SENZA FINE
(editoriale della direzione)
Siamo alla prova cruciale, al corpo a corpo con la nostra stessa vita materiale e politica. Il manifesto andrà in liquidazione coatta amministrativa. Verranno funzionari di governo, che si sostituiranno al nostro consiglio di amministrazione. È una procedura cui siamo stati costretti dai tagli alla legge dell’editoria. Noi, come altre cento testate, nazionali e locali, non potremo chiudere il bilancio del 2011.
Mario Monti e il ministro Passera potrebbero riuscire dove Berlusconi e Tremonti hanno fallito. Usiamo il condizionale perché non abbandoniamo il campo di battaglia e siamo ancora più determinati a combattere contro le leggi di un mercato che della libertà d’informazione farebbe volentieri un grande falò. La fine del manifesto sarebbe la vittoria senza prigionieri di un sistema che considera la libertà di stampa non un diritto costituzionale ma una concessione per un popolo di sudditi. La fisionomia della nostra testata, il suo carattere di editore puro, il nostro essere una cooperativa di giornalisti, hanno sempre costituito una felice anomalia, un’eresia, la testimonianza in carne e ossa che il mercato non è il monarca assoluto e le sue leggi non sono le nostre.
Il compito che ci assumiamo e a cui vi chiediamo di partecipare è tutto politico. I tagli ai finanziamenti per l’editoria cooperativa e politica non sono misurabili «solo» in euro, in bilanci in rosso, in disoccupazione. Naturalmente, se avessimo la testa di un Marchionne sapremmo cosa fare per far quadrare i bilanci. Così come un vero mercato della pubblicità ci aiuterebbe a far quadrare i conti, e un aumento dei lettori nel nostro paese ci farebbe vivere in una buona democrazia. Ma è altrettanto evidente che le nostre difficoltà sono lo specchio della profonda crisi della politica, l’effetto di quella controrivoluzione che ha coltivato i semi dell’antipolitica, del «sono tutti uguali» fino a una sorta di pulizia etnica delle idee e dell’informazione.
Care lettrici e cari lettori, siamo chiamati, noi e voi, a una sfida difficile e avvincente. Dovremo superare nemici visibili e trappole insidiose. Sappiamo come replicare alle politiche di questo governo, ma siamo profeti disarmati contro il successo del populismo, che urla contro il potere assumendone modi e fattezze. State con noi, comprateci tutti i giorni, abbiamo bisogno di ognuno di voi. Adesso che tutti hanno imparato lo slogan dei beni comuni, lasciateci la presunzione di avere rappresentato una delle sue radici, antica e disinteressata. Ed è per questo che nell’origine della nostra storia crediamo di vedere ancora una vita futura.
SIAMO QUI
QUARANT'ANNI DALLA VOSTRA PARTE
di Matteo Bartocci
Nonostante una ristrutturazione durissima e sacrifici senza precedenti il giornale resta in edicola. Oggi alle 14 conferenza stampa in redazione Il ministero dello Sviluppo ha avviato la procedura di liquidazione coatta amministrativa della cooperativa. Un passo inevitabile dopo i tagli del governo. Ecco quello che abbiamo fatto e quello che dobbiamo fare
È il momento più difficile della storia quarantennale del manifesto. Chi ci segue sa che l'allarme l'avevamo lanciato da tempo. Che non era un «al lupo, al lupo» né una delle infinite crisi che con l'aiuto di decine di migliaia di sostenitori siamo riusciti a superare dal 1971 a oggi.
Il ministero per lo sviluppo economico ha ufficialmente avviato la procedura di liquidazione coatta amministrativa della cooperativa editrice del manifesto. Ma il giornale resta in edicola e rilancia. Perché non è finita finché non è finita.
Questa procedura particolare alternativa alla liquidazione volontaria cautela la cooperativa da eventuali rischi di fallimento. E' una procedura estrema, riservata a soggetti per loro natura fragili come le cooperative, che non hanno «padroni» che ogni anno ripianino i debiti o raccolgano i profitti.
Da oggi il manifesto entra in una terra sconosciuta. I casi di cooperative editoriali che hanno attraversato questa procedura sono rarissimi, forse è addirittura un inedito. Una delle tante «prime volte» che il manifesto, giornale quotidiano e forma originale della politica, ha sperimentato sulla sua pelle nei suoi primi 40 anni. I dettagli «tecnici» di quello che accadrà li daremo oggi in una conferenza stampa (alle 14 qui in redazione, via Angelo Bargoni 8, Roma). Per adesso però non sono la cosa più importante.
Banalmente: oggi il manifesto spende più di quanto incassa. E' una debolezza cronica e strutturale, aggravata dal taglio drastico e retroattivo dei contributi pubblici per l'editoria non profit. Il manifesto ha lanciato sottoscrizioni e campagne di sostegno ancora prima di nascere. Non è «piagnisteo»: è nel suo Dna. Senza non potrebbe vivere. E' un'impresa comune costruita senza padroni. Né occulti né palesi. I «padroni» del manifesto sono chi ci lavora e chi lo legge.
Per questo stavolta alla procedura indicata dal ministero non potevamo più opporci. Dal 2008 cala la pubblicità, le vendite vanno e vengono (incoraggianti a novembre e dicembre, in lieve calo a gennaio) e senza il contributo pubblico (che era previsto) il bilancio del 2011 non si può chiudere. E' l'aritmetica perversa dei fondi editoria, che vengono erogati nel 2012 come rimborso del 2011. Nonostante le promesse di intervento fatte dal presidente del consiglio Mario Monti e l'esplicita richiesta in tal senso del presidente della Repubblica, a oggi nessuna soluzione è stata trovata.
Restiamo noi e voi. Siamo la stessa cosa, ma noi abbiamo il dovere di spiegarvi quello che abbiamo fatto. Sul manifesto circolano moltissime leggende metropolitane e qualche lacrima di coccodrillo. Sono tempi brutali per tutti e non c'è da stupirsi.
Però sfatiamo alcuni luoghi comuni. I sacrifici che abbiamo fatto in questi anni sono senza precedenti. Abbiamo ridotto tiratura e distribuzione all'osso (p.s. le edicole sono 30mila e più di tanto non si può tagliare, già adesso il giornale si trova poco e male). Siamo l'unico quotidiano nazionale non full color: questo ci fa risparmiare in tipografia ma ci rende meno appetibili per la pubblicità. Di recente abbiamo aumentato il prezzo, ridotto la foliazione e portato Alias e la TalpaLibri dentro il quotidiano. In questi anni durissimi abbiamo messo a punto tutto. Siamo in ristrutturazione industriale più o meno dal 2006 e il sacrificio più grande lo stanno facendo soprattutto i lavoratori (che sono anche gli editori di se stessi).
Parlano i bilanci. Nel 2006 il manifesto aveva 107 dipendenti. A febbraio sono 74 (52 giornalisti e 22 poligrafici). Di questi 74, però, la metà è in cassa integrazione a rotazione. Per cui il giornale che leggete (dal 2010 a oggi) è fatto, materialmente, da circa 35 persone. Troppe? Troppo poche? Scarse? Brave? In numeri: dal 2006 al 2010 il costo del lavoro è diminuito del 26%, con un risparmio annuo di 1,1 milioni di euro. Nel triennio 2008-2010 i costi industriali si sono ridotti di 2 milioni e mezzo. I costi generali del 20 per cento. E visto che parliamo di soldi e di mercato, tra noi tutti riceviamo più o meno lo stesso salario, dalla direttrice alla centralinista: circa 1.300 euro netti al mese.
Il manifesto però è innanzitutto un progetto politico. Questo giornale può migliorare e cambiare molto ma non può mutare natura. Non potrebbe esistere senza il contributo di chi, da anni, lavora e scrive gratuitamente, dai fondatori al più giovane dei collaboratori. Più che ai nostri stipendi (che pure contano e non arrivano) il primo pensiero di ogni giorno è il nostro/vostro giornale. Da oggi lo sarà ancora di più.
SOCIAL NETWORK
NON FATE TROPPO I COATTI
di Alberto Piccinini
Alle otto di sera scoprirsi tra i «top trend» di Twitter Anna Paola @ Roberto Saviano: «Ti ricordi?» «I Maya avevano ragione», «Noi lettori faremo da megafono»
In quarant'anni è forse la prima volta che osserviamo una delle nostre crisi attraverso i social media. Speriamo che non sia l'ultima. Ma soprattutto, come twitta miki «non fate troppo i coatti e niente scherzi mi raccomando!». Il riferimento è alla «liquidazione coatta». Tanto per dire, la parola compare in Rete prima che qui in redazione si riesca a scrivere persino uno straccio di comunicato. Il sito si chiama Globalist. Dagospia riprende quello («Non manifesto più» aggiunge di suo pugno D'Agostino), poi arrivano L'Unità (grazie per aver postato il video con la risposta di Monti al nostro Matteo Bartocci sull'aiuto ai giornali), poi il sito di Repubblica e subito dopo le agenzie di stampa. Infine Il Fatto quotidiano. Grazie.
È così che alle otto di sera restiamo per una decina di minuti tra i trends della giornata su twitter. «Non compro giornali di solito, il manifesto è una storia a parte e domani lo comprerò» (Yamunin). «Da domani lo compro: tutti i giorni per un mese». «Manifesto per il manifesto». «Clickactivism non basta, domani compra il manifesto». La nostra amica Janet posta a breve distanza: «Un caffè di meno al giorno ci lascia il manifesto intorno». E poi: «Toglietemi tutto ma non il manifesto». Incontriamo qualche sorriso in giro, per fortuna. Dominus: «I Maya avevano ragione, cazzo». Qualcuno fa l'antipatico, ma pazienza: «Il manifesto è in liquidazione. Proteste dei 10 lettori sparsi in tutta Italia».
Da un lettore de Il Fatto: «A tutti i giornalisti mantenuti nel lusso per disinformare con soldi pubblici: BAMBOCCIONIII!!! AAAH Mi sento meglio!», si firma Miolgu. Di seguito, affiorano vecchie divisioni a sinistra: «Conservo fieramente la ricevuta di 5 euro per Lotta comunista Sottoscrizione per la stampa leninista, altro che Il manifesto» (Emanuele). Ma infine si fa strada la mozione degli affetti: «Lettore venticinquenne del manifesto da quando ho 16 anni» (Federico). «Un pezzo della mia vita, un compagno, una guida nella mia crescita!!!», con tre punti esclamativi. «Lo compravo già vent'anni fa (e pure ora, anche se saltuariamente). Da domani si ricomincia». «Con Pintor ho capito un po' di vita. Forza ragazzi». Romina, da Siena: «Lo compravo all'Università, all'arco di Porta Tufi. Lo comprerò domattina». Anna Paola @ Roberto Saviano: «Chiude Il Manifesto. Anni fa c'erano dei ragazzi che lo vendevano sempre davanti palazzo Giusso, ricordi?» Palazzo Giusso è l'Università Orientale, a Napoli.
Ancora su Twitter sbirciamo il minidibattito tra uno scrittore amico, Sandrone Dazieri e alcuni suoi followers. «Il Manifesto è stato il "posto" dove ho cominciato a scrivere. scrive Sandrone Non lo leggo più come prima, ma voglio che rimanga». E poi: «O mi sbaglio a difendere il Manifesto? Ha ancora senso nell'epoca della rete? Comunque fatela un app, ce l'ha anche il Giornale cazzo». Già. E nel frattempo abbiamo tentato timidamente di far circolare come hashtag «Zittinò», il grido finale di un recente pezzo di Rossanda Rossanda. Invece ci siamo ritrovati dentro il solito #Il Manifesto. Mica ce ne dispiace, anzi. Confusi però con il manifesto dei ciclisti sul Times di ieri, che sottoscriviamo, e altre decine di manifesti da tutto il mondo, pure condivisibili. Persino un'anteprima del manifesto per la prossima tournee di Lady Gaga.
#noncirestachepiangere era invece l'hashtag di Valeria per il suo tweet dedicato a noi. No vabbè, c'è ancora tanto da fare. Per esempio su Facebook c'è chi passa alle cose pratiche: «Io sono abbonato coupon, che faccio, lo compro anche in edicola poi lo regalo? Possiamo fare, una volta tanto, un intervento strutturato tra proprietà e lettori al fine di evitare azioni estemporanee?», ci chiede Riccardo. Rispondiamo: «è esattamente quello che andrebbe fatto. Abbonamenti, sottoscrizioni ma soprattutto vendita in edicola». In fondo è questo il senso della nostra presenza su Facebook da una settimana a questa parte. Siamo più di 30.000 «mi piace» laggiù. Ci risponde ancora Riccardo: «Mi raccomando: ordini precisi e chiari. Poi noi lettori faremo da megafono». Ci proveremo.
Ancora da Facebook recuperiamo il grido di Anna Maria, che ha due figli disoccupati e «non può prometterci che domani ci comprerà di carta». Scrive: «Chi siete adesso voi del collettivo del Manifesto, a chi vi rivolgete, qual è il vostro target. Sinceramente, con il cuore, siete sicuri che il "messaggio" sia efficace? Se "sì" allora lo dovete rendere efficiente, con le regole evolute del mercato, con intelligenza, senza baluardi di vetero-marxismo».
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