Il piano regolatore
Dalla fine degli anni ’70, e successivamente in modo più accelerato, sono intervenute a Torino modificazioni radicali nella struttura industriale della città che dai luoghi della produzione hanno investito l’assetto territoriale e la composizione sociale della popolazione. Queste trasformazioni hanno comportato, per Torino come per altre città non solo italiane, la chiusura di impianti e di scali ferroviari, spesso collocati in posizioni centrali, considerati non più adeguati alle nuove esigenze della produzione, e il trasferimento di grandi complessi come la Dogana e i Mercati generali.
L’insieme di queste trasformazioni si è inserito in un contesto politico-ideologico caratterizzato dal prevalere di teorizzazioni e di scelte operative, improntate all’esaltazione del mercato come al discredito della programmazione e della pianificazione a tutti i livelli. Queste impostazioni hanno destrutturato le basi culturali, su cui si fondava tradizionalmente l’azione della sinistra (il Grande balzo all’indietro di Serge Halimy). Ma non si è trattato solo di segnali culturali: in Inghilterra, negli Stati Uniti, ma anche in Italia si sono affermati indirizzi di governo coerenti con quei principi.
Nel nostro paese, sono entrati progressivamente in crisi i grandi disegni riformatori di riassetto economico e sociale tracciati da alcune regioni e dal sistema delle autonomie, le cui premesse politiche e culturali risalivano agli anni ’60; in particolare quelli concernenti la riforma dei suoli. Già all’inizio del 1980 la Corte Costituzionale, malgrado quanto statuito dalla legge 10 del 1977, sancendo l’illegittimità della separazione fra proprietà dei suoli e diritto di edificare., ha colpito al cuore il potere degli enti locali di decidere dove, come, quando trasformare la città, nonché di determinare i costi di acquisizione delle aree espropriabili per esigenze generali. Anche in questo caso le conseguenze per la sinistra sono state nefaste. Il controllo della acquisizione privata della rendita urbana era stato un cavallo di battaglia per molti anni (dal secondo dopoguerra) di un fronte assai composito di forze politiche e sociali: dalle masse operaie sindacalizzate, che nel ’69 scioperarono per rivendicare costi ridotti delle abitazioni e quindi tagli radicali della rendita fondiaria, alla sinistra DC (il progetto Sullo è dell’inizio anni ’60), alle componenti della cultura cattolica più avvertita nei campi dell’economia (Siro Lombardini) e dell’urbanistica (Giovanni Astengo e la sua rivista Urbanistica). Con la sentenza dell’80 quel fronte politico-culturale si è sfaldato e la questione è stata completamente lasciata cadere dalla forze politiche e culturali di centro-sinistra.
Come si ricorderà, negli anni ’70 e ’80 la proprietà della casa si era estesa a ampi strati della popolazione, grazie non solo all’aumento dei redditi delle famiglie, ma anche per gli effetti prodotti da una legge dai contenuti improvvisati: la legge cosiddetta dell’”equo canone”. La carenza di interventi a favore dell’edilizia pubblica a basso costo (esempio unico nei paesi industrializzati d’Europa), aveva costretto molti a ricorrere alla proprietà, essendo scomparsa dal mercato l’abitazione in affitto. Questo fatto agli occhi ormai annebbiati di larga parte della sinistra, generò il silenzio più assoluto sui processi di formazione ed acquisizione privata della rendita fondiaria.
E’ in quel contesto che il Comune di Torino, fra il 1986 ed il 1995 ha portato a compimento il Piano regolatore, con una convergenza politica e culturale pressoché unanime, improntata alle seguenti scelte fondamentali:
- la scelta di ricercare un nuovo assetto urbano, conseguente all’abbandono di ogni politica di integrazione regionale o comunque di area vasta. Il nuovo disegno della città previsto dal Piano si fonda in primo luogo sull’espansione del settore dei servizi per le imprese e le famiglie [1], nel tentativo di ampliarne l’area di influenza delle attività di comando, insediate nel cuore di Torino (tradizionalmente riferite alla dimensione regionale), fino a comprendere il settentrione d’Italia e l’Europa;
- la scelta di ricercare investimenti per le infrastrutture della mobilità, finalizzati a privilegiare ristrette aree cittadine, cui affidare il compito della qualificazione e della specializzazione terziaria;
- la scelta di ricercare l’alleanza strategica con la proprietà fondiaria, individuata nelle maggiori industrie torinesi (Fiat, Michelin, Savigliano, ex Teksid) e nelle Ferrovie dello Stato, a loro volta alla ricerca della massima valorizzazione dei compendi immobiliari investiti dalla disattivazione produttiva o dalla obsolescenza degli impianti.
In conseguenza di quelle scelte il piano regolatore di Torino, approvato dalla Regione nell’aprile del 1995, contiene le seguenti linee principali:
- Il sostanziale azzeramento delle aree industriali. Le aree di trasformazione in senso residenziale e terziario, in gran parte già occupate da industrie, ammontano a poco meno di 9 milioni di metri quadrati. Esse comprendono le aree della cosiddetta “Spina Centrale”, estesa su 3 milioni di metri quadrati. Mentre il piano azzera le aree industriali nella città, nei comuni della provincia, soprattutto in quelli più prossimi a Torino, per quella destinazione si offre una disponibilità per circa 30 milioni di metri quadrati. [2]
- L’individuazione del corridoio mediano della città, costituito dalla Spina Centrale. Questa è percorsa da nord a sud dal cosiddetto “boulevard”, ricavato a copertura del tracciato ferroviario interrato, quale luogo privilegiato per l’insediamento di 23 mila abitanti e 32 mila addetti del settore terziario, dislocati con densità elevate e in forme che testimoniano la rilevanza eccezionale assegnata agli interventi previsti. E’ con riferimento a quel luogo che oggi si discute della opportunità e delle altezze dei vari grattacieli, già individuati dal Piano regolatore e successivamente esaltati da specifiche iniziative: gli uffici di Intesa–San Paolo; gli uffici regionali; il grattacielo Ligresti, etc. In sostanza le aree della Spina sono considerate dal Piano come il luogo in cui concentrare funzioni e forme caricate di rilevanza simbolica da esibire (e da far fruttare economicamente) sul piano non solo locale, ma nazionale e internazionale.
- L’indifferenza con la quale il piano tratta le condizioni ambientali della città, in particolare quelle dei quartieri di più antica formazione prossimi alla Spina (Centro 1; Crocetta 3; San Paolo 4; Cenisia - Cit Turin 5; San Donato 6; Aurora – Rossini 7; Barriera di Milano18), molto popolosi (350 mila circa), caratterizzati da forti densità edilizie e da attività soprattutto terziarie (7,5 milioni di metri quadrati costruiti), ma assolutamente carenti di spazi per servizi sociali. Si direbbe che sul tavolo da disegno della progettazione urbanistica il ritaglio delle aree della Spina sia arrivato del tutto separato dal resto del contesto urbano, per essere riempito con elementi (di qualità e quantità) estranei alla realtà urbana e riassumibili nello slogan: “ concentrare funzioni rare nel settore centrale della città”.
- La scarsa attenzione prestata ai beni culturali, che pure nella storia della città hanno caratterizzato molti degli insediamenti industriali [3]. Il Piano ha tutelato la città barocca ed i beni di maggiore rilievo, purché riconducibili alla tipologia della residenza e dei servizi collettivi, abbandonando alla demolizione o alla radicale trasformazione esempi pregiati di architettura industriale, degni di maggiore attenzione, essendo stata la destinazione produttiva di fatto bandita dalle aree industriali dismesse. Quanto è stato faticosamente salvato è il frutto di iniziative benemerite, intraprese a Piano approvato, non sempre però coronate da successo (come dimostra la vicenda delle Officine Grandi Motori di Corso Novara), che hanno teso a sottrarre al piccone demolitore architetture prestigiose.
L’intervento della proprietà privata sull’assetto del territorio.
Delineati contenuti e ragioni del Piano di Torino, conviene accennare ad alcune vicende, emblematiche del prevalere nel contesto locale di una rendita immobiliare in grado di imporre alle assemblee elettive decisioni improntate alla propria visione dello sviluppo urbano e alle proprie convenienze e non all’interesse collettivo.
La tendenza non è specifica né del torinese né della Regione Piemonte, tanto che, nella legislatura 2.001–2.006, essa stava per essere consacrata a norma, attraverso il nuovo “Testo della legge sul governo del territorio”, approvato soltanto da uno dei due rami del Parlamento, nel cui ambito si è profilato un atteggiamento non pregiudiziale da parte di ampi settori del centro-sinistra. In questa chiave, sembrano significativi alcuni casi concreti riguardanti il contesto locale, che vanno sotto il nome di Mondo Juve, Bor.Set.To, Millenium Canavese, tutti riconducibili alla prevalenza del “particulare” sull’interesse generale.
Al proposito è opportuno rammentare che un ente, persona fisica o giuridica, quando debba reperire somme consistenti, disponendo di proprietà immobiliari, può, nella comprensione generale, rivolgersi in primo luogo a quelle disponibilità, sapendo che su di esse nel tempo si accumulano plusvalenze fondiarie potenziali, traducibili in ricchezza reale, a condizione che le regole, gestite dagli enti locali, consentano interventi edilizi adeguati. Ove questo non si dia non resta che muovere i passi giusti per modificare le regole che si frappongono all’acquisizione delle plusvalenze, agitando accortamente presso l’opinione pubblica in alcuni casi il miraggio del possibile rilancio di una qualche iniziativa economicamente o moralmente benemerita, in altri la minaccia del dissesto economico, e quindi la falcidia della manodopera eventualmente impiegata.
La modifica delle regole consiste sostanzialmente in un’operazione cartacea: si tratta semplicemente di variare un qualche segno, di aggiungere o rimuovere un qualche articolo di una norma astrusa, contenuta in un piano regolatore in genere difficile da comprendere e ignoto ai più. E poi quella modifica così decisiva, ha questo di bello: non costa nulla; al pari delle riforme a costo zero produce solo ricchezza, che in realtà nessuno paga; quindi nei confronti di quella modifica, venuta meno la presenza vigile dei partiti (almeno di alcuni), nessuno più ha interesse ad opporsi.
Mondo Juve
Si tratta di una vicenda collegata con le esigenze di risanamento di bilancio della “ Juventus Football club s.p.a”.
L’operazione riguarda l’Ippodromo, sito nei Comuni di Nichelino e di Vinovo, su un’area di 50 ettari circa; l’Ippodromo si trova in quella ubicazione dai lontani anni ’50 del secolo scorso, trasferito a sua volta dal settore sud di Torino, dal cosiddetto Quartiere Ippodromo (QUIP), prossimo alla Fiat Mirafiori. Su quell’area sorge ora un bel quartiere ad alta densità, che ha sostituito le aree verdi, allora occupate dall’Ippodromo. L’area dell’Ippodromo ora in Vinovo, incalzata per la seconda volta dall’espansione urbana, si trova a fruire delle seguenti condizioni:
- è ai margini del Parco di Stupinigi, quindi in un intorno di indubbio prestigio ambientale;
- è lambita dal nuovo tracciato della SS 23 di collegamento con il pinerolese e più oltre con il comprensorio del Sèstrière; la Statale a sua volta si innesta nella Tangenziale, immediatamente a nord dell’area in questione;
- è lambita dalla ferrovia Torino Pinerolo, per la quale sono previsti piani e programmi regionali di potenziamento e comunque di inserimento del tracciato nella rete regionale, con i conseguenti vantaggi di appartenenza al “ passante” di Torino. E’ prevista l’istituzione di una fermata, in prossimità delle aree dell’Ippodromo, che alcuni vorrebbero spostare proprio in corrispondenza del “ parco commerciale Mondo Juve”;
- è estesa e ben ubicata, non da oggi è inserita in un settore ampio e popoloso della zona sud dell’area torinese.
Come si vede si danno tutte le condizioni perché l’area in questione per le potenzialità geografiche di cui fruisce, per le infrastrutture esistenti o previste, possa essere utilizzata per destinazioni di rango più elevato, più redditizie, rispetto alle attuali. Di qui la proposta della Società Mondo Juve di trasformare l’area dell’Ippodromo in “ parco commerciale”, integrato con altre destinazioni. La proposta, avanzata dalla Società, fatta propria dai Comuni di Vinovo e Nichelino, è stata oggetto di varianti di piano regolatore, felicemente approvate dalla Regione.
Bor.Set.To. [5]
La vicenda, che va sotto il nome di Bor.Set.To (acronimo di Borgaro, Settimo, Torino), rappresenta uno dei casi più emblematici di prevalenza degli interessi privati su quelli pubblici.
La vicenda ha radici lontane: inizio anni ’60. La Società per azioni “Urbanistica Sociale Torinese”, controllata dalla “Società Generale Immobiliare” (Sogene), allora con partecipazione del Vaticano, acquistata una grande estensione di terreni agricoli nel settore nord di Torino, propone di costruire una “ città satellite” per 60 mila abitanti. La proposta raccoglie adesioni e contrasti, ma non passa. All’inizio degli anni ’90, fallita la Società Sogene (abbandonata nel frattempo dal Vaticano), la proprietà dei terreni (oltre 3 milioni di metri quadri) passa alla neo costituita Bor.Set.To., formata dalla Cooperativa Antonelliana, dalla COGEDIL (Ferrero Acciaierie), Valorizzazioni edili (Ligresti), Deiro ed altri.
Nel 1996 la Regione Piemonte, la Provincia e i Comuni interessati, coordinati dall’allora Assessore provinciale Luigi Rivalta, conducono avanti un tentativo, fallito, di acquistare tutte le aree per 30 miliardi di lire.
Nell’aprile del 1999 il Consiglio Provinciale di Torino adotta il Piano Territoriale di Coordinamento che, per essere operante, abbisogna per legge della approvazione Regionale. Quel piano disegna le linee di trasformazione del territorio provinciale e indica, per quanto qui interessa, i seguenti obiettivi/vincoli:
1. la tutela del territorio agricolo e dunque anche delle aree Bor.Set.To, dotate di elevata fertilità, al fine di preservare le poche aree ancora libere nella conurbazione torinese, soggetta ad intensa urbanizzazione;
2. coerentemente il settore Borgaro–Settimo (e dunque le aree Bor.Set.To.) non risulta compreso fra le direttrici di ulteriore espansione sia per residenze che per attività;
3. il Piano, adottato dal Consiglio Provinciale nella primavera del 1999, in conformità alle disposizioni di legge, avrebbe dovuto entrare in “salvaguardia” a tutela dei contenuti, affinché i comuni non potessero formare piani in contrasto con il Piano Provinciale stesso, fino all’approvazione regionale, o almeno per tre anni dall’adozione.
Adottato nell’aprile del 1999, il Piano arriva in Regione per l’eventuale approvazione. Qui sorgono problemi e difficoltà. Intanto si scopre che per un banale refuso della legge (la legge regionale urbanistica) non è possibile applicare la salvaguardia a favore del Piano provinciale. Invece di risolvere l’errore mediante un’immediata e modestissima correzione della legge regionale, la questione resta senza soluzione per otto anni, fino al gennaio 2007 [6]. Non solo. Malgrado la legge regionale limiti a 90 giorni il periodo entro il quale la Regione deve approvare o respingere il Piano Territoriale, la decisione formale viene assunta dopo 4 anni, nell‘agosto 2003, dopo 1.460 giorni.
Mentre la Regione “valuta”, su proposta dei Comuni di Settimo, Borgaro, Leinì e Volpiano, prende avvio il cosiddetto “ URBAN Italia”. I programmi URBAN sono finanziati dal Fondo europeo, a favore dello sviluppo sostenibile (termine usato ed abusato) di città e di quartieri soggetti a crisi. Nel caso specifico le indicazioni di URBAN Italia hanno smentito totalmente le linee del Piano Territoriale provinciale, in quanto hanno configurato un comprensorio industriale di centinaia di ettari, una barriera urbanizzata in barba alla tutela delle aree agricole. Dormiente il Piano Provinciale, URBAN Italia ha tutto il tempo di essere approvato (27 maggio 2002) dal Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti.
Se URBAN Italia costituisce lo strumento (il bastone), che sconvolge i contenuti del Piano Provinciale, nello stesso periodo viene varata l’iniziativa (la carota), tendente a qualificare il territorio prossimo alle grandi infrastrutture stradali di Torino, denominato “tangenziale verde”.
Tra fine 2002 e inizio 2003 si danno le condizioni perché finalmente, dopo oltre 40 anni di traversie, si possa risolvere l’annosa vicenda delle aree già Sogene. Le condizioni al contorno sono le seguenti:
1 il Piano Provinciale attende l’approvazione regionale. A scanso di sorprese la Regione ha “consigliato” e la Provincia accettato di fare proprie correzioni al Piano che rendono assai meno incisivi i vincoli originari;
2 sono diventati operanti i documenti, che danno alle previsioni di espansione delle aree Bor.Set.To. il carattere dell’ufficialità e del prestigio;
2 il Comune di Borgaro Torinese ha approvato una variante al proprio Piano Regolatore, che trasforma la destinazione di una parte delle aree Bor.Set.To. da agricole a servizi per parchi urbani e territoriali. Questa destinazione, per legge, dovrebbe comportare l’esproprio delle aree relative. Ma da tempo, grazie all’apporto qualificato della migliore cultura urbanistica, vige la linea della cosiddetta “ perequazione”, in base alla quale a fronte di espropri costosi per la collettività e invisi alle proprietà, si può praticare una strada più “civile”, concordare con la proprietà una sorta di “do ut des”, grazie alla quale il Comune concede possibilità di costruire su parte dei terreni, in cambio della cessione gratuita della restante proprietà. Questa è la strada che si profila come migliore e più conveniente anche per le aree Bor.Set.To., dato che sarebbe una incongruenza, figlia ormai di un passato lontano e superato, imboccare la strada dell’esproprio sulle aree destinate a parco.
Queste sono le condizioni che rendono possibile e opportuno il Protocollo d’intesa fra i Comuni di Borgaro, Settimo e Torino con la partecipazione di Provincia e Regione. Il Protocollo stabilisce l’edificabilità per le diverse destinazioni (270.000 metri quadrati di superficie edificabile per residenze, industrie, terziario) da realizzare nei tre comuni; stabilisce altresì quali e quante aree (2,6 milioni di metri quadrati da destinare a parchi, sevizi sociali, strade) si debbano cedere come contropartita per i Comuni, nei quali ricadono le aree Bor.Set.To.
Il 1 agosto 2003, dopo oltre quattro anni di elaborazioni e verifiche assai impegnative, la Regione approva il Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Torino. Dopo quaranta anni di traversie, giustizia è fatta!
Millenium Canavese
Nella piana, estesa a sud-est di Ivrea, in prossimità dell’abitato di Albiano, su un’area di 60 ettari circa, disposta in fregio all’autostrada Santhià–Ivrea, nasce alla fine degli anni ’90 il progetto “ Millenium Canavese”. Il progetto prevede la realizzazione di un complesso “ polifunzionale”, comprendente un parco a tema, un albergo, un’area commerciale, spazi di ristorazione, servizi, per un investimento stimato in 170 milioni di euro. E’ prevista la frequentazione di un milione e seicentomila visitatori all’anno per il parco a tema e dieci milioni per l’area commerciale. E’ previsto inoltre che l’impianto dia lavoro a settecento addetti. L’ubicazione dell’intervento trae origine da due elementi fra loro collegati:
1. la proprietà dell’area, originariamente in capo alla Società Olivetti, confluita nella Società Mediapolis, a formare una quota di partecipazione, rispetto ad altre, detenute da finanziarie italiane ed estere;
2. la facilità di accesso da un bacino di utenza potenziale di ampie dimensioni, costituito dalle popolazioni di Milano, Torino, Genova, servito magnificamente dalle autostrade Milano–Torino; Voltri–Sempione; Torino– Aosta, connesse a loro volta dalla “bretella” autostradale Santhià–Ivrea.
L’iniziativa, promossa dalla Società Mediapolis, ha ottenuto tutte le approvazioni necessarie e vinto tutte le controverse giunte fino al Consiglio di Stato.
La data di approvazione (giugno 2003) dello strumento urbanistico non può passare inosservata. E’ certamente per pura combinazione che anche nel caso della vicenda Millenium Canavese (al pari di quanto accaduto per la vicenda Bor.Set.To) l’approvazione del Piano Territoriale sia avvenuta proprio all’indomani della conclusione della variante del piano regolatore di Albiano, che ha consentito di mutare destinazione dell’area interessata da agricola in “ parco a tema”. Senza quella fortuita combinazione infatti le indicazioni del Piano Territoriale avrebbero impedito o almeno seriamente ostacolato l’approvazione regionale della variante al piano di Albiano
Conclusioni
In tutti i casi citati l’iniziativa prende le mosse dall’interesse privato. Il leitmotiv consiste nel presentare l’operazione come occasione irripetibile per assicurare un vantaggio per la collettività, in termini di sviluppo economico e/o di acquisizione di patrimoni fondiari da destinare a servizi sociali di rilievo locale o sub regionale.
Nel settore del governo del territorio l’interesse privato ha costituito da sempre il risvolto concreto delle decisioni assunte dalla mano pubblica. Al centro delle trasformazioni e delle iniziative si stagliano la formazione e l’acquisizione privata della rendita urbana, nella duplice forma di rendita assoluta e di rendita differenziale; la prima derivante dallo sviluppo economico e dalla crescita della ricchezza in una determinata località; la seconda derivante dalla entità e dalla concreta distribuzione sul territorio degli investimenti infrastrutturali e dalla generale valorizzazione dell’ambiente urbano.
Nei tempi andati l’ente pubblico tentava spesso, con alterna fortuna, di reagire a quelle tendenze attraverso alcune linee di azione e grazie a risorse interne oggi indisponibili:
1 la spinta culturale e politica, rivolta a riportare, per quanto possibile, la ricchezza prodotta dalla collettività alla collettività stessa. Questo principio, divenuto prevalente negli anni ’60 del secolo scorso con la partecipazione della cultura più avvertita e di un ampio schieramento politico, ha trovato attuazione in atti legislativi specifici rivolti a far acquisire alla mano pubblica una parte consistente della rendita urbana;
2 la formazione di strumenti di pianificazione, soprattutto comunali, i quali, pur entro il vigente sistema di formazione e acquisizione privata della rendita, avevano lo scopo di modellare le città in modo da attenuare le disfunzioni più vistose, create dalla rendita stessa, attraverso politiche redistributive (la politica della casa, dei trasporti, dei servizi etc.), riservando alla collettività il potere di decidere dove, quando, in che modo dare corso alla trasformazione urbana;
3 l’utilizzo di un principio affermato a tutte lettere già dalla legislazione urbanistica, emanata in epoca fascista (1942), in base al quale, si doveva evitare di trasferire a vantaggio dell’interesse privato le plusvalenze fondiarie, derivanti da mutamenti di destinazione del suolo resi necessari dallo sviluppo della città.
Questi indirizzi sono stati bensì oggetto di provvedimenti non sempre lucidi e determinati: nel passato non mancano esempi di operazioni contraddittorie o culturalmente inadeguate. Oggi però la situazione è radicalmente mutata: nessuna forza né politica né culturale si propone di elaborare strumenti amministrativi o provvedimenti legislativi per controllare la rendita urbana. Nella legislazione italiana non esiste più, perché abrogato, il principio della indifferenza del valore dei suoli rispetto alle scelte di piano regolatore, affermato a suo tempo dall’articolo 38 della legge urbanistica del ’42. Troppo spesso si ricorre a questioni di rilievo formale–ambientale, trascurando ragioni di ordine strutturale. E’ il caso degli argomenti, con cui di recente si è cercato di contrastare la costruzione del grattacielo Intesa-San Paolo: ci si oppone a quell’edificio in quanto esso si porrebbe in competizione con l’altezza della Mole Antonelliana (180 metri contro 150), quando le ragioni di fondo per contrastare quella iniziativa andrebbero ricercate nelle scelte strutturali del Piano regolatore, riguardanti sia la natura e la distribuzione delle funzioni, sia le densità abnormi che quelle funzioni richiedono.
E’ a questa realtà che occorre acconciarsi? Non ne sono ancora convinto.
Raffaele Radicioni è architetto ed è stato assessore all'urbanistica del Comune di Torino durante la giunta Novelli.
[1] Giuseppe De Matteis, Anna Segre “Da città – fabbrica a città – infrastruttura”, in “Spazio e Società” n. 42 aprile – giugno 1988.
[2] Provincia di Torino – Assessorato alla Pianificazione Territoriale. “PTC. Ricerca sul Sistema Produttivo della Provincia” a cura di Emilio Barone e Sergio Conti. Febbraio 1999.
[3] Si veda in particolare il lavoro svolto dal Politecnico di Torino, Dipartimento Casa – Città dal titolo “Beni culturali ambientali nel Comune di Torino”, edito dalla Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino nel 1984.
[4] Il Parco Naturale di Stupinigi è stato istituito con Legge Regionale 14 gennaio 1992, n.1.
[5] L’esposizione fa ampio riferimento al “Libro Bianco Bor.Set.To” a cura del Coordinamento per la difesa delle Aree Bor.Set.To e dintorni, pubblicato nel marzo 2005.
[6] L’errore è stato corretto avendo avuto la fortuna di essere ripreso nella legge regionale n. 1 del 26/01/2007, nata con ben altri obiettivi, essendo rivolta a la “Sperimentazione di nuove procedure per la formazione e l’approvazione delle varianti strutturali ai piani regolatori generali. Modifiche della legge regionale 5 dicembre 1977, n. 56 (Tutela ed uso del suolo)”.