Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2016 (p.d.)
Altra spina nel fianco è la presenza di un focolaio islamico proprio nel Nord Kivu, al confine con Rwanda e Uganda. Negli ultimi due anni la società civile di Butembo Beni ha denunciato la “selvaggia uccisione” di almeno 1116 persone, il rapimento e la scomparsa di 1470 civili, 35.000 famiglie sfollate, centinaia di abitazioni, scuole, centri di salute e interi villaggi incendiati, saccheggiati o occupati. Una strategia del terrore attribuita alle Adf-Nalu, sopranno minata Muslim Defense International (Mdi), ribellione nata negli anni 90 contro il presidente ugandese Yoweri Museveni e stabilita nell’est congolese.
Nei campi di addestramento transitano giovani congolesi e stranieri, che poi tornano a combattere e commettere attentati nei paesi di origine. “Ragazzi sottratti alla strada con la promessa di un’alternativa alla povertà. Molti di loro sono orfani. Altri sono stati affidati ai fondamentalisti dalle famiglie convinte che i propri figli avrebbero ricevuto un’istruzione in Europa, Medio Oriente o Canada” ha riferito l’organizzazione Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs). Per il vescovo di Butembo-Beni, monsignor Melchisedech Sikuli Paluko, è in atto “un genocidio teso a cacciare la popolazione per avere il controllo del territorio, sfruttarne le risorse, creare campi di addestramento e indottrinamento (…) per installare centri di integralismo islamico sul modello di Boko Haram in Nigeria”. Il vescovo ha puntato il dito contro la missione Onu, assicurando che “tra i caschi blu ci sono stati musulmani fondamentalisti del Pakistan e del Nepal che hanno fondato scuole coraniche e costruito moschee” nei pressi delle basi.
“A Mutwanga i giovani scompaiono e ritornano dopo 6 mesi, diventati imam. Si sono convertiti in cambio della promessa di ricevere 100 dollari al mese per il resto della loro vita, una somma cospicua in ambito rurale. A Butembo le ragazze sono costrette a portare il velo”, racconta Cyril Musila, professore all’Università di Kinshasa e ricercatore all’Istituto francese delle relazioni internazionali (Ifri). Una corrente islamica che va “contro la cultura locale, in particolare contro l’etnia Nande (…) il jihadismo all’opera in quel territorio è uno strumento di sterminio a colorazione religiosa, con la complicità di altri gruppi armati, soldati regolari e esponenti di governo”, conclude lo studioso congolese.
Ma al centro della cronaca delle ultime settimane c’è il rischio sempre più concreto che il capo di stato uscente Joseph Kabila, in carica dal 2001, possa aggrapparsi al potere oltre la scadenza del mandato il 19 dicembre.Di sicuro le elezioni in agenda per fine anno non si faranno. Mancano i soldi e il censimento non è terminato. Queste le spiegazioni ufficiali. Il 19 e il 20 settembre a Kinshasa una protesta dell’opposizione è stata brutalmente repressa: 32 morti, secondo il bilancio governativo. Tra 50 e 100 vittime, migliaia di feriti e arresti quotidiani per ong e oppositori. Un Kabila nell’occhio del ciclone è stato ricevuto da Papa Francesco tre settimane fa.
A porre sotto i riflettori le sorti del gigante africano in bilico sono migliaia di congolesi della diaspora con la Congo Week: da domenica al 23 ottobre una settimana per “rompere il silenzio sulla crisi dimenticata”.
In Italia l’iniziativa coinvolgerà associazioni e scuole in cinque province, con un convegno nazionale a Bologna e una marcia a staffetta per la pace a Beni, tra Reggio Emilia e Bruxelles. Intanto a Kinshasa “vige un clima di terrore e la tensione è alle stelle. Abbiamo paura e non sappiamo cosa accadrà al Paese da qui al 19 dicembre, ma soprattutto dopo quella data”, avverte una fonte locale anonima per motivi di sicurezza.