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Il lavoro, in piazza e nei palazzi
24 Febbraio 2012
Articoli del 2012
Articoli e interventi di Valentino Parlato, Daniela Preziosi, Maurizio Landini e Alberto Di Stasi sul un aspetto cruciale del conflitto tra diritti e mercato, in vista del'appuntamento del 9 marzo. il manifesto, 23 febbraio 2012

Lo spartiacque della Fiom

di Valentino Parlato

Le crisi sono una cosa seria e costringono a prove di verità. Il 9 di marzo ci sarà lo sciopero generale dei metalmeccanici della Fiom. Uno sciopero contro la crisi e l’offensiva sui licenziamenti. Bene. Nel Pd c’è discussione sul che fare: sostenere e farsi parte attiva di questo sciopero o stare a guardare? Questo dilemma (diciamo dilemma, ma è importante scelta politica) pare che divida il Partito democratico, che non vorrebbe cancellare o ridurre il suo sostegno al governo Monti. Ma, c’è da chiedersi, sostenere e partecipare allo sciopero della Fiom sarebbe un tradire l’impegno assunto con il governo Monti?

Certamente la situazione è difficile, ma se si sostiene il governo Monti per uscire dalla crisi, bisognerebbe anche sostenere lo sciopero dei metalmeccanici investiti dalla crisi. Lo sciopero del 9 marzo della Fiom è diventato un serio discrimine della politica del Pd, il quale per liberarsi di Berlusconi ha ben accettato il governo Monti, ma non potrebbe consentire a Monti di fare quel che Berlusconi non è riuscito a fare.

Insomma la questione è fortemente politica e non solo sociale. Il Pd deve assumere una posizione chiara a sostegno dello sciopero dei metalmeccanici, che sono stati, storicamente, un’avanguardia del nostro movimento operaio. Il Pd non può fare finta di niente o dire: io non c’ero.

L’attesa di una posizione chiara e forte interessa i democratici italiani, che per esperienza sanno che sempre nel passato la Fiom è stata un’avanguardia non solo del movimento operaio, ma della democrazia. Nella grave e difficile situazione del nostro paese non solo i lavoratori, ma tutti i cittadini si aspettano (hanno il diritto di aspettarsi) una risposta forte da parte del gruppo dirigente del Pd. Far finta di niente ridurrebbe al niente che resta della democrazia italiana.

Fornero va avanti e il Pd è nei guai

di Daniela Preziosi

La ministra: farò una buona riforma con l'art. 18, e comunque la farò. Bersani: serve l'accordo. Nuovo caso Fassina: chiede alla segreteria se deve andare al corteo Fiom «Non è un problema solo mio» Se il partito autorizza il dirigente, c'è il rischio di una reazione a catena che porta dritta al congresso

Contro un pezzo del suo partito e contro i 'tecnici': è un doppio braccio di ferro, quello del segretario Pd Bersani. Sulla riforma del mercato del lavoro, il governo va avanti come un caterpillar e rischia di schiacciare il Pd. Ieri la ministra Fornero ha risposto a quel «vedremo» che il leader democratico aveva pronunciato sul voto a un'eventuale riforma non condivisa da tutte parti sociali (leggasi sindacati, leggasi Cgil). «Penso che anche il Pd possa votare una buona riforma», ha detto, «ma se ci sarà accordo solo su una riforma che il governo non giudica buona, il governo si assumerà la responsabilità di andare avanti e il parlamento si assumerà la responsabilità di appoggiarlo o meno». Una minaccia, neanche tanto sobria.

Bersani, che domani presenterà il suo tour nei distretti «del lavoro e dell'impresa», finge gesuiticamente di non capire, ma in pratica restituisce la pariglia: «Dice bene Fornero: il Pd appoggerà una buona riforma. Naturalmente la valuteremo confrontandola con le nostre proposte. Quel che ci vuole è un buon accordo perché i mesi difficili che abbiamo davanti devono essere affrontati con il cambiamento, con l'innovazione e con la coesione sociale».

Ma il buon accordo sembra inarrivabile. Il governo, pressato dall'Europa, dal Pdl, da Confindustria, vuole portare a casa una riforma a qualsiasi costo. Toccando «il santuario» dell'art.18, non foss'altro per un fatto simbolico. L'uscita di Veltroni e compagni, che dall'interno del Pd si sono detti d'accordo, è servita a segnalare che il partito non è compatto. L'ala dei sì ad ogni costo, alla Camera, comincia a contarsi.

Nel Pd del resto ormai lo show down difficilmente potrà essere rimandato a lungo. Ieri Stefano Fassina, messo di nuovo sulla graticola per l'annuncio della sua partecipazione alla manifestazione della Fiom il 9 marzo, ha fatto una contromossa arditissima. Ha chiesto alla segreteria di decidere sulla sua partecipazione al corteo. Respingendo tutte le accuse: la manifestazione, «contrariamente a quanto affermato da tanti poco informati, non ha come obiettivo il governo Monti» ma Marchionne. « Il punto fondamentale è la negazione della democrazia negli stabilimenti Fiat e, aspetto altrettanto grave, la discriminazione degli iscritti Fiom dalle ri-assunzioni a Pomigliano». Quindi «partecipare, senza aderire in coerenza con il principio di autonomia tra partiti politici e forze sociali, non vuole dire sottoscrivere le singole rivendicazioni proposte dagli organizzatori. Vuol dire dimostrare sensibilità politica verso le drammatiche condizioni di milioni di lavoratori e lavoratrici e verso i problemi acuti di democrazia nel nostro Paese». Ma dato il «delicatissimo» passaggio e la polemica delle minoranze interne, meglio che la segreteria si assuma la responsabilità.

Gli è subito planato accanto Matteo Orfini, altro giovane della segreteria abituato, come Fassina, a partecipare ai cortei Fiom. Che rincara la dose: «Non si può non vedere come questo sciopero cada in un momento molto particolare della vicenda Fiat: il piano Fabbrica Italia, con i suoi 20 miliardi di investimenti promessi, è scomparso dai radar. La sfida di Marchionne si rivela ogni giorno di più per quello che è: un tentativo, peraltro fallimentare, di competere sulla riduzione dei costi e dei diritti». «Oggi siamo alla rappresaglia, con il rifiuto di assumere chi ha la tessera Fiom. A dividerci non è il giudizio sul governo Monti. Il punto è quale collocazione abbiamo in mente per l'Italia nella competizione internazionale, se sotto sotto non crediamo invece di dovere accettare come un destino ineluttabile una sorta di retrocessione dell'Italia nel mondo».

I liberal Pd di Enzo Bianco, che già qualche mese fa avevano chiesto le dimissioni di Fassina tornano alla carica. Ma Fassina stavolta vuole mettere un punto. «Voglio capire se il rapporto con i lavoratori, e quindi la presenza alle loro manifestazioni, sono un problema personale o del partito». Ma è domanda ad altissimo rischio. Una risposta netta è tutto quello che il segretario ha evitato di fare fin qui. Per scongiurare una reazione a catena nel partito che porta dritti a un congresso anticipato.

In molti, anche dell'ex maggioranza bersaniana, sono sbilanciati verso un 'montismo' senza se e senza ma. I veltroniani, i cattolici di Fioroni, ma Enrico Letta, vicesegretario. E D'Alema. Che da giorni dice che «contro questo governo non si prepara il dopo», intendendo le alleanze. Figuriamoci il prima, cioè figuriamoci se è in discussione l'appoggio a Monti. d.p.

Maurizio Landini

«Questi sono toni autoritari»

intervista di Francesco Piccioni

La sensazione – tra le sortite dei ministri e l’irruzione di Marchionne su Confindustria – è che si stia stringendo un cappio intorno alla condizione del lavoro e anche alla democrazia. Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, sta preparando uno sciopero generale dei metalmeccanici che ha in piattaforma anche le scelte del governo, a partire dall’art. 18.

Hai sentito le parole di Fornero?

Penso che queste affermazioni del ministro del lavoro e di Monti, che indicano la volontà di fare una riforma del mercato del lavoro anche senza il consenso delle parti sociali, o addirittura dei partiti che sostengono il governo, assumono preoccupanti toni autoritari. Riforme che vogliono durare nel tempo debbono essere costruite con il consenso dei soggetti che sono coinvolti. Non c’è coesione sociale senza un vero processo democratico. Nel merito: in questa fase, il problema è creare nuovi posti di lavoro. Trovo non accettabile e sbagliata l’idea di cancellare la cassa integrazione straordinaria (cigs) che è, e rimane, l’istituto utile per favorire processi di riorganizzione industriale senza aprire ai licenziamenti collettivi.

Chi finanzia la Cig?

In generale è pagata con i contributi di lavoratori e imprese, non dallo stato. La possibilità di estendere gli ammortizzatori sociali – una nostra richiesta importante – si realizza se tutte le imprese e i loro dipendenti, di qualsiasi dimensione e settore, pagano un contributo per averla. Questa ossessione di considerare come problema ineludibile la modifica del diritto a essere reintegrati nel lavoro quando si è ingiustamente licenziati, è un altro tema che non c’entra nulla con la riduzione della precarietà e il creare nuovi posti di lavoro.

L’art. 18 divide anche Confindustria: Bombassei con Marchionne contro Squinzi.

Penso di non sbagliarmi se dico che la maggioranza degli imprenditori ritiene che il problema non sia l’art. 18. È una bugia pura dire che in Italia non c’è la possibilità di riorganizzare le imprese perché non si può ridurre in modo concordato il personale. La imprese non assumono perché non hanno da lavorare. Come si superano i ritardi del paese? C’è un problema di infrastrutture, un livello di corruzione altissimo, di illegalità e di evasione fiscale senza paragoni, un atteggiamento delle banche che non aiuta chi vuol fare impresa. È questo che sconsiglia gli investitori dal venire in Italia, non l’art. 18. Chi vuole abolirlo, non solo punta a licenziamenti individuali facili, ma soprattutto vuole modificare il sistema di relazioni sindacale. L’idea è cancellare la contrattazione collettiva come mediazione sociale tra impresa e lavoro.

Perché un Presidente di Confindustria dovrebbe dire «vogliamo licenziare solo ladri e fannulloni»?

Le trovo sinceramente affermazioni inaccettabili e irrispettose per la persone al lavoro. Descrivono un’idea piuttosto sballata delle relazioni sindacali e del lavoro.

Com’è il clima in cui state preparando lo sciopero del 9 marzo?

Tra i metalmeccanici stiamo riscontrando un consenso diffuso. Contro le scelte della Fiat, certo. Ma c’è anche un crescente dissenso sulle scelte di politica economica del governo. A partire dalla riforma delle pensioni, che viene percepita come una cosa contro l’occupazione giovanile, e che non tiene conto della diversità tra i vari lavori. E si pone un problema di democrazia. Chiediamo che il governo cancelli l’art. 8 della «manovra Sacconi» (che permette accordi ind eroga a contratti e leggi, ndr) e faccia una riforma che riduca davvero la precarietà, estendendo tutele e regole a tutti. C’è bisogno di un piano straordinario di investimenti, pubblici e privati, per cambiare il modello di svluppo. Non solo Fiat non sta più investendo in Italia. Grandi gruppi, persino pubblici come Finmeccanica, dicono di voler dismettere produzioni nell’energia civile o nei trasporti. Su questo c’è un vuoto preoccupante di iniziativa da parte del governo.

C’è una relazione col tipo di ricchezze denunciate da tutti i ministri attuali?

Da una lettura dei loro redditi mi colpisce il fatto che ci siano investimenti solo in operazioni immobiliari o finanziarie. Dà l’idea che in questi anni si è imposta una scarsa attenzione a investire su attività «reali». Dimostrano la necessità di un cambiamento culturale: svalorizzazione del lavoro e forza della finanza hanno portato molte persone a svalorizzare il ruolo dell’attività manifatturiera. Questo influisce sul tipo di logica con cui si guarda al «bene comune» del paese.

C’è consenso anche fuori dalle tute blu?

La difesa di un lavoro con diritti, la democrazia sui posti di lavoro, il superamento della precarietà, parlano a tutti, non solo a noi, Ci sono riscontri molto positivi con studenti, precari e movimenti costruiti in questi anni su una diversa idea di uscita dalla crisi. Da quello per l’acqua a molti altri soggett. Prevedo una grande manifestazione, il 9. Trovo invece preoccupante che un governo – eletto in Parlamento, ma non con un voto popolare – possa avere un atteggiamento vero il Parlamento o i partiti tipo «o fate come dico io, o ve ne assumete la responsabilità». C’è un problema anche per il governo, di rispetto delle regole della democrazia nel nostro paese.

Il welfare del Quirinale

di Antonio Di Stasi

L’ultimo intervento del Presidente della Repubblica sulla necessità di «mettere in piedi un sistema di welfare e sicurezza sociale diverso» fa sorgere una domanda: l’attivismo e il contenuto delle affermazioni del Presidente della Repubblica sono rispettose del ruolo che la Costituzione prevede per il capo dello Stato?
Anche chi non ha una cultura giuridica da costituzionalista avverte l’originalità del comportamento di Napolitano rispetto a consolidati precedenti di astensione dall’intervento diretto nelle questioni politiche e di governo, tanto che, nell’ultimo anno, hanno lasciato quantomeno perplessi sia i suoi interventi a favore della guerra in Libia, sia la nomina di Monti a Senatore a vita prima di dargli l’incarico di Capo del Governo.

Di fronte al «fragore» degli episodi appena richiamati sembrerebbero poca cosa le ultime affermazioni relative al welfare. In realtà, con esse Napolitano asseconda chi vuol colpire il cuore dello Stato sociale e distruggere il valore primo della Legge fondamentale della Repubblica che connota in senso sociale il nostro Stato (come quelli tedesco, francese, portoghese, et altri). Il «lavoro» è valore fondante della Costituzione (artt. 1, 2, 3, 4, 35, 36, 37, 38 della Costituzione) ed è posto, nello stesso momento, quale elemento di inclusione sociale, di dignità e architrave del sistema di sicurezza sociale. Toccare i diritti del lavoro significa tradire il principio cardine dell’intera architettura costituzionale e, dunque, della civiltà democratica e sociale che la Repubblica ha espresso dalla Resistenza ad oggi.

Se infatti la priorità, come afferma la ministra Fornero e come riecheggia il Presidente Napolitano – in un concerto di dichiarazioni in cui non sfugge certamente la «paternità» – è sostituire il sistema di sicurezza sociale precedente (costruito intorno alla difesa e al mantenimento del lavoro) con un sistema «nuovo», «moderno», è evidente come questo sistema non abbia più il proprio baricentro nel lavoro, ma in qualcosa di altro.

E allora Napolitano quando parla di «sistema di welfare e di sicurezza sociale diverso» cosa ci vuole dire? Ancora una volta lo capiamo bene sia dagli ultimi provvedimenti in materia di innalzamento dell’età pensionabile, di abbassamento dei diritti previdenziali, di totale abolizione della pensioni di anzianità, di blocco della rivalutazione delle pensioni, e sia dalle dichiarazioni della ministra Fornero che vuole rendere i lavoratori giovani più precari toccando l’art. 18 ed eliminare la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria. Ecco cosa si prospetta con la riforma del welfare e la riforma degli ammortizzatori sociali: la tutela del lavoro non è più una priorità e il lavoro non è più diritto esso stesso; si preferisce tornare alla liberale assicurazione contro la disoccupazione involontaria piuttosto che utilizzare la molto più recente Cigs per mantenere intatta la capacità di un gruppo di lavoratori e non disperdere la loro professionalità.

In questa furia restauratrice non c’è nulla di nuovo ed i diritti dovrebbero lasciare il posto ad ottocentesce (altro che moderne) «gentili concessioni». Un’idea già contenuta nel Libro Bianco del 2001, ad opera dell’allora ministro Maroni, secondo cui le tutele andrebbero spostate dal rapporto di lavoro al «mercato» e con il passaggio da diritti soggettivi a mere aspettative rimesse a unilaterali vincoli economici. Intendere l’equità secondo il principio che «chi già più ha più deve continuare ad avere» e non attraverso il principio della pari dignità sociale attraverso l’essere lavoratore significa tradire nel più profondo la Carta costituzionale. Di questo il Presidente della Repubblica deve rendersi conto.

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