Il manifesto, 26 giugno 2014
Non credo di essere il solo a provare nausea per l’ossessivo martellamento sulle «riforme». Un incubo. In passato abbiamo denunciato l’abuso di questo nobile lemma del lessico politico, e l’ironia che ne ribaltava il senso. Sullo sfondo della globalizzazione neoliberista, «riforme» erano i colpi inferti alle conquiste sociali e operaie, dalle pensioni alle tutele del lavoro, al carattere pubblico di sanità, scuola e università. Non avevamo ancora visto nulla. Non avevamo immaginato che cosa sarebbe stato il mantra delle riforme al tempo del renzismo trionfante. Non c’è giornale né telegiornale che non gli dedichi il posto d’onore. E che fior di riforme! Da settimane tengono banco quelle del pubblico impiego e del Senato: la precarizzazione del primo e il ridimensionamento del secondo, trasformato in una docile Camera degli amministratori.
Prendersela con i giornalisti, si sa, non serve a molto. La corporazione reagisce nel nome della sacra libertà di stampa, che peraltro da noi non scoppia di salute. E si trincera dietro un brillante argomento: se c’è un problema, perché prendersela con chi si limita a parlarne? Peccato che le cose non siano tanto semplici. E che tra raccontare e fare – o tra fare e tacere – non corra tutta questa distanza quando ci si muove sulla scena pubblica.
L’anno scorso questo giornale condusse, solitario, una campagna contro il sistema mediatico, impegnato ad avallare la menzogna secondo cui la crisi sarebbe di per sé causa di povertà e disoccupazione. Come se fosse inevitabile affrontarla per mezzo delle misure deflattive che, ovviamente, l’hanno alimentata, e non fosse nemmeno immaginabile aggredirla redistribuendo risorse (quindi imponendo misure drastiche di equità fiscale) e rilanciando la domanda effettiva di beni e servizi. Da ultimo lo ha ammesso persino il presidente della Bce, puntando il dito sull’austerity e sulla miopia dei vertici comunitari, prigionieri della teologia monetarista. Ma nemmeno questo servirà. I tagli alla spesa resteranno il piatto forte della politica economica. Chi vive di stipendio continuerà a rischiare di perderlo e se lo vedrà mangiare dal «rigore». E la vulgata ammannita al popolo rimarrà quella del «risanamento» e dei sacrifici «necessari per i nostri figli».
Adesso, qui da noi, si è aggiunta la grande narrazione delle riforme. Per non farci mai mancare niente. Da quando «il premier Renzi» ha conquistato il Pd e palazzo Chigi e ha sbancato alle elezioni di maggio, non ci si salva più. Il racconto delle sue gesta e dei suoi progetti occupa invariabilmente gran parte dei notiziari, come al tempo del duce. Ed è come una bomba a grappolo, che dissemina veleni.
Intanto, è un racconto incomprensibile. Si dice che l’una forza politica o sindacale difende la proposta del governo mentre l’altra auspica una modifica. Ma come in un teatrino di marionette, quasi si trattasse di gusti personali. Nessuno che si azzardi a chiarire la vera posta in gioco, quali conseguenze comporti, poniamo, la non-elettività dei senatori o la facoltà di spostare di decine di chilometri, senza uno straccio di motivazione, la sede di servizio nel pubblico impiego. Quel che conta è avallare la grande diceria del cambiamento. Il governo trasforma, «cambia verso»: questo importa, e guai al disfattista che eccepisce.
Poi la retorica delle riforme assorbe, di fatto, ogni analisi del quadro economico-sociale, che evapora dinanzi al «grande cantiere» riformista. Sembra che tutto, letteralmente, ne dipenda, col risultato di oscurare tutti i problemi di un paese sempre più affannato e spaventato. Si salva, per forza di cose, il discorso sulla corruzione, troppo ingombrante per metterlo a tacere. Ma sul resto – la chiusura delle fabbriche; i contraccolpi sociali e morali della disoccupazione; la povertà delle famiglie; il degrado delle scuole, delle università, degli ospedali pubblici, delle biblioteche, del territorio – il più stretto silenzio.
Ora, la questione del funzionamento perverso di quella che ci ostiniamo a chiamare «informazione» è davvero troppo delicata e seria perché non la si torni a porre. Come mai funziona così? Come mai non c’è di fatto voce dissonante tra i maggiori organi dell’informazione scritta o parlata? La spiegazione classica – che i principali media sono per tradizione governativi – non basta, perché questo fenomeno, con queste caratteristiche totalitarie, è tutto sommato recente. Non basta nemmeno evocare la questione proprietaria, che pure va tenuta presente. I maggiori media privati, in linea di principio indipendenti, sono in mano a grandi capitalisti, certo poco interessati a un’opinione pubblica informata e potenzialmente critica. Resta che ancora dieci anni fa il coro non era unanime. Si scontravano letture diverse, fondate su diverse attribuzioni di responsabilità. Allora cos’è successo poi, perché oggi ci ritroviamo in questa situazione?
Azzardo schematicamente una spiegazione come prima ipotesi. Forse proprio la crisi ha cambiato le cose, rivelandosi, anche da questo punto di vista, un processo costituente. Dal 2007 sono in corso in tutto l’Occidente trasformazioni strutturali della dinamica produttiva che vengono modificando, a cascata, la composizione sociale e i rapporti di classe, i sistemi politici, gli assetti di potere in seno alle classi dirigenti, l’intero quadro delle relazioni internazionali.
Oggi non serve più informare e orientare l’opinione pubblica nel conflitto sociale di massa, come avveniva al tempo della prima Repubblica, sullo sfondo di uno scenario politico realmente pluralista, e ancora, benché sempre meno, sino a pochi anni addietro. Serve, al contrario, disinformare per disorientare, in modo da oscurare il processo di costituzione del nuovo americanismo e da lasciare mano libera all’azione distruttiva dei governi e dei poteri sovranazionali che dettano loro l’agenda. Serve privare il grosso della popolazione degli strumenti di decifrazione dei processi in corso e, soprattutto, prevenire la formazione di pensieri critici.