il manifesto, 29 gennaio - 1° febbraio 2017, con postilla
29 gennaio 2017
PERCHÉ AL «REDDITO DI CITTADINANZA»
PREFERISCO IL LAVORO
di Laura Pennacchi
Ha più di un fondamento l’affermazione de Le Monde secondo cui è «una falsa buona idea» l’ipotesi del «reddito universale» o «reddito di cittadinanza», che in tempi di populismi dilaganti ricorre dall’Italia alla Francia. Questa ipotesi (con cui si mira a garantire a tutti, per il solo fatto di essere cittadini di una comunità, un reddito universale non sottoposto a nessun’altra condizione) pone immensi problemi di costo – si discute di centinaia di miliardi di euro -, a fronte del ben più limitato ammontare che sarebbe richiesto da «Piani per la creazione diretta di lavoro per giovani e donne» ispirati alla prospettiva del «lavoro di cittadinanza» e al New Deal.
Un costo così illimitato rende la prima semplicemente irrealizzabile e i secondi assai più credibili e questo basterebbe a chiudere la diatriba, se non fosse che l’ipotesi di «reddito di cittadinanza» pone anche rilevantissimi problemi culturali e morali, sui quali è bene soffermarsi.
Non può essere sottovalutato che tra i primi sostenitori della proposta di «reddito di base incondizionato» ci fu Milton Friedman, il monetarista antesignano del neoliberismo che ne formulò una versione a base di riduzione drastica di spesa pubblica e tasse e rete protettiva ridotta all’osso per i deboli, come nella «imposta negativa».
Ma anche vari teorici di sinistra finiscono con l’avvalorare, pur di realizzare il «reddito di base», l’immagine di uno stato sociale «minimo», specie nelle varianti più conseguenti che suggeriscono di assorbire nel nuovo trasferimento tutti quelli esistenti (tra cui le prestazioni pensionistiche e l’indennità di invalidità civile) e di azzerare la fornitura di servizi pubblici dalla cui sospensione verrebbero tratte le risorse aggiuntive necessarie al finanziamento.
Sottostante a tutto ciò c’è una strana resistenza, anche a sinistra, a fare i conti con le implicazioni più profonde della crisi «senza fine» esplosa nel 2007/2008, quasi si fosse indifferenti ad un’analisi politico-strutturale del neoliberismo e del suo esito più devastante, la «crisi permanente» per l’appunto. La motivazione con cui da parte di molti si giustifica il «reddito universale» è del tipo «tanto il lavoro non c’è e non ci sarà o quello che c’è è di tipo servile». Con questa motivazione, però, il «reddito di cittadinanza» viene a comportare una sorta di accettazione rassegnata della realtà così come è, quindi una sorta di paradossale sanzione e legittimazione dello status quo per il quale si verrebbe a essere esentati dal rivendicare trasformazioni più profonde e l’operatore pubblico si vedrebbe giustificato nella sua crescente deresponsabilizzazione (perché per qualunque amministratore è più facile dare un trasferimento monetario che cimentarsi fino in fondo con la manutenzione, la ricostruzione, l’alimentazione di un tessuto sociale vasto, articolato, strutturato).
In questa prospettiva è quasi del tutto assente il tentativo di intrecciare l’analisi delle trasformazioni con una osservazione degli elementi strutturali del funzionamento dell’accumulazione e della produzione del sistema economico capitalistico nella sua distruttiva versione neoliberista. Ci si limita a una considerazione delle diseguaglianze come problema solo distributivo e redistributivo da trattare ex post, non anche problema allocativo da trattare ex ante perché attinente al funzionamento delle strutture, dell’accumulazione, della produzione. Problemi di allocazione e di struttura si pongono tanto più al presente: il necessario «nuovo modello di sviluppo» non nasce spontaneamente, né solo per virtù di incentivi monetari, quale è anche il «reddito di cittadinanza», ma ha bisogno di pensiero, ideazione, progetti.
Chiarezza concettuale e culturale va fatta sulla stessa concezione del lavoro. L’escamotage a cui alcuni a sinistra ricorrono – sosteniamo insieme sia il «reddito universale» sia la «piena occupazione» – è fittizio e lascia tutti i problemi irrisolti. Stupisce, piuttosto, che oggi solo soggetti religiosi – come papa Francesco, il papa che ha definito il neoliberismo «l’economia che uccide» – mostrino una persistente forte sensibilità al trinomio lavoro/persona/welfare, ribadendo che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’avere ma l’«essere» del lavoratore. Così come stupisce che non si faccia appello al Marx che, con Hegel, vede nel lavoro – nella sua «inquietudine creatrice» – il processo attraverso il quale l’uomo non si limita a metabolizzare ma media anche simbolicamente il rapporto fra se stesso e la natura, cambia se stesso dandosi una funzione autotrasformativa, esplora sistematicamente dimensioni intellettuali di consapevolezza e di progettualità.
Dunque, piuttosto che ambire a costruire un «welfare per la non piena occupazione», la priorità assoluta va data alla creazione di lavoro demolendo l’ostracismo che è caduto sull’obiettivo della «piena e buona occupazione», nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – vorrei dire la sua «rivoluzionarietà» – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society.
Non a caso il grande studioso Anthony Atkinson, scomparso da pochi giorni, da un lato proponeva un «reddito di partecipazione», cioè un beneficio monetario da erogare sulla base dell’apporto di un contributo sociale (lavoro di varia forma e natura, istruzione, formazione, ecc.), dall’altro si riferiva a Keynes e a Minsky e consigliava di tornare a prendere nuovamente sul serio l’obiettivo della piena occupazione, facendo sì che i governi operino come employer of last resort offrendo «lavoro pubblico garantito», dall’altro ancora suggeriva che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte delle istituzioni collettive, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione. Qui peraltro – sosteneva Atkinson – si colloca la possibilità di smascherare l’inganno che si cela dietro le fantasmagoriche proposte (istituire privatamente e localmente forme di «reddito di cittadinanza») di alcuni imprenditori della Silicon Valley, interessati a ribadire che l’innovazione è guidata dall’offerta (cioè, traduceva Atkinson, dalle corporations) e non dalla domanda e dai bisogni dei cittadini, ai quali bisogna dare solo capacità di spesa e potere d’acquisto, cioè reddito magari sotto forma di «reddito di cittadinanza».
Benoit Hamon, che ha prevalso con ampio margine nelle primarie del Partito socialista francese per la candidatura all’Eliseo, e che guarda a una possibile alleanza rosso-rosso-verde, ha posto tra gli obiettivi centrali del suo programma il reddito di cittadinanza.
Seppure, nei tempi e nei modi della sua realizzazione, ha spesso oscillato dall’originaria impostazione universalistica e incondizionata a soluzioni più graduali e circoscritte, resta un segnale forte che, insieme al rifiuto della Loi Travail, ha saputo mobilitare una parte consistente dell’elettorato di sinistra, giovanile in particolare.
Del reddito di cittadinanza esistono infinite varianti e interpretazioni nel corso di una storia assai lunga che ha attraversato movimenti e progetti politici antagonisti, del tutto antitetici alla tradizione liberale nella quale gli avversari del basic income, si sforzano insistentemente di rinchiuderlo. Ricordare che Milton Friedman proponesse, a suo modo, forme di distribuzione estranee al rapporto di lavoro, è altrettanto insignificante quanto sottolineare l’affezione dei fascismi per la piena occupazione.
Resta il fatto che a sinistra il reddito di cittadinanza (o di base) incontra molteplici resistenze, ideologiche prima ancora che contabili. Il che rende questa vittoria di Hamon tanto più significativa e probabilmente dovuta, oltre che alla presa di distanza dal neoliberismo, dall’aver incrociato la domanda dei tanti soggetti sociali esclusi dagli ammortizzatori sociali che la sinistra tradizionalmente difende e gelosamente amministra.
Ormai stufi di rincorrere la promessa della piena occupazione da cui tutto dovrebbe discendere. L’articolo di Laura Pennacchi, pubblicato su queste pagine domenica scorsa, ci offre un catalogo piuttosto completo di queste resistenze. Che spaziano dal costo finanziario del basic income al «valore etico» del lavoro, con immancabile citazione di papa Francesco il quale, facendo il suo mestiere, fa risiedere nell’ora et labora, l’essenza della persona. Quanto ai costi del reddito universale (che dovrebbe riassorbire altre forme di previdenza) esistono tanti calcoli quante ne sono le varianti.
Qui, non potendo entrare in questioni tecniche, basterà dire che nel mondo barbaramente diseguale descritto da Piketty, l’insufficienza delle risorse è un argomento generalmente piuttosto debole.
Vi sono due tendenze alle quali quanti coltivano la fede nella piena occupazione non danno risposta.
La prima è che l’automazione e la tecnologia sono, per loro essenza, votate al risparmio di lavoro, a ridurre cioè il dispendio di fatica umana nella produzione di ricchezza. Che questa potenzialità si rovesci in disoccupazione e miseria è una conseguenza dei rapporti sociali. Solo nei momenti di più feroce sfruttamento (come la prima rivoluzione industriale) moltiplicano lavoro, perlopiù ripetitivo, dequalificato e sottoposto a un rigido comando gerarchico.
Oppure, come nell’epoca digitale, lavoro gratuito più o meno inconsapevole. Veniamo così alla seconda tendenza, del tutto invisibile a quanti guardano al reddito di cittadinanza con gli occhiali appannati dei classici ammortizzatori sociali. Viviamo in una società nella quale gran parte delle attività che ne fanno la ricchezza e la qualità sociale non sono riconosciute come lavoro e non danno diritto ad alcuna forma di reddito.
L’inattività assoluta è una pura e semplice invenzione ideologica. Per dirla con una formula secca non è di disoccupazione, ma di «disretribuzione» che dovremmo parlare. Il rapporto tra lavoro e reddito è stato di fatto già reciso, ma non dal reddito garantito, bensì dal dilagare del lavoro gratuito. Tradurre in contratti di lavoro retribuiti e regolamentati, per non dire stabili, queste molteplici attività che formano il fitto tessuto della cooperazione sociale va, questo sì, ben oltre il più strenuo sforzo di fantasia.
Detto altrimenti, ci troviamo già in una situazione di piena occupazione, la quale si presenta appunto nelle forme del lavoro precario, intermittente e gratuito da cui trae alimento il cosiddetto «capitalismo estrattivo». In questa prospettiva il reddito di base non è che il trasferimento di una parte di questa ricchezza a coloro che effettivamente la producono e non un semplice ammortizzatore sociale.
Si tratta, insomma, di un obiettivo pienamente politico e anche di un relativo trasferimento di potere.
La garanzia di un reddito comporta infatti maggiore forza contrattuale e più ampi margini di libertà dalle pretese del dirigismo pubblico di stabilire l’ «utilità sociale» come da quelle dello sfruttamento privato. «Datori di lavoro» è una espressione che non consente equivoci di sorta, che si tratti dello stato o del padrone.
Esprime, infatti, il potere di stabilire se, come, quanto, quando e cosa «dare». Una prerogativa alla quale non si rinuncia certo facilmente. E con la quale il desiderio di autonomia di innumerevoli soggetti produttivi non può che entrare in rotta di collisione.
1° febbraio 2017
REDDITO E LAVORO DUE IPOTESI DIVERSE
MA NON ALTERNATIVE
di Aldo Carra
Gli articoli di Laura Pennacchi e di Marco Bascetta, mentre nel partito socialista francese vince un candidato con la bandiera del reddito universale e della riduzione degli orari di lavoro, ripropongono la divaricazione dei punti di vista della sinistra italiana.
Da una parte centralità della creazione di nuovo lavoro come fonte di reddito, dall’altra affermazione del diritto ad un reddito di cittadinanza a prescindere dalla prestazione lavorativa.
Dopo il No dei giovani al referendum, la denuncia della crescita delle disuguaglianze per scarsità di lavoro e bassa remunerazione, mentre si sta dispiegando una ristrutturazione dei soggetti politici e tra poco dovremo affrontare referendum Cgil ed elezioni, una piattaforma politica della sinistra sulla materia si impone con urgenza. Proporrei alcuni punti di riflessione.
1 – Il matrimonio tra reddito e lavoro per cui non si dava reddito senza lavoro e lavoro senza reddito è finito da tempo: le diverse forme di welfare hanno introdotto sostegni al reddito che prescindono da prestazioni lavorative; negli ultimi anni si sono diffuse forme diverse di lavoro non retribuito connesse a prestazioni fatte per un mix di impegno civile, aspettative indotte, piacere personale. Forse se la dimensione spaventosa della disoccupazione misurata col metro tradizionale di lavoro e non lavoro non assume caratteri di rivolta è anche per questa area cuscinetto che vive in un limbo sostenuto spesso da ammortizzatori familiari.
2 – In uno quadro così dinamico le due ipotesi estreme presentano diverse criticità. La proposta di puntare esclusivamente a programmi di crescita capaci di creare occupazione in presenza di livelli di disoccupazione straordinari – 10 milioni tra disoccupati, scoraggiati, cassintegrati – non appare realistica, tenendo presente che innovazioni e robotizzazione ridurranno ulteriormente il lavoro necessario. Sul lato estremo, concentrare attenzione e risorse su una forma di sostegno come il reddito di cittadinanza appare a molti rinunciataria perché non si cimenta con la costruzione e la sfida di un nuovo modello di sviluppo oltreché negativa e dannosa sul piano etico.
3 – Collocando queste due ipotesi alle estremità di una scala, si possono ipotizzare svariate soluzioni intermedie come un reddito di cittadinanza attiva, cioè erogato in funzione di prestazioni lavorative prevalentemente di carattere sociale, ed un lavoro di cittadinanza come dovere delle istituzioni verso i cittadini e diritto dei cittadini. Le diverse proposte non sono necessariamente alternative. Al contrario, penso si possa progettare una strategia articolata, percorsi che consentano l’adattamento alle esigenze dell’individuo e dei territori con soluzioni e strumenti differenziati in veri e propri piani pluriennali. Maggiore credibilità alle due proposte dovrebbe venire dalla riduzione degli orari di lavoro, incoraggiandola nei rinnovi contrattuali con misure condizionate a nuove assunzioni e incentivi compensativi delle perdite di salario.
4 – Le diverse ipotesi, prese singolarmente o intrecciate e graduate, hanno implicazioni in termini di costo. Ciò implica investimenti pubblici sia nei settori produttivi che in quelli sociali (dai servizi alle manutenzioni, ripensando in forme nuove ai lavori socialmente utili) reperendo le risorse con una maggiore progressività sulle fasce alte sia delle imposte sui redditi che sui beni patrimoniali e sulle successioni, con investimenti diretti europei, con spesa pubblica esclusa dai vincoli di bilancio, senza trascurare l’ipotesi, a questo fine, di creare la moneta fiscale.
Un Piano straordinario di investimenti per il lavoro e per il reddito come programma minimo comune per un nuovo soggetto politico della sinistra. Se si discutesse di più di questo e, a cominciare dal congresso di Sinistra Italiana, si potesse delineare una piattaforma da discutere con il mondo giovanile innanzitutto, come base di possibili alleanze penso che il progetto ambizioso di Sinistra Italiana partirebbe col piede giusto.
1° febbraio 2017
«REDDITO DI BASE CONTRO LA PRECARIETÀ,
MODELLO HAMON PER SINISTRE E SINDACATO»
intervista di Roberto Ciccarelli ad Andrea Fumagalli
«Intervista a Andrea Fumagalli, economista dell'università di Pavia e membro del Basic Income Network Italia: "A livello europeo qualcosa si muove in Francia dove Benoît Hamon ha vinto le primarie socialiste sostenendo il reddito di base nel suo programma. Bisogna passare da una logica puramente difensiva a una propositiva e adeguata ai nuovi processi di accumulazione e di valorizzazione capitalistica"»
«Dai dati Istat sulla forza lavoro emerge che il mercato del lavoro italiano è in forte stagnazione e gli sperati effetti del Jobs Act non si sono fatti sentire – afferma l’economista Andrea Fumagalli, docente all’università di Pavia e membro dell’associazione del Basic Income Network per il reddito di base in Italia – Una volta terminata la droga degli incentivi la crescita occupazionale si è interrotta e quella che c’è stata è trainata dai contratti precari. Il contratto a tutele crescenti, anche se viene considerato un contratto a tempo indeterminato nelle statistiche, in realtà è un contratto a tempo o un contratto di apprendistato lungo tre anni. Già adesso si inizia a vedere che molti lavoratori assunti con questo contratto sono licenziati a un costo irrisorio per le imprese ed è probabile che a tre anni dall’introduzione del Jobs Act il numero di coloro che saranno assunti stabilmente sarà relativamente basso. Ciò dipende dalle politiche assistenziali all’impresa deliberate dal governo Renzi non hanno avuto effetti sul livello della domanda e dei consumi interni e ha favorito la stagnazione del Pil e una riduzione del potere di acquisto, oltre che il rischio di una deflazione strutturale».
Perché cresce la disoccupazione giovanile?
C’è un effetto demografico dovuto non tanto all’aumento della componente giovanile che è in calo, ma all’aumento della fascia dei lavoratori con più di 50 anni, uno degli effetti dell’onda lunga del boom demografico degli anni Sessanta. Fenomeno accentuato anche dalla riforma Fornero che ha aumentato l’età pensionabile in modo drastico. Questa situazione fa da tappo a un potenziale aumento dell’occupazione giovanile. Aumenta lo scollamento tra una forza lavoro giovanile mediamente più istruita rispetto alla domanda di lavoro che ancora ricerca competenze basse. Questo dipende dalla struttura produttiva italiana votata a produzione tradizionali a basso valore aggiunto e meno innovative.
Il programma «garanzia giovani» ha funzionato?
Grazie anche a un cospicuo finanziamento europeo doveva favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. I risultati sono stati di gran lunga inferiori all’obiettivo dichiarato dal ministro Poletti di inserire nel mercato del lavoro quasi un milione di giovani. Quelli inseriti vivono condizioni contrattuali precarie ad alta ricattabilità o forme di lavoro non pagato.
Perché il mercato del lavoro italiano si conferma sempre tra i peggiori in Europa?
In Italia, più che altrove, il perseguimento ottuso di politiche di sostegno all’offerta produttiva si è coniugato con politiche salariali inadeguate. Non esiste un salario minimo, né un sostegno al reddito minimo. E sono continuate le politiche di riduzione della spesa pubblica sociale in un contesto economico dove la produttività del lavoro cresce a ritmi insufficienti proprio a causa dell’eccesso di precarietà.
È possibile un’inversione di tendenza?
Con le elezioni politiche a breve è difficile che possa esserci. Sul medio-lungo periodo potrebbe essere possibile solo se cambiasse la prospettiva culturale e politica, anche all’interno delle forze di sinistra e sindacali.
In che modo?
Che non si facciano schiacciare da una retorica di tipo lavoristico e che riescano invece a elaborare politiche aperte e innovative di sostegno al reddito in grado di creare le premesse per una valorizzazione delle competenze e delle capacità lavorative che già esistono.
Sarà mai possibile?
Al momento attuale non se ne vedono le premesse. A livello europeo qualcosa si muove in Francia dove Benoît Hamon ha vinto le primarie socialiste su questo programma. Bisogna passare da una logica puramente difensiva a una propositiva e adeguata ai nuovi processi di accumulazione e di valorizzazione capitalistica.
postilla
Sembra davvero difficile per la sinistra italiana (non consideriamo ovviamente parte della sinistra la compagine renziana) guardare al tema del lavoro dell’uomo fuori dal confine del capitalismo. Quasi mai si sente il respiro, il desiderio, l’esigenza di porre la questione del lavoro nell’ottica di una nuova visione della persona umana. In questo gruppo di articoli – che abbiamo ripreso da un recente dibattito del manifesto – l’unica che vi accenna è Laura Pennacchi. E ne accenna riprendendo le parole di un uomo che non può essere ricondotto al concetto classico, e forse obsoleto, di “sinistra”: Papa Francesco.
Stupisce, scrive Pennacchi «che oggi solo soggetti religiosi – come papa Francesco, il papa che ha definito il neoliberismo “l’economia che uccide” – mostrino una persistente forte sensibilità al trinomio lavoro/persona/welfare, ribadendo che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’"avere" ma l’”essere” del lavoratore».
Da qui bisognerebbe ripartire, magari ricordando i ragionamenti di un altro grande economista troppo presto dimenticato, Claudio Napoleoni. Ma qui ci fermiamo, promettendoci di riprendere il discorso in uno spazio un po’ più ampio di una postilla. (e.s.)