Negli ultimi anni, la storia della Liberazione ha preso la forma di un chiacchiericcio più o meno dilettantesco e tendenzioso, che qualche critico ha definito «mal di Pansa». Dopo il successo di libri quali Il sangue dei vinti o Sconosciuto 1945, è diventato non soltanto possibile, ma addirittura
trendy rappresentare l'Italia del post-25 aprile come un Paese dove i «comunisti» la facevano da padroni, massacrando a ogni angolo di strada i loro nemici: fossero militari o civili, fascisti o antifascisti, avversari politici o nemici privati. Ed è diventato di moda sostenere che un unico comunista si comportò in maniera rispettabile e lungimirante: il segretario del Pci Palmiro Togliatti, che nel giugno del 1946 da ministro di Grazia e Giustizia ebbe la saggezza di promulgare un'amnistia bipartisan. La benvenuta pietra tombale sugli orrori condivisi della nostra guerra civile.
Gli anni Settanta vanno divenendo il secondo fronte di questo chiacchiericcio retrospettivo. In effetti, altri dilettanti della storiografia (o i medesimi: come il Bruno Vespa di Vincitori e vinti) si affaticano a propagandare la tesi secondo cui gli «anni di piombo» costituirono il momento più intenso e drammatico di una guerra civile permanente, che sarebbe stata combattuta in Italia dall'8 settembre 1943 a oggi. E si sente ora dire da sinistra come da destra che soltanto un'amnistia modellata su quella di Togliatti potrebbe risolvere il problema politico, giudiziario e morale della «peggio gioventù».
Stando così le cose, il nuovo libro di Mimmo Franzinelli, pubblicato da Mondadori e intitolato L'amnistia Togliatti, giunge come una manna dal cielo della storia scritta seriamente. Storia fatta con la dovuta onestà intellettuale, ma fatta anche con i gesti e con gli strumenti di un mestiere diverso da quello del giornalista: entrando negli archivi, praticando la critica delle fonti, assumendosi l'onere della prova. Il risultato è un libro tanto impressionante quanto importante, che molto più dei volumi di Pansa o di Vespa meriterebbe di andare incontro a un destino da bestseller.
Fra i Paesi europei i quali, liberati dall'occupazione nazista, dovettero affrontare il problema del collaborazionismo, l'Italia fu l'unico a perseguire da subito la strada di un'amnistia. Eppure, l'Italia aveva la responsabilità storica di avere partorito il mostro fascista. Per giunta, diversamente dalla Germania e dal Giappone, suoi ex alleati nell'Asse, l'Italia era sfuggita a processi simbolicamente esemplari come furono quelli di Norimberga e di Tokio. Tutto ciò non impedì ai due maggiori partiti della coalizione ciellenista, la Dc di De Gasperi e il Pci di Togliatti, di giudicare opportuno contro il parere dei socialisti e degli azionisti un colpo di spugna sui crimini del Ventennio e della Repubblica di Salò.
Così, mentre Paesi come il Belgio, l'Olanda, la Norvegia, la Francia si ripulivano della macchia nazifascista attraverso un severo processo di epurazione, la neonata Repubblica italiana spalancò le porte delle carceri dove fascisti e saloini erano stati rinchiusi al momento della Liberazione.
Il famoso inchiostro verde della stilografica di Togliatti non si era ancora asciugato in calce al decreto di amnistia (controfirmato da De Gasperi nella sua qualità di presidente del Consiglio), quando fu dato ai criminali di respirare la buona aria della libertà. Ai pezzi grossi «ras» delle squadracce, segretari del Pnf, gerarchi del regime, dirigenti dell'Ovra, giudici del Tribunale speciale, capi politici e militari della Repubblica sociale come ai pezzi piccoli: squallidi delatori di quartiere, professori universitari svenduti al razzismo, donne del collaborazionismo. Dopodiché, nel corso del '47, gli zelanti magistrati della Cassazione romana (alcuni dei quali si erano distinti, pochi anni prima, ai vertici del Tribunale della razza) si incaricarono di rovesciare in senso innocentista il teorema colpevolista che le Corti d'assise straordinarie si erano illuse di avere dimostrato all'indomani del 25 aprile.
La maggiore novità documentaria del libro di Franzinelli viene dalle carte di Togliatti, che lo storico ha potuto consultare presso l'archivio della Fondazione Istituto Gramsci. Sono documenti dai quali la proverbiale «doppiezza» togliattiana emerge con un'evidenza quasi imbarazzante. Lasciata la carica di ministro di Grazia e Giustizia già nel luglio del 1946, subito dopo avere promulgato l'amnistia, il segretario del Pci tenne a presentare tale misura come qualcosa di giusto nelle intenzioni e di sbagliato nell'applicazione, ma per colpe non sue. Togliatti denunciò la maniera subdola in cui l'amnistia era stata politicamente recepita dalla Dc di De Gasperi, e la maniera distorta in cui era stata tecnicamente interpretata dalla corporazione dei magistrati. Ma lo studio di Franzinelli restituisce proprio a lui la paternità politica e tecnica del cosiddetto provvedimento di clemenza.
Fu Togliatti a volere l'amnistia, con il duplice intento di pescare nuovi comunisti nel mare magnum degli ex fascisti, e di risparmiare ai partigiani possibili conseguenze giudiziarie per le azioni da loro compiute durante la guerra civile e nell'immediato dopoguerra. Fu Togliatti a confezionare un pacchetto legislativo che escludeva dai benefici dell'amnistia soltanto i torturatori colpevoli di «sevizie particolarmente efferate», come se una sevizia non fosse efferata per definizione. Fu Togliatti a definire «eccesso di nervosismo» la rabbia dei parenti delle vittime (per esempio, le vittime delle Fosse Ardeatine) di fronte allo spettacolo degli aguzzini restituiti alla libertà. E fu Togliatti che si lavò pilatescamente le mani davanti alla sdegnata reazione della base comunista e partigiana, rimettendo la carica di guardasigilli al collega di partito Fausto Gullo. Insomma, fu Togliatti a meritare in pieno l'appellativo affibbiatogli da un indignato ragioniere di Venezia: ministro «di Grazia», ma non «di Giustizia»!
Senza perdere in asciuttezza, L'amnistia Togliatti diventa libro dolente nel momento in cui Franzinelli dà la parola ai magistrati della Cassazione romana, citando per pagine e pagine le motivazioni con le quali essi riconobbero ai criminali fascisti il diritto di venire amnistiati: quando tutta un'italica cultura da Azzeccagarbugli valse a mascherare con gli argomenti del giure le ingiustizie più flagranti. Chi aveva comandato i plotoni d'esecuzione di Salò venne assolto dall'accusa di omicidio perché non aveva personalmente imbracciato il fucile. Chi aveva stretto nelle morse i genitali degli antifascisti fu amnistiato perché la tortura non era durata particolarmente a lungo. Chi aveva promosso lo stupro di gruppo delle staffette partigiane venne giudicato colpevole di semplice offesa al pudore femminile.
L'amnistia Togliatti racconta la storia di una vergogna nazionale. Perciò, alla vigilia del sessantunesimo anniversario del 25 aprile, il libro di Franzinelli va consigliato come la più istruttiva delle letture possibili, per chi voglia sottrarsi a un discorso sull'amnistia che strizza l'occhio all'amnesia. Questo libro va raccomandato come un vaccino, contro il giampaolopansismo e il brunovespismo della memoria.