«Siano avvertiti il Partito e l’Università di Padova». Così si leggeva su un biglietto che i familiari trovarono indosso a Concetto Marchesi nel momento della sua morte, a Roma, il 12 febbraio 1957, cinquant’anni fa. Quel biglietto, Marchesi lo portava con sé da alcuni giorni, in previsione dell’unico viaggio per il quale (diceva) non si sarebbe recato alla stazione con un quarto d’ora d’anticipo.
Il commiato dalla vita del grande umanista - nativo di Catania, ha appena compiuto settantanove anni - avviene in un quadro a suo modo sontuoso. Vi partecipano, appunto, l’ateneo padovano in cui ha insegnato per trent’anni, e soprattutto il Pci, nel quale ha militato dal 1921. L’Unità gli dedica quattro fitte pagine, con firme molto note, da Ranuccio Bianchi Bandinelli a Francesco Flora, da Vincenzo Arangio Ruiz a Gabriele Pepe. Di fronte alla salma, la scrittrice Sibilla Aleramo sprofonda nel lirismo: «Giuro che avrei voluto essere io in sua vece, stesa in tanto limpido riposo». È piena di confronti con De Sanctis e Gramsci l’orazione pronunciata da Togliatti. A "coprire" la cronaca provvede Gianni Rodari. Secondo il quale, uscendo dal suo appartamento in via Cristoforo Colombo per raggiungere la clinica Sanatrix, Marchesi avrebbe detto, in greco, a un suo discepolo: «Oichomai», me ne vado. Nell’articolo di Luigi Russo, celebre italianista anche lui siciliano, si trova un ritratto dell’amico: «Piccolo, snodato, aveva un’aria d’un bambino, o d’un "angelone", come quelli che ricorrono nei nostri paesi nelle cerimonie cattoliche».
Di conversione, nessuno parlò. Marchesi non era il tipo, benché in una delle sue ultime opere, L’Antologia della letteratura latina per i licei, avesse curato con particolare amore la parte relativa agli scrittori del primo cristianesimo, Arnobio, Tertulliano, Prudenzio. Dichiarando poi: «Noi comunisti ci inchiniamo davanti a tutte le fedi», anche a quella «degli apologisti e dei padri della Chiesa». Ecco un modo di ribadire che la sua Chiesa era un’altra. E anche di rispondere in anticipo a una diffusa perplessità, come quella espressa, proprio nel febbraio ‘57, dal Corriere della sera: come si spiega (s’è chiesto il giornale) una ispida «passionalità di accenti» politici in «un uomo che ha studiato con penetrazione alcune delle più serene figure del mondo classico», Marziale, Seneca, Petronio, Fedro, Orazio, Apuleio?
Di fatto, convivevano in Marchesi un filologo e un uomo politico. Impetuoso, quest’ultimo. Beffardo. Incurante di apparire settario. Così egli era stato fin da adolescente. Sulle sue origini aleggiava un precedente suggestivo. Si voleva che egli discendesse da lombi aristocratici, i nobili d’Angiò. Un sacerdote, suo antenato, essendogli nato un figlio naturale, lo aveva dato ad allevare a una coppia di contadini: e il cognome Marchese, diventato poi Marchesi, alludeva a quella origine patrizia. In politica, la precocità di Concetto si manifestò in forme prorompenti, "sovversive". Lucifero, un giornale catanese che egli fondò nel 1894, a sedici anni, venne subito sequestrato per aver osannato al «furore ideologico» che conduceva al patibolo gli anarchici di Parigi. Condannato a un mese di reclusione per apologia di reato, si risparmiò al direttore la prigione: era un ragazzo.
Ma nel ‘96, appena Concetto ebbe compiuti i diciotto anni, la sentenza divenne esecutiva ed egli fu arrestato nella sede dell’Università di Catania: vi si era recato per ascoltare una lezione di Remigio Sabatini (il professore del quale sarebbe restato "discepolo a vita" sposandone la figlia Ada). Dopo il primo mese di carcere, gliene inflissero un secondo per aver commesso «oltraggio a pubblico ufficiale», dando del «rospo» a una guardia.
Su simili episodi Marchesi s’intrattiene nei volumi di memorie Il cane di terracotta, Il letto di Procuste e Il libro di Tersite. S’intitolava Battaglie un libretto di poesie a sua firma uscito nel ‘96 a Catania: egli avvertì che lo aveva scritto «con la rabbia di chi ha una vendetta da compiere e la fede di chi ha un ideale da raggiungere». L’autore avrebbe poi sconfessato quei versi giovanili, ma lo spirito che li connotava gli sarebbe rimasto inalterato lungo un’intera carriera di cattedratico - a Messina e poi a Padova - e di «militante».
Il ventennio fascista coincise con la sua piena maturità. Non era iscritto al fascio, ma adempì nel 1931 all’obbligo, per i professori, di giurare fedeltà al regime. Nei giorni della morte fu Ludovico Geymonat a rimproverargli quel gesto, mentre Cesare Musatti lo difese (e poi Giorgio Amendola nelle sue memorie rivelò che era stato Togliatti ad autorizzare il giuramento). Gli amici di Marchesi andarono a cercare nel suo capolavoro, la geniale Storia della letteratura latina (1927), certi giudizi interpretabili in chiave di critica al fascismo. A partire da quello su Giulio Cesare: «Quest’uomo, giunto al sommo dell’umano potere, lasciò che tutti parlassero, perché le bocche si chiudono quando si è servi della ventura e non signori della storia». Ezio Franceschini, suo biografo, ricorda che nel 1942 Marchesi, rievocando a Perugia Cornelio Tacito, inserì nel discorso acuti sapori antitedeschi. Quello di guardare alla storia come eterno presente era un vezzo del professore catanese. Sedici anni più tardi, nel 1956, all’VIII Congresso del Pci, il nome del massimo storico del Principato gli sarebbe tornato sulle labbra in un contesto sarcastico, contro la demolizione della personalità di Stalin: «Tiberio uno dei più grandi e infamati imperatori di Roma», egli ricordò, «trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito. A Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita Kruscev». Aveva così rassicurato il partito in merito alla sua fedeltà. Compiacendo Togliatti. Al quale, anni prima, aveva rilasciato una patente di umanista. Si può parlare - s’era chiesto - della «cultura classica» del segretario del Pci? «Certo», era stata la risposta, «se per classico s’intende "di prima classe"».
Il partito ricambiava. Con stupore ammirativo veniva ricordato il coraggio mostrato dal latinista nei tardi anni del regime, i più duri. Di quando, per esempio, clandestino a Milano, si faceva passare per l’avvocato Antonio Mancinelli. Lui stesso usava spesso commemorare la notte di Natale del ‘43, allorché nella casa in cui si nascondeva piombarono «come lupi affamati» i compagni di partito Scoccimarro e Li Causi. «Tutti e due insieme!», esclamava il professore. «Sarebbe stata una bella festa se ci avessero presi». Nel maggio di quell’anno, a Padova, Marchesi aveva conosciuto Giorgio Amendola che, pur molto ammirandolo, trovò i suoi argomenti politici «settari e anche ingenui».
Un’accentuata freddezza mostrerà poi nei suoi riguardi Luigi Longo, imputandogli di aver accettato la carica di Rettore, a Padova, nei mesi di Salò. Ma a riportarlo nella "linea" del partito valsero le dimissioni da quella carica, accompagnate, il 1. dicembre 1943, da un vigoroso appello agli studenti di Padova perché si unissero alla Resistenza, a «questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace del mondo».
Febbraio ‘44: Marchesi si rifugia in Svizzera. In settembre eccolo nell’Ossola, nelle file della Resistenza. C’è stato, ai primi dell’anno, un altro colpo di scena a sua firma. Commentando un articolo di Giovanni Gentile sul Corriere della sera, nel quale si invocava la concordia nazionale, Marchesi così aveva reagito: «Concordia è unità di cuori, è congiunzione di fede e di opere: non è residenza inerte e fangosa di delitti e di smemorataggine». E più avanti: «Rimettere la spada nel fodero, solo perché la mano è stanca e la rovina è grande, è rifocillare l’assassino». Questa Lettera aperta a Gentile venne stampata nel giornale «La Lotta» del gennaio 1944. In marzo, essa venne ripubblicata nella rivista clandestina del Pci «La nostra lotta». Era scomparsa la firma. Sotto un nuovo titolo - Sentenza di morte - era stata aggiunta una frase finale: «Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: Morte!». Si sarebbe saputo più tardi che a rimaneggiare il testo aveva provveduto Girolamo Li Causi.
Il 15 aprile 1944 Giovanni Gentile viene assassinato a Firenze. E fra gli enigmi connessi al delitto se ne profila uno con al centro, appunto, la figura di Marchesi. Per tentare di decifrarlo, lo storico dell’antichità Luciano Canfora scriverà assai più tardi, nel 1985, edito da Sellerio, un libro affascinante, una sorta di noir dal vero. S’intitola La sentenza. L’autore percorre l’intero arco delle ipotesi che accompagnano la morte di Gentile (se alla base dell’attentato ci sia un ordine emanato dal Pci, se si debba invece pensare a un’iniziativa "dal basso", e così via). Ma Canfora esamina soprattutto il ruolo che svolse, all’interno del «caso», Concetto Marchesi. Ne ripercorre la carriera di militante comunista. Ricorda le roventi accuse che egli rivolse a Gentile. Esclude che quella variante finale, in cui si parla esplicitamente di morte, apposta da Li Causi al testo di Marchesi, possa essere passata senza la sua approvazione.
Canfora definiva comunque quell’attentato un «fotogramma sfocato». Tale forse è destinato a rimanere. Offuscando, di scorcio, la biografia - che si vorrebbe luminosa - d’un grande umanista.