la Repubblica, 5 agosto 2013 Viene in mente, per l'abissale contrasto, una famosa uscita di scena di un grande clown, Charlie Chaplin, in Luci della ribalta.
Quella maschera triste in scena a palazzo Grazioli
di Concita De Gregorio
Non sono venuti. La prima a salire sul palco per dare un’occhiata portandosi la mano alla fronte come si fa davanti ad orizzonti di folla oceanici è Daniela Santanchè, già candidata alla vicepresidenza della Camera nel governo di larghe intese e miti pretese, oggi qui impegnata a dire che la grazia dal Quirinale deve arrivare e che lei di Napolitano non ha paura, «è un uomo come noi», che lei è pronta a fare la rivoluzione a marciare sul Colle. Già questo dettaglio indice di quanto la “manifestazione spontanea” possa impensierire il presidente del Consiglio Enrico Letta, a Napolitano caro come un figlio, circa le sorti di un governo di cui il pregiudicato Silvio Berlusconi è azionista di riferimento e Santanchè cupa cheerleader. Purtroppo non sono venuti. I 500 pullman attesi, tutto pagato per tutti, devono aver avuto un intoppo che non è solo, come dice Fabrizio Cicchitto col consueto senso delle istituzioni, l’ostinazione di «quel cretino di Marino», sindaco di Roma, a dire che la manifestazione non è stata autorizzata, che nessuno ha chiesto il permesso di bloccare via del Plebiscito e di deviare gli autobus dal centro della Capitale. Di usare la città come se fosse il suo personale salotto e pazienza per chi da piazza Venezia doveva passare ieri per esempio per andare in ospedale, o a un appuntamento d’amore o a prendere il treno, in fondo è domenica, è agosto e chissenefrega degli altri. “Il Popolo della Libertà per la libertà di Silvio”, dice uno striscione. Il senso della mesta messa in scena è tutto qui: un partito al servizio della personale vicenda privata del suo duce. Ed è difatti dal Balcone, che ci si aspetta che si affacci. In un gioco di specchi nei balconi di Palazzo Venezia sono invece assiepati oggi i fotografi, il dirimpettaio sul suo terrazzino ha messo su la bandiera tricolore, è un uomo di Stato intende dire, l’una volta missino Gasparri si protende dall’alto del balcone verso i militanti e li incita a cantare. “Meno male che Silvio c’è”, intona qualcuno memore del “Silvio ci manchi” su cui Francesca Pascale, fidanzata dell’ex premier, ha investito fin dai tempi di Telecafone con successo.
Sono le sei e un quarto di pomeriggio quando, in una giornata torrida insolentita dai gesti di scherno di Alessandra Mussolini legittima nipote e dal ribollire dell’asfalto, il Nostro non dal balcone si affaccia ma dal portone, e sale sul palchetto replicato da un paio di schermi. Qualche migliaio di persone sventolano bandiere opportunamente fornite agli angoli della via dall’organizzazione, bandiere di Forza Italia giacchè è da lì, dal suo personale partito e non dal Popolo delle libertà, che il condannato B. intende ripartire. «Sono qui, resto qui, non mollo», dice, e dunque boia chi molla.
Gli autobus che hanno portato i manifestanti — molte coppie di anziani, parecchi giovanotti con occhiali scuri a goccia, una grande maggioranza di signore in età che siripetono commenti sul suo charme — sono dall’Umbria sono alla fermata Anagnina, quelli da Reggio in piazza Venezia dove però purtroppo non possono sostare, sempre per via di “quel cretino” del sindaco, dunque gli autisti stanno in moto girano in tondo. Matteoli e Micchichè raggiungono il retropalco, Franco Carraro è già in prima fila, Anna Maria Bernini e Mara Carfagna arrancano fra i sudati annaffiati da bottigliette d’acqua fornite dal servizio d’ordine. È chiaro che chi è dentro al Palazzo ha maggior rango rispetto a chi è fuori, segnali di dispetto di alcuni esclusi che, platealmente — Carraro fra questi — se ne vanno.
Dal palco, con la maschera del volto atteggiata ad un pianto senza lacrime, Berlusconi deve dire due cose: che il governo vive, questa è la più importante e la prima, la più deludente per quelli che erano arrivati coi cartelli “Basta larghe intese”, “Ora condannateci tutti”. Vive, il governo, perché la libertà dell’ex premier per cui il suo Popolo è venuta a manifestare prevede che ci sia qualcuno che gliela garantisce, e il cinico calcolo dice che solo tenendo in vita questo governo Berlusconi può sperare. Se poi sarà il Pd a volere le elezioni faccia pure, lui per parte sua, sia chiaro, resta. Condannato in ultima istanza, ma resta. Ed è questa la seconda cosa che ha da dire, a proposito della condanna: che lui è innocente. Ovazione, boato. Innocente condannato da giudici comunisti, tristi impiegatucci dello Stato — sventolare di bandiere — che non lo fermeranno, certo che no, perché lui di quel 7 milioni e rotti che doveva allo Stato negli anni in cui di quello stesso Paese era alla guida, mica qualche migliaio di euro di Imu saldati in ravvedimento come la Idem, di quei 7 milioni frodati al fisco ha già ripagato tutto, perciò cosa vogliono da lui.
Si capisce che Enrico Letta sia in apprensione, sì, in specie quando pensa a una campagna elettorale eventuale. E si capisce anche la prudenza di un discorso breve, inconcludente, che lascia perplessa la minoranza di manifestanti venuta da casa senza bus che si aspettava invece — dice la signora Gemma, romana — che “Silvio mandasse tutto a monte, perché Silvio è il numero uno e se si va a votare domani vince lui”. Questo un po’ il rischio, in effetti, visto da altre dimore politiche. In piazza gridano “libero, libero” a un uomo che con ogni evidenza è libero già: di fare della pubblica via il suo teatro e di dire che la Cassazione è comunista e antidemocratica. Tre o quattro ragazzi di passaggio intonano Bella Ciao, vengono aggrediti da una selva di voci che gridano “in Siberia” e cacciati dalla strada. Una donna dice che nessun pregiudicato dovrebbe stare al governo, le lanciano monetine. Per chi deve tornare a Gallipoli in bus s’è fatta una cert’ora, la sparuta pattuglia in occhiali scuri comincia a defluire. Carfagna era già stata scortata via mezz’ora fa. Le finestre di palazzo Venezia si chiudono, quelle di fronte di casa Berlusconi si accostano. Era questo, solo questo. Un piccolo intermezzo agostano ad uso delle tv, con parecchi figuranti e il protagonista a difendere se stesso, come sempre. Ricordava un po’ le antiche manifestazioni dell’ultimo Msi, pochi ma molto convinti. Letta ha seguito in diretta tv. Napolitano è stato costantemente informato. Poteva andare peggio, in fondo, dal loro punto di vista. E’ stato breve, ma triste.
NON si voterà a ottobre. Il governo Letta non cadrà, i ministri della destra non si dimetteranno e neppure i parlamentari. Alla fine come sempre Berlusconi ha compiuto la scelta più astuta e pragmatica, mantenendo l’unico salvacondotto di cui oggi può disporre: rimanere nella maggioranza di governo e condizionarne il cammino.
All’(ex) uomo più potente d’Italia questo oggi rimane, di tanta speme. Il suo popolo comincia ad abbandonarlo, come testimoniavano ieri le sparute comitive di pasdaran accorsi all’appello. C’era davvero poca gente davanti a Palazzo Grazioli, nonostante i tentativi del Tg5, in versione cinegiornale Luce, di farla apparire una folla oceanica. Falsa cronaca e truccati i sondaggi che sbandierano un’impennata di consensi alla quale il capo è il primo a non credere. Berlusconi dunque non rovescerà il tavolo perché probabilmente non otterrebbe l’agognato salvacondotto dagli elettori. Tanto meno può sperare di ottenerlo dal Quirinale.
Non s’è mai visto un presidente della Repubblica concedere una grazia a un condannato che è anche imputato in molti altri processi, non si è mai ravveduto e anzi continua ad attaccare la magistratura. Senza contare che il gesto di clemenza avrebbe un effetto devastante sull’immagine del-l’Italia all’estero, dove la «caduta del buffone» (The Economist) da giorni suscita commenti in bilico fra disgusto, fastidio e commiserazione per il nostro Paese. L’argomento principale dei cortigiani alla Santanchè, e cioè che uno votato da dieci milioni di italiani (in realtà sono otto) avrebbe diritto naturale alla grazia, oltre Chiasso fa ridere. Richard Nixon aveva appena stravinto le elezioni in 49 stati su 50 quando fu travolto dal Watergate, ben prima dei processi. Helmuth Kohl aveva governato quasi quanto Bismarck, unificato la Germania e preso venti milioni di voti dei tedeschi, quando fu spazzato dalla scena politica per aver creato fondi neri per 300 mila euro. Meno di un millesimo dei fondi neri creati dal nostro.
Senza potersi appellare al popolo o al Quirinale, l’unico salvacondotto che rimane a Berlusconi è quello del governo di larghe intese. Non sarebbe del resto stato semplice convincere i ministri della destra, che ieri non si sono fatti vedere al bel funerale, a mollare le poltrone. Ora il problema politico passa paradossalmente tutto nel campo del Pd. Il premier Letta e il partito di maggioranza sono attesi a prove ardue. Berlusconi non rimarrà buono e calmo nei prossimi mesi, continuerà ad alternare le giornate da statista a quelle da arruffapopolo, i toni concilianti responsabili a quelli
ricattatori. Il Pd è come quei signori eccentrici che prendono a guinzaglio un ghepardo e pretendono di trattarlo come un chihuahua. Dovranno tenere a bada gli istinti ferini del Cavaliere e della corte al seguito, nello stesso tempo fronteggiare la rivolta morale della base e negli intervalli pensare a come uscire dalla crisi. Un compito difficile perfino per gente bravissima nell’arte del temporeggiare. Già oggi la grande missione del governo, quella di portare fuori il Paese dalla crisi, per la destra è diventata secondaria rispetto all’urgenza di prendersi una vendetta sulla magistratura, mascherata da riforma della giustizia.