Quarant’anni ci son voluti perché un autore simile fosse conosciuto appieno nel suo Paese. Ci sono voluti decine di libri stampati all’estero, una Legion d’Onore, premi negli Stati Uniti, traduzioni in inglese, tedesco, francese, persino esperanto e finlandese. E’ il destino di Boris Pahor, triestino di lingua slovena, noto quasi ovunque tranne che in Italia. Per troppo tempo ha fatto comodo non si sapesse che nella città italianissima c’era un grande capace di scrivere in un’altra lingua - la stessa che il fascismo aveva negato a suon di manganello, sputi e olio di ricino - e mettere con i suoi capolavori il dito sulla piaga.
Necropoli - Fazi, pagg. 270, euro 16, prefazione di Claudio Magris e traduzione di Ezio Martin - è dedicato alla prigionia nei Lager nazisti e salda il conto con molte cose: l’oppressione fascista che - si voglia o no - fu la premessa dei forni crematori; la scandalosa anticamera di questo autore ormai novantacinquenne (il libro è del 1967); con la sua umiltà, la sua onorata cittadinanza e la sua limpida passione civile. Ma soprattutto con la bellezza di un testo che si situa a pieno titolo accanto ai capolavori di Primo Levi e Imre Kertész sullo sterminio.
Per Pahor il Muro cade solo ora, ma il ritardo si riscatta con una perfetta scelta di tempo, col libro che esce nel Giorno della Memoria, il primo celebrato dopo la definitiva cancellazione della frontiera tra Italia e Slovenia. E chissà che questo bel rilancio non serva a esorcizzare gli ultimi fantasmi in circolazione sulla Cortina di Ferro che non c’è più, offrendo una base nuova di conoscenza reciproca alle sospettose comunità che la abitano. Un libro importante, perché non recrimina ma guarda al domani, e perché l’Autore - scrive Magris - è uscito dall’inferno integro e vitale, ricco di una «confidenza con la fisicità elementare della vita».
Il libro ha una forte anima slava e non indulge in autocommiserazioni. Non rimane imbrigliato nemmeno nel «tortuoso senso di colpa» di chi è ritornato e sente il peso di essere sopravvissuto ai compagni. Pahor sa di appartenere al suo Lager sui Vosgi, di essergli legato per sempre, ma quando, vent’anni dopo, vede due giovani baciarsi vicino alle camere a gas, anziché indignarsi, sente il richiamo potente del sentimento. Dice: «Noi eravamo immersi nella totalità apocalittica della dimensione del nulla», e quei due ora «galleggiano su qualcosa di altrettanto infinito e che altrettanto incomprensibilmente signoreggia sulle cose».
Il richiamo della natura - indifferente ma consolatrice - è presente nel mutismo del bosco cui egli, durante la prigionia, non riesce affatto a guardare come simbolo partigiano di libertà.
Durante l’esecuzione di un centinaio di giovani prigioniere francesi, egli al contrario gli rimprovera «di offrire, fitto com’è, un nascondiglio alla dannazione». A guerra finita poi, durante una visita guidata al campo della morte, Pahor si sente selvaggiamente respinto da quella buia massa resinosa che a distanza di vent’anni si rivela come una massa di ombre trapassate pronte a difendere «il proprio territorio dalla curiosità di un uomo che passeggia, vestito decentemente, con i suoi sandali estivi».
Il bosco è un incubo che svela il nulla cosmico, sveglia inquietanti presenze ostili, «feti» coscienti del fatto che «il loro sterminio collettivo si era legato all’infinito isolamento della natura e dell’universo». Ma, a viaggio finito, è pur sempre il bosco ad accogliere e consolare il sopravvissuto nell’angolo di un camping solitario, concedendogli di infrattarsi, diventare «libero pellegrino» e assaggiare in un pentolino bollente un sorso di buon latte dei Vosgi che gli riporta alla memoria il profumo di quello munto prima della catastrofe in Slovenia. Un latte mitologico, che «sembrava sapesse di Nigritella» e - sogna Pahor - con «la linfa dei nostri monti ci rafforzava nella lotta contro il terrore nero».
Il libro offre grandiose immagini collettive. Il «formicaio zebrato», la «massa multicefala», le «ossute zanzare acquatiche, ragni bruciacchiati con i sederi a X», le file di «tartarughe che di quando in quando sollevano le teste nude nello sforzo di guardare fuori dal regno delle tenebre». Intorno, un orrore che svela la sua tremenda dimensione acustica: «l’ululato dei cani nel ventre della montagna nera», la tempesta di urla rauche, quando sembrava che la paura «fosse diventata un vento impetuoso che investisse tutte insieme le corde vocali tedesche». Sopra di tutto, il Camino: il suo rosso tulipano acceso nel cielo di piombo, l’odore dolciastro, la cenere che si mescola alle nubi, genera polipi, piovre apocalittiche, elefanti fuligginosi.
Quando arriva al campo di Natzweiler-Struthof, Pahor ventenne non ha già più illusioni. Il manganello delle camice nere le ha già spazzate via dalla sua coscienza, contribuendo però a creare, nella scorza dell’Autore, un «sistema di difesa» che non permette ai sentimenti di penetrare fino al nocciolo dove è «concentrato l’istinto di sopravvivenza». Ricorda i fascisti che incendiano il teatro sloveno di Trieste, il loro danzare «come selvaggi attorno al grande rogo», la sua incredulità di fronte alla soppressione della lingua con cui ha «imparato ad amare i genitori e cominciato a conoscere il mondo». Una soppressione, durata un quarto di secolo, che «raggiungeva lì nel campo il suo limite estremo, riducendo l’individuo a un numero».
«Il trauma più grave insorse quando i maestri sloveni vennero cacciati dalle scuole di Trieste». Diventai, scrive Pahor, «razza condannata, un negro». Ecco perché nel campo sui Vosgi gli slavi della costa, pur portando la «I» sulla casacca a strisce, si dicevano «yugoslavi» davanti al kapò. Non volevano essere confusi con gli oppressori, ma anche non subire le conseguenze del disprezzo tedesco verso un popolo che per due guerre mondiali aveva tradito l’alleato. In una scena memorabile verso la fine del libro, degli istriani riescono a scampare al gas semplicemente dichiarandosi «austriaci», per il fatto di esse stati fino al 1918 sudditi di Francesco Giuseppe.
Ma il fascino del Bel Paese riesce egualmente a sfondare il muro del sospetto, anche lì nel Lager, davanti all’occhio di Medusa.
Quando il giovane Boris trova un vecchio giornale italiano, basta «il fruscio della carta» a dar luogo a «un’ondata di calore, quasi un’ondata di luce». Il cima alle colonne degli articoli c’erano nomi di città che «sorsero all’improvviso davanti a me con tutte le loro volte medievali, con gli archi gotici, i portali romanici, gli affreschi di Giotto, i mosaici di Ravenna». E poi la foto dell’attrice Alida Valli, bellissima sotto la luce della lampada a carburo, che evoca la memoria di un amore perduto e si fa ritagliare per essere incollata accanto al pagliericcio gelido.
Quella foto italiana è forse l’unica deroga all’inflessibile comandamento degli internati: non pensare mai al mondo dei vivi, perché quella memoria uccide. «La regola era non stuzzicare mai la morte con immagini di vita, perché la morte è una femmina vendicativa». L’istriano Tomaz, un uomo vulcanico e allegro che non smette mai di evocare il suo mare, il suo vino e i profumi della sua terra, non rivedrà mai casa e sparirà di scena con una lunga cucitura verticale dal pube alla gola, simile a una treccia, sul tavolo autoptico della morgue.
Non si deve ricordare, perché tanto i due mondi sono e resteranno incompatibili, anche dopo l’Olocausto. Pahor non sembra trovare rimedio a quella che chiama «la grande apatia dell’uomo standardizzato». L’Europa è una vecchia stanca che nel dopoguerra, anziché «compiere la propria purificazione», si è lasciata applicare occhi di vetro «per non spaventare i bravi cittadini con le sue occhiaie vuote». L’uomo europeo, ogni tanto, prova vergogna per questa sua situazione da eunuco: ma - conclude Pahor - esso ha già abbondantemente «scialacquato in anticipo il patrimonio di onestà e di giustizia che avrebbe dovuto trasmettere alle nuove generazioni».