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Angelo D'Orsi
Il mercato sale in cattedra
1 Dicembre 2009
Capitalismo oggi
Resoconto critico del recente convegno sulla necessità dei saperi umanistici. Su il manifesto, 1° dicembre 2009 (m.p.g.)

Un originale incontro alla Sapienza, in collaborazione con l'Università della Calabria, pensato da Piero Bevilacqua, la scorsa settimana, ha costituito un'interessante e in parte mancata occasione per riflettere sul senso del lavoro scientifico nei luoghi deputati a farlo: l'università, innanzi tutto. Il titolo A che serve la storia?, accattivante ma fuorviante, riceve un più preciso senso dal sottotitolo: I saperi umanistici alla prova della modernità. Compiendo uno sforzo per estrarre il succo del convegno, assai denso, e non sempre limpido, potrei cavarmela dicendo che si è trattato di un raduno dei renitenti alla mercificazione e alla funzionalizzazione delle scienze.

Letterati, urbanisti, filosofi, storici, giuristi hanno disegnato il profilo di un sapere «disinteressato», nel senso della sua non riducibilità alle esigenze del mercato, secondo quella logica perversa che certamente non solo in Italia, sta passando come un tornado sulla cultura libera, che si rifiuta di adottare la grammatica e la logica dell'«a che serve?». Di qua, il provocatorio titolo delle giornate romane. «A nulla», dovremo rispondere, ha ricordato Pitocco nell'intervento conclusivo. A nulla, se per «servire» si intende l'accettazione dell'inserimento della ricerca, dello studio, della creazione, nelle coordinate mentali e pratiche del sistema di dominio turbocapitalistico. A tutto, se vogliamo badare ai diritti delle persone e delle comunità, e alle esigenze di liberazione di milioni di esseri umani da condizioni di oppressione, sfruttamento, indigenza, malattia.

L'ossessione del mercato

Il quadro tracciato dalla introduzione di Bevilacqua, fondata specialmente su Edgar Morin e con qualche accento a Nietzsche e Heidegger non sempre condivisibile, è stato di drammatica potenza, all'insegna di un dolente pessimismo: non cosmico, ma storico, e dunque contenente in sé i germi di una possibile, necessaria rinascita. Giustamente Bevilacqua ha puntato l'indice contro le classi dirigenti europee che hanno preteso che le università si adeguassero «alle richieste, ai miti, all'ossessione economicistica di una stagione ideologica del capitalismo contemporaneo». L'attacco alla sottomissione della scienza alle esigenze di questo capitalismo, la sua trasformazione in tecnica, la cui potenza fa paura sia quando è dominata dall'ossessione del «travalicamento» (il dover/voler superare ad ogni costo i limiti: un tema ripreso e sviluppato nell'affascinante affabulazione di Laura Marchetti), sia allorché tenta la soggiogazione del mondo naturale, aprendo campi di inquietante prospettiva.

E come la scienza «pura», che tale non appare - ma vi è stato il duro contraltare di Paolo Flores d'Arcais, che ha sottolineato, senza tanti complimenti in una platea poco simpatetica, la necessità di una scienza pura, per ogni utile progresso del genere umano, distinguendola dai suoi usi politici -, anche l'economia è finita sotto accusa, per la sua passiva sopravvivenza inerte, in un mondo che richiederebbe ben altro sforzo.

Oggi, gli economisti si sono ridotti a numericizzare e quantificare gli elementi di quella scienza, banalizzandola, e sottraendosi al confronto con le altre discipline, a cominciare da quelle propriamente umanistiche. Che sono state le protagoniste del convegno: non nel senso di reclamare il ritorno del «latinorum», nelle scuole, o di imporre Dante e Shakespeare a memoria, ma nel senso che nelle università, in particolare, non si può pensare di cancellare, in nome di una immediata professionalizzazione dei curricula, elementi di conoscenza fondamentali per dare spessore culturale, e dimensione critica alla formazione.

E Alberto Asor Rosa ha dal canto suo preso a bersaglio il «mostro» della cultura di massa, invocando una difesa ad oltranza del vertice dell'«inutilità» della cultura: la letteratura. E l'arte in generale. L'artistico, ha scandito, è il massimo punto di resistenza rispetto al degrado e all'appiattimento delle civiltà. Dove c'è arte e letteratura le civiltà resistono più efficacemente. Perciò, aristocraticissimamente, Asor ha dichiarato l'imprescindibilità di una nuova élite, formata da «traghettatori». Piuttosto che intellettuali legislatori, o maestri, c'è bisogno di intellettuali che traghettino la civiltà occidentale al di là delle secche in cui si è arenata.

Amare autocritiche

Non so quanto gli altri relatori e il pubblico abbiano condiviso la proposta. Certo, anche a volerla seguire, siamo in ritardo. La prepotenza le culture dominanti che colonizza l'immaginario, come ha ricordato Serge Latouche, che ha riproposto la sua concezione della decrescita invitando a liberarci dalla «tossicodipendenza della crescita»; il senso comune imposto in società cloroformizzate dalla televisione; una scuola che sempre più a stento resiste all'assedio del mercato, e di una politica che se ne fa espressione; i territori e le città abbandonati allo sfruttamento intensivo e allo scempio, come ha ricordato l'impietosa, amarissima disamina di Edoardo Salzano; la terra, la terra intera - e qui Vandana Shiva, star del convegno, ha fornito dati impressionanti - ormai a rischio; il trionfo dell'idiozia nei mercati finanziari, punto di partenza dell'appassionato intervento di Giuseppe Cantarano.

Il quadro emerso da tanti, diversi specialismi è desolante (le relazioni di Cassano e di Rodotà). Ma contro la tentazione di dire che noi accademici siamo innocenti, Igor Mineo ha accennato alla necessità dell'autocritica dei professori, corresponsabili di una situazione di degrado e di perdita di dignità che ha fornito un valido appiglio per far passare nella pubblica opinione la bontà delle «ricette» governative di «riforma».

Qui però il convegno ha fallito. Ossia sarebbe stato necessario provare a tradurre politicamente i lacerti di analisi troppo difformi e rapsodiche, anche quando fascinose e convincenti. E magari lanciare dalla Sapienza un autunno caldo dei professori. Ma su questo siamo ancora in tempo. Può anche trattarsi, in fondo, di un inverno, o di una primavera.

Del convegno romano, su eddyburg potete leggere le relazioni di Piero Bevilacqua ed Edoardo Salzano.

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