I consumi delle città prosciugano il mondo
di Claudio Colombo
Operazione sorpasso riuscita: più della metà de gli abitanti della Terra (6 miliardi e 800 milioni) oggi risiede nelle aree urbanizzate del pianeta. Addio campagna, questa è una strada senza ritorno: il numero dei «cittadini» (il 10% un secolo fa) crescerà ancora nei prossimi decenni. Un fenomeno epocale, secondo la Population division delle Nazioni Unite, che significa una cosa sola: il pianeta Terra rischia di finire in riserva, in termini di sostenibilità ambientale e di consumi energetici.
A espandersi in maniera tumultuosa sono le cosiddette megalopoli, aree metropolitane con più di 10 milioni di abitanti. Attualmente sono venti: popolazione complessiva, 300 milioni. Cent’anni fa la città più grande al mondo era Londra, con 6,5 milioni di abitanti. Oggi, la capitale inglese non compare nemmeno nelle top 20. In cima alla classifica c’è Tokio, con quasi 36 milioni: un secolo fa non raggiungeva il milione e mezzo. A quell’epoca, le città con più di un milione di residenti erano una ventina; negli anni 60 erano diventa te 65; nel 2000 avevano superato quota 500. La Cina ne conta una marea: 23, e undici di esse stanno sopra i due milioni.
Appare del tutto evidente che il sorpasso città-campagna e la tumultuosa crescita delle mega città siano da considerare fonte di enormi problemi ambientali e sociali: le aree urbanizzate occupano soltanto il 2% della superficieterrestre, ma consumano tre quarti delle risorse complessive del pianeta ed evacuano immense quantità di gas inquinanti, rifiuti, liquami tossici.
Londra, per esempio, ha un metabolismo spaventoso: per creare ciò che la capitale londinese consuma e digerisce serve un’area 125 volte più grande.
Milano, nel suo piccolo, è anche peggio: estesa per «soli» 181 chilometri quadrati (Londra 1580, Tokio Prefettura 2.187, Città del Messico 5.000), ha un consumo che richiede un’area di produzione trecento volte più grande.
Gli scienziati parlano di «impronta ecologica», complesso indice statistico che misura appunto la porzione di territorio necessaria a produrre le risorse utilizzate e ad assorbire i rifiuti. Più è alto il valore, più il livello di sostenibilità diventa problematico. Grossomodo, un americano ha bisogno di 9,6 ettari di terra (96 mila metri quadrati) per «ammortizzare» ciò che consuma in un anno; un contadino cinese «solo» 1,6 (ma un cittadino di Shanghai è già a 7); un italiano 4,15. Se dividiamo il numero della popolazione per la superficie di territorio realmente disponibile, scopriamo che l’americano è messo male e l’italiano non sta molto meglio: al primo manca una quota di territorio di 4,8 ettari, al secondo di 3,14. È quello che viene chiamato deficit ecologico. Per inciso: secondo il Global Footprint Network, l’ente «misuratore», l’umanità dovrebbeimparare a vivere equamente entro un’impronta ecologica di 1,78 ettari pro capite, poco più della superficie di due campi di calcio.
Ma come risponde la scienza, e in generale l’intelligenza umana, a questi problemi? Non certo caldeggiando un bucolico ritorno alla vita di campagna: le statistiche spiegano che gli standard di vita moderni comportano pochissime differenze di impatto ambientale tra chi vive in campagna e chi in città. La via d’uscita appare una sola: puntare a un nuovo stile di vita cittadino, avviando economie di scala nella produzione di energia, nel riciclo dei rifiuti, nel trasporto pubblico, persino nella produzione di una quota di cibo occorrente a chi ci vive. È ciò che oggi urbanisti, architetti e ingegneri chiamano in senso lato «città ecologica », dopo decenni passati a sostenere lo sviluppo di modelli di urbanizzazione come se cemento e combustibili fossero risorse illimitate, i rifiuti scarti da trasferire il più lontano possibile, le automobili un bisogno non solo di mobilità ma persino di libertà.
«Una città verde al 100% è impensabile — spiega l’urbanista italo-americano Raymond Lorenzo, presidente della cooperativa sociale AbCittà — ma qual cosa si può fare. Soprattutto nei nuovi insediamenti, partendo dalla riduzione secca del traffico privato e dall’utilizzo di fonti di energia rinnovabili»
Demonizzare l’automobile non ha senso, ma è indubbio che tra i progetti pilota per una città ecocompatibile l’auto non rappresenti una priorità. Se Grist,rivista online specializzata in temi ambientali ( www.grist.org ), promuove Reykjavik come la città più verde del mondo, il pensiero va subito ai suoi trasporti pubblici, che dal 2003 funzionano a idrogeno e hanno sostanzialmente eliminato le auto private dall’area urbana. Co me dice Andrea Masullo, professore di Sostenibilità ambientale all’Università di Camerino, «le città vanno riorganizzate soprattutto riducendo la necessità di trasporto e distribuendo in maniera strategica, per esempio, poli ospedalieri e servizi amministrativi, magari sfruttando appieno le possibilità della Rete. Mettere del verde a caso, come spesso si fa, serve a poco».
Ridurre drasticamente le emissioni di C02 e altri veleni è comunque un imperativo al quale non ci si può sottrarre. Ma come? Ancora Lorenzo: «Va accorciata la filiera economica, produttiva, energetica e sociale. Do ve si è tentato, magari in realtà piccole, parziali ma comunque significative, il successo è arrivato: penso a Cleveland, a Davis, in California, ma anche a città europee come Copenhagen o Monaco di Baviera».
«Pensare diversamente le città — spiega Carlo Carraro, professore di economia ambientale all’Università di Venezia — significa anche una diversa concezione degli edifici che la compongono. Il loro ciclo vitale, dal la scelta dei materiali ai bisogni energetici, deve essere autonomo e a costo zero per l’ambiente ».
Costruire ecocittà, più che un’affascinante scommessa, è una necessità. Ma i risultati, per ora, non sono pari alle aspettative. Basti guardare Dongtan, un’isola nell’area di Shanghai, in Cina, modello di città a emissioni zero in grado di ospitare mezzo milione di persone: a tre anni dal lancio, il progetto è ancora sulla carta. Oppure siamo a livelli onirici: se cliccate su www.greenpeace.org.uk potrete andare ad abitare a EfficienCity, posto davvero fantastico, per vedere l’effetto che fa. Meglio pensare a salvare il salvabile? Lorenzo concorda: «Non esiste ricetta, ma qualche punto fermo sì. Nelle città cresceranno nuovi quartieri: è lì che si deve agire. Ma l’uomo deve fare un passo indietro nei bisogni e nelle pretese».
Conclude Carraro: «Fonti rinnovabili, utilizzo pensato delle risorse naturali, meno sprechi: la città si salva solo se saprà bastare a se stessa». È una sfida che non va rimandata.
Trecento Milano per sostenerne una
di Maurizio Giannattasio
MILANO — Risorse e veleni. Ci vorrebbero due isole come la Sicilia per compensare tutto quello che produce e brucia Milano. Nel bene e nel male. Secondo gli esperti, «l’impronta ecologica» della capitale del Nord segna pro fondo rosso. Per inspirare ed espirare Milano dovrebbe espandersi come una piovra a est e a ovest, a sud e a nord. A fronte dei suoi 181 chilometri quadrati e al suo milione e 300 mila abitanti, l’«impronta ecologica» dovrebbe essere di 54.300 chilometri quadrati, 300 volte l’attuale territorio.
Milano consuma. L’acqua: 250 miliardi di tonnellate di litri all’anno. Il cibo: 400 mila tonnellate. La carta: 300 mila tonnellate. Il carburante: 4,5 milioni di tonnellate. Milano produce. I rifiuti: 760 mila tonnellate all’anno (con un 40 per cento di differenziata). L’anidride carbonica: 6 milioni di tonnellate. Il monossido di carbonio: 84 mila tonnellate. Milano consuma. Il cemento: 350 mila tonnellate. La plastica: 360 mila tonnellate. I metalli: 200 mila tonnellate. Milano inquina. L’ossido di azoto: 13 mila tonnellate. Il biossido di zolfo: 2.000 tonnellate. Una produzione spaventosa, anche se i numeri, soprattutto degli inquinanti, sono calati negli ultimi anni.
«Non so quale evidenza scientifica abbia l’impronta ecologica — attacca l’assessore al l’Urbanistica, Carlo Masseroli —. Per esempio il rapporto sulla densità abitativa. Milano ha un indice molto più basso di altre metropoli europee, come Parigi. Ma sicuramente, Milano ha deciso di raccogliere la sfida delle città ambientalmente sostenibili ed entro il 2015 la nostra città sarà ai vertici della classifica delle green city». Da dove deriva tanta sicurezza? Dal fatto che Milano ha un sogno (ultimamente si è trasformato in un incubo) che si chiama Expo. E il sogno è che l’Expo milanese del 2015 si trasformi in un paradigma di sostenibilità ambientale a livello mondiale. Lo afferma il sindaco di Milano, Letizia Moratti: «Diminuiremo del 15 per cento le emissioni di CO2 entro il 2015». Lo conferma Masseroli. «L’Expo è il primo passo per allargare al resto della città la sfida della sostenibilità». Se ne stanno occupando cinque architetti di fama internazionale, la Consulta architettonica di Expo. L’italiano Stefano Boeri, l’inglese Richard Burdett, lo spagnolo Joan Busquets, l’americano William McDonough e lo svizzero Jacques Herzog incontreranno giovedì i vertici di Expo per illustrare le linee guida del masterplan dell’evento del 2015. Ma il «sogno» della sostenibilità si potrà realizzare solo se la funzione pubblica che occuperà l’area di Expo sarà compatibile con l’ambiente. Se dopo il 2015, nei 102 ettari dell’ Expo, dovesse essere trasferito l’Ortomercato — come è stato spesso ripetuto — il quartiere verde andrebbe a farsi benedire. Che c’entra una piattaforma logistica invasa ogni notte da centinaia e centinaia di camion con una green city?
La garanzia che questo non accada sarà compito dei cinque architetti. Soprattutto di McDonough, considerato il guru mondiale del design sostenibile. Ha lavorato con diversi presidenti americani, collabora con Al Gore e la sua filosofia «cradle to cradle», dalla culla alla culla, rappresenta una visione di un ciclo continuo di utilizzo e riutilizzo di materiali senza produzione di rifiuti. Ce la farà?