rifiuti zero”; riciclano tutto e basterebbe andare a Vedelago per imparare come si può fare. Sono questi gli action plans che a noi piacciono. E ce ne sarebbe tanto bisogno soprattutto in Padania, dove la persistenza di polveri sottili inalabili hanno raggiunto livelli patologici e pericolosi per la salute. La Uniove europea ha ritenuto insufficiente il pseudo-piano di risanamento dell’atmosfera predisposto dalla Regione. Se non si fa qual’cosa subito Venezia 2020 si contenderà il primato con Pechino 2008 a proposito di Olimpiadi più inquinate.
Ma è proprio per questo – ci spiegano i nostri amministratori pubblici – che abbiamo bisogno delle Olimpiadi, perché costituiscono una “occasione” per avere delle opere pubbliche di sicura utilità che altrimenti non verrebbero mai finanziate: la bonifica di Porto Marghera, lo stadio per il calcio, una piscina olimpica, la stazione per l’altra velocità, qualcos’altro ancora. Un po’ come Milano Expo 2015 che lascerà in eredità alla città un grande parco botanico e la nuova caserma Dal Molin a Vicenza che realizzerà una nuova tangenziale. Ammettendo per un attimo che sia dignitoso accettare la logica della compensazione, altrimenti detto ricatto (modifica degli strumenti urbanistici in cambio di qualche intervento di pubblica utilità), siamo sicuri di aver ben valutato la dimensione dell’evento Olimpiadi, il suo impatto, in una città che rischia il dramma anche per i concerti rock dei Pink Floid o della Heineken? Siamo sicuri che Venezia abbia bisogno di qualche milione di visitatore in più, in maglietta e scarpe da ginnastica, nell’intervallo di una gara e l’altra, nell’arco di 15 giorni? Non avevamo detto che il problema principale di Venezia era quello di qualificare, diluire, decelerare le visite in città? Non avevamo detto che Venezia non può essere trattata come una “location meravigliosa” (secondo le parole di Marco Bolich della K-Events) buona per qualsiasi evento?
Leggo che un nuovo decreto legge è stato approvato (all’unanimità) in Senato a favore della realizzazione di nuove strutture sportive gestite direttamente dalle società “a sostegno della candidatura dell’Italia a manifestazioni sportive di rilievo europeo o internazionale”, cioè dei campionati europei di calcio del 2016. Roma e Lazio, rispettivamente famiglie Sensi e Lotito, ad esempio, hanno già presentato due progetti: uno occuperà una superficie da edificare di 130 ettari per 650.000 metri cubi di nuovi complessi edilizi e 800.000 di centri commerciali. L’altro, lo “Stadio delle aquile”, occuperà un’area di 600 ettari e realizzerà volumetrie di 2 milioni di metri cubi. Ecco, sono queste le strutture con cui Venezia dovrebbe competere. Poi ci sarebbero tutti gli altri impianti per ogni sport olimpico da spalmare in giro per il Veneto.
Mestre, Padova e Treviso appaiono decisamente fuori scala per realizzare strutture di dimensioni colossali che poi, in gran parte, rimarrebbero cattedrali nel deserto, di difficile e costosa gestione, come insegnano le pur più modeste olimpiadi invernali di Torino o l’esperienza di Atene.
Le cose sono così note e risapute, da far venire il dubbio che anche i promotori lo sappiano. Le probabilità di “vincere” la candidatura del Coni, prima, e del Comitato olimpico internazionale, poi, sono pressoché nulle. Questioni geopolitiche (vedi l’ultimo scontro stellare per le Olimpiadi del 2016 tra Obama e Lula, tra Chicaco e Rio de Janeiro) sovraintendono questo tipo di scelte. Le manie di grandezza di governatori e podestà di provincia contano zero. La vera natura della proposta sembra allora essere un’altra: un’offensiva mediatica ben congeniata per sdoganare i progetti lungo il Passante e sul Water Front lagunare, forzare gli strumenti urbanistici, semplificare le procedure, consegnare aree a qualsiasi investitore si faccia avanti. Il tutto in nome dello sport, nello spirito olimpico di pace e di cooperazione tra i popoli e in vista delle elezioni regionali. In assenza di panem, meglio abbondare in promesse di giochi circenses.