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Roberto Mania
Il lavoro spiato
19 Giugno 2015
Articoli del 2015
«È caduto ogni divieto sul controllo dei dipendenti. Pc, posta elettronica, telefonate non hanno più segreti per gli imprenditori. Gli unici limiti arrivano dal Garante della privacy: non si può abusare dei dati».
«È caduto ogni divieto sul controllo dei dipendenti. Pc, posta elettronica, telefonate non hanno più segreti per gli imprenditori. Gli unici limiti arrivano dal Garante della privacy: non si può abusare dei dati».

La Repubblica, 19 giugno 2015 (m.p.r.)

Siamo tutti lavoratori sorvegliati. Il Grande fratello c’era già prima che il governo approvasse l’ultimo decreto sul Jobs act. I “padroni della rete” sanno tutto di noi: conoscono i nostri gusti alimentari, i libri che leggiamo, la musica che ascoltiamo, i vestiti che indossiamo, i film che vediamo, probabilmente pure il partito che votiamo o che abbiamo intenzione di votare. Anche il “nostro padrone” sa quasi tutto di noi. Lo sa, ma non lo dice. La nostra posta elettronica nel posto di lavoro può essere controllata, i nostri accessi a internet pure, le nostre telefonate altrettanto. Tutto è tracciato. La rete, si sa, non dimentica, o non vuole dimenticare, mai. I dati sono ormai facilmente acquisibili, bisogna vedere l’uso che se ne fa dopo. Questo è il punto più delicato.

E il governo ha deciso che l’imprenditore potrà controllare a distanza il proprio dipendente attraverso il cellulare aziendale, il tablet, lo smartphone, le nostre propaggini tecnologiche che utilizziamo in maniera promiscua, un po’ per il lavoro un po’ per il privato. Dentro ci sono tante informazioni sensibili. Sono le nostre connessioni permanenti, fanno parte di noi. E del nostro lavoro. Il datore di lavoro potrà controllarci (se il testo del decreto delegato presentato in Parlamento non subirà modifiche nel prossimo mese), rispettando le regole sulla privacy, indipendentemente da un accordo con i sindacati, basterà che ottenga l’autorizzazione da parte dell’ufficio territoriale del ministero del Lavoro.
Questa è la svolta rispetto alla disciplina introdotta 45 anni fa con l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Lì è vietato il controllo a distanza dei lavoratori. «Una sorta di tutela ante litteram della privacy - sostiene Maurizio Del Conte, professore di diritto del lavoro alla Bocconi di Milano, consigliere giuridico di Palazzo Chigi - destinata però soltanto ai lavoratori». Insomma, negli anni Settanta i lavoratori erano privilegiati rispetto a tutti gli altri: erano gli anni di un aspro conflitto sociale e delle profonde divisioni ideologiche, e il “padrone” avrebbe potuto utilizzare le informazioni raccolte con le telecamere e gli audiovisivi, per scegliersi i dipendenti, discriminando, licenziando gli indesiderati dal punto di vista politico o sindacale. Alla Fiat, per fare un esempio, accadeva esattamente questo con le schedature dei comunisti. La barriera dell’articolo 4 insieme a quella dell’articolo 8 (divieto di indagini personali sul lavoratore) dello Statuto servivano a rendere più libero il lavoratore. «Oggi - aggiunge Del Conte - c’è la legge sulla privacy e si applica a tutti, nei posti di lavoro e all’esterno». Dunque negli uffici (ma non quelli pubblici) e nelle fabbriche, quando decadrà l’articolo 4 dello Statuto continuerà ad essere applicata la legge sulla tutela della privacy.
Ecco, allora, il Garante della privacy. Che ha fissato le linee guida per l’utilizzo della posta elettronica e della rete internet nel rapporto di lavoro. E a proposito dei controlli a distanza riconoscono che il datore di lavoro possa controllare la prestazione lavorativa e il corretto utilizzo degli impianti. Ma non può «ricostruire, a volte anche minuziosamente, l’attività del lavoratore». Non può leggere la posta elettronica, non può memorizzare le pagine di internet eventualmente visualizzate, non può in maniera occulta controllare ciò che il dipendente digita sulla tastiera.
Eppure i comportamenti non sono sempre così rispettosi delle regole. Proprio un’indagine dell’Authority disvelò nel 2012 il caso del Poligrafico dello Stato. Era stato introdotto un sistema di filtraggio per impedire l’accesso ai siti ritenuti «inconferenti con lo svolgimento dell’attività lavorativa ». Peccato che lo stesso sistema memorizzasse poi gli acces- si e i tentativi di accesso di ciascun dipendente (circa 1.200) ai domini selezionati. Ne derivarono report quotidiani sull’attività di ciascun lavoratore. Una vigilanza minuziosa in contrasto proprio con l’articolo 4 dello Statuto, come osservò il Garante. Un controllo altrettanto pervasivo veniva effettuato anche nelle mail.
Siamo accerchiati da potenziali strumenti di controllo. «Non per questo dobbiamo alzare la mani, accettare il predominio della tecnologia come un fatto naturale», dice Stefano Rodotà, giurista, primo Garante della privacy, «maniaco dei diritti », come si definisce. «La questione dei diritti va declinata in maniera tale da non rendere la tecnologia la padrona di tutto». E Rodotà ricorda il caso dello Stato della California dove ai datori di lavoro è vietato, pena severissime sanzioni, accedere al profilo Facebook dei candidati all’assunzione, perché il rapporto tra lavoratore e imprenditore non è mai sullo stesso piano, nemmeno prima che si stabilisca. Vietato chattare anche attraverso un’altra persona. Il mese scorso la Corte di Cassazione italiana (sentenza numero 10955 del 27 maggio 2015) ha confermato il licenziamento di un lavoratore che era stato “incastrato” proprio per via di Facebook. Il lavoratore era stato licenziato dalla Pelliconi Abruzzo dopo essersi allontanato per fare una telefonata privata e, così, non aver potuto intervenire tempestivamente su una pressa bloccata; essersi collegato con l’iPad e poi anche su Facebook. L’accertamento delle conversazioni sul social network era stato possibile perché il datore di lavoro aveva creato un falso profilo di donna la quale aveva avviato una fitta comunicazione con il lavoratore proprio durante l’orario di lavoro. Nessuna violazione dell’articolo 4 dello Statuto, secondo la Suprema Corte: «Il datore di lavoro ha posto in essere una attività di controllo che non ha avuto ad oggetto l’attività lavorativa più propriamente detta ed il suo esatto compimento, ma l’eventuale perpetrazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, poi effettivamente riscontrati ». In questo caso il lavoratore venne anche “localizzato” per colpa del suo accesso a internet. Dunque - sostiene la Corte - «nella presumibile consapevolezza del lavoratore di poter essere localizzato, attraverso il sistema di rilevazione satellitare del suo cellulare».
C’è chi ha chiesto al Garante esattamente la possibilità di poter localizzare, per ragioni organizzative e produttive, i suoi dipendenti. Lo hanno fatto, nell’autunno dello scorso anno, due aziende di telefonia, la Ericsson e Wind. E il Garante ha posto alcuni paletti ma non ha detto di no a una richiesta finalizzata a migliorare la capacità di intervento dei tecnici. Va bene usare lo smartphone - ha detto l’Authority - per la localizzazione del dipendente, ma le applicazioni dovranno essere solo quelle per la geolocalizzazione impedendo l’accesso ad altri dati, come sms, posta elettronica, traffico telefonico. E sempre le stesse applicazioni dovranno configurare il sistema in modo tale che sull’apparecchio sia sempre ben visibile un’icona che indichi ai dipendenti che la funzione di localizzazione è attiva. Insomma la via alla tutela dei nuovi diritti è lastricata di nuove applicazioni.
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